Le foto di Fabrizio Uliana non mancano di lasciare perplessi

Ciò perché si tratta di anamorfosi, certo, ma anche perché non sono foto di una qualsiasi città: si stanno guardando le foto di Venezia.

Quando un fotografo punta il suo obiettivo su questa città, non può ignorare l’infinita serie di altre immagini – dipinti, incisioni, fotografie – insignificanti o prestigiose, che i suoi palazzi e canali hanno ispirato nei secoli. Nessuno può contemplare Venezia senza che le immagini che ha già visto interferiscano con ciò che si presenta ai suoi occhi, e nessun artista può rappresentarla senza interrogarsi sull’interesse di tale gesto. Nel caso di Fabrizio Uliana, questo gesto ha in sé qualcosa di sacrilego: distrugge questa città destinata a offrire in spettacolo l’armonia delle sue costruzioni.

Come tutti, ho visto immagini di Venezia molto prima di andarci. E tra queste, alcune hanno acquisito un rilievo particolare quando le confronto con le immagini fratturate proposte da Fabrizio Uliana. Ne evocherò due.

Quando ero bambino e soggiornavo dalla nonna, ero incuriosito da due piccoli quadri circondati da una cornice dorata di circa 15 cm. per 30, posti accanto al suo letto. Raffiguravano ciò che in seguito ho capito essere gondole che navigano su stretti canali. Le loro forme nere spiccavano sul blu profondo della notte e dell’acqua, dove danzavano alcune macchie di luce: riflessi delle lanterne e della luna. Non mi chiedevo nemmeno se fossero foto o dipinti: per me erano solo immagini inserite dietro una lastra di vetro e che ero incapace di ricollegare a un luogo o a un periodo specifico. Qualche anno dopo, ho capito che si trattava di Venezia e, molto tempo dopo, che mia nonna aveva probabilmente collocato lì quei piccoli quadri per ricordare un momento privilegiato della sua esistenza: il suo viaggio di nozze, nell’aprile del 1913. In quei tempi, in una famiglia borghese un tale viaggio era d’obbligo, così come lo era l’acquisto di souvenir, in questo caso questi quadri firmati da un pittore locale che li produceva in serie per i turisti.

Il secondo ricordo è di tutt’altra natura poiché si tratta del film “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, che ho visto al momento della sua uscita nel 1971. Non ero ancora mai stato a Venezia, ma questo solo nome evocava già per me una moltitudine d’immagini e di storie.

Il film di Visconti, come il racconto di Thomas Mann da cui è tratto, fa di Venezia contemporaneamente il luogo della Bellezza, il luogo dove bisogna morire e dove la morte per eccellenza aleggia: a Venezia non c’è morte se non attraverso la morte stessa di Venezia.

Nella mia memoria si sono fissate le ultime immagini, quelle di una scena minuziosamente descritta da Thomas Mann: il sole sta tramontando sul mare, di fronte al protagonista della storia, lo scrittore Gustav von Aschenbach, che agonizza sulla spiaggia. Guarda il bel adolescente di cui è innamorato entrare in mare e alzare un braccio verso un punto inaccessibile. Lo spettatore deve capire che questo angelo biondo è un mediatore verso la morte, ma anche una figura dell’artista. Immagine profondamente romantica che questa morte del sole e dell’artista che è anche l’avvento dell’opera d’arte.

Quando vedo le foto di Fabrizio Uliana, ho la sensazione che esse prendano congedo da tutte queste belle immagini: quelle dei viaggi di nozze e dei turisti, come quelle in cui l’Arte si nutre di una morte sublimata dalla pienezza di un sole che tramonta su una città fantomatica.

In questo mondo di belle immagini, quando si vuole mostrare la morte al lavoro a Venezia, si fotografano le nebbie che annegano le forme, il lento lavoro della corrosione, o lo spettacolo di una sommersione: Venezia inghiottita dalla nebbia, Venezia che si crepa e sprofonda lentamente nelle acque, o Venezia, come Pompei, vittima di una catastrofe improvvisa. Questo è il destino sognato di una città da molto tempo condannata a vivere della propria morte.

Le foto di Fabrizio Uliana hanno qualcosa di singolare in quanto non mostrano né la nebbia, né la corrosione, né la sommersione, ma una Venezia che nessun occhio di chi vi passeggia potrà mai vedere: fratturata, capovolta, disallineata, contorta da una deformazione multipla che nulla può fermare.

Come se, per mettere fine alla proliferazione incontrollabile di queste immagini che è un tutt’uno con la Venezia che ci appare reale, fosse necessario deformare le immagini per intravedere una Venezia al di là delle sue immagini, una Venezia più reale della sua realtà.

Piuttosto che ripristinare mentalmente sulle foto di Fabrizio Uliana le parti mancanti degli edifici e raddrizzare le linee curve per ritrovare la Venezia che ci è familiare, ho la sensazione che bisogna accettare che quella città sia una città catastrofica, e non una città sulla quale le catastrofi cadono per caso.

Alcune foto sembrano rivelatrici, anche se la deformazione è poco spettacolare. Penso in particolare alle due immagini che mostrano il leone scolpito (n° 33, Scuola della Misericordia, e 34, Arsenale), simbolo della defunta potenza della città. Un’immagine romantica li avrebbe mostrati usurati dal tempo o spezzati, ma vediamo solo dei leoni con la testa stranamente inclinata, né comici né tragici.

Come se fosse nella natura di questi leoni essere deformi in quel modo. Penso anche ad un’altra foto in cui la deformazione è quasi invisibile, tanto è radicale (n° 18, Vini da Gigio): il paesaggio si capovolge su se stesso, tanto che un uomo si trova di fronte a se stesso, senza alcuna superficie riflettente. Quest’uomo non va da nessuna parte, non ha alcun tratto che lo possa collegare alla città, o addirittura all’Italia, ma è il nostro contemporaneo: con i suoi jeans, il suo cappellino da baseball, le sue sneakers, può essere di Venezia come di qualsiasi altro luogo. L’immagine rivela la verità, quella di una città popolata di passanti che non ha altro futuro che la contemplazione di se stessa, senza alcun oltre. Tali foto non deformano le forme, ma rivelano la deformazione che ogni forma maschera, la minaccia che queste forme continuano a respingere con la loro armoniosa bellezza.

Ma spezzare le belle immagini, integrare così teatralmente la deformazione, non è anche un modo per preservare in anticipo Venezia da tutte le deformazioni che gli uomini, il tempo e le acque le hanno inflitto e le infliggeranno, un modo per metterla al riparo nel mondo dell’arte? Il fotografo che diventa iconoclasta non può facilmente uscire dal triangolo che lega Venezia, la Bellezza e la Morte.

In copertina: Fabrizio Uliana, Santuario di Santa Lucia, © Fabrizio Uliana 2023

L'autore

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Dominique Mainguenau

Ex allievo della Scuola normale superiore di Saint-Cloud, abilitato in lettere moderne, ha studiato letteratura, filosofia e linguistica specializzandosi nell’analisi del discorso.
È professore emerito della Sorbona.
È stato membro senior dell’Istituto Universitario di Francia.