Premessa

Da alcuni anni le Nazioni Unite (NU) hanno inserito la voce “disagio mentale” nella “Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile”, considerandola uno degli Sustainable Development Goals da raggiungere entro il 2030. La promozione della salute mentale è anche un obiettivo strategico dell’OMS che la definisce come “Uno stato di benessere in cui ogni individuo realizza il proprio potenziale, è in grado di far fronte agli eventi stressanti della vita, è in grado di lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di fornire un contributo alla comunità”.

Sappiamo che il benessere mentale riflette l’equilibrio tra un individuo ed il suo ambiente, e contestualmente l’omeostasi tra i fattori di natura biologica/genetica correlata alle diverse interazioni sociali. Con tutta evidenza, dunque, il benessere mentale/psicologico è influenzato dalle caratteristiche individuali, ma incidono pesantemente anche le circostanze socio-economiche, l’ambiente in cui vivono le persone ed i diversi contesti familiari: allora rivestono grande importanza le risorse sociali, a partire dai modelli di welfare ed alle forme di sostegno dei servizi e della comunità.

La salute mentale è un costrutto teorico assai complesso, fortemente influenzato dalla cultura del contesto che si caratterizza per numerose dimensioni: svolgono un ruolo significativo i sostegni di carattere valoriale e culturale per contrastare e superare lo stigma e nel contempo i rischi di conflitto che si generano con tutte le differenze, comprese i comportamenti correlati alle patologie psicotiche. L’isolamento e lo stigma provocate dal disagio mentale incidono sulla possibilità di funzionamento dell’individuo, sul contesto familiare e sulla comunità in cui il soggetto vive, provocando solitudine e isolamento di chi assiste o si fa carico della persona con disturbi psicologici o psicotici prima di tutto, impoverendo la comunità stessa delle opportunità offerte dall’equilibrio complessivo del sistema.

Quale forma del disagio?

I dati ci dicono che le depressioni ed i disturbi d’ansia costituiscono le principali cause di disagio nella popolazione. Si tratta di patologie che impattano sulla qualità della vita provocando insoddisfazione, tristezza, apatia, inappetenza, insonnia, capacità di attenzione e di concentrazione.  Eventi stressanti aumentano evidentemente il rischio di depressione, ma anche l’aumento della depressione può incidere sulla perdita del lavoro, sull’isolamento nella comunità, istaurando un pesante circolo vizioso difficile da interrompere. L’OMS valuta in oltre 350 milioni le persone affette da depressione nel mondo, essa è una delle principali cause di disabilità a livello mondiale, particolarmente nelle donne. L’Italia non fa differenza.

Sono le donne le “utenti” principali dei servizi di salute mentale in tutte le fasce di età, pochi i giovani sotto i 25 anni, meno gli uomini che soffrono di depressione, che  però detengono il primato dei suicidi. È probabile che gli uomini trascurino i sintomi depressivi, anche per influenze culturali. I tassi relativi ai disturbi schizofrenici, ai disturbi da abuso di sostanze e al ritardo mentale sono maggiori nel sesso maschile rispetto a quello femminile, mentre l’opposto avviene per i disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. In particolare per la depressione il tasso degli utenti di sesso femminile è quasi doppio rispetto a quello del sesso maschile (25,4 per 10.000 abitanti nei maschi e 43,2 per 10.000 abitanti nelle femmine)

E gli stranieri?

Il tasso degli utenti stranieri con residenza in Italia in trattamento nel 2022 presso i servizi di salute mentale del paese è pari a 98,1 per 10.000 cittadini stranieri residenti e gli stranieri che sono stati in trattamento nel 2022 rappresentano il 5,2% del totale degli utenti trattati presso i servizi di salute mentale. Questi indicatori permettono, secondo le indicazioni del PANSM (Piano nazionale di salute mentale), di valutare l’accessibilità della popolazione immigrata ai servizi di salute mentale e l’impatto sui servizi stessi, anche se il dato riguarda solo chi ha la residenza, quindi il rischia di non essere esaustivo. Si tratta di persone esposte ad ingiustizie, abusi e difficoltà di adattamento al nuovo, fonti di stress fisici e mentali.  Emerge l’importanza dell’interdisciplinarietà, ma anche la promozione di nuove figure professionali, come i mediatori culturali. La realtà è per molte ragioni in continua evoluzione, e servono sempre politiche sanitarie innovative ed integrate con un nuovo welfare, che agisca nella comunità in termini di generazione di benessere.

Gli adolescenti

Molti fattori causano disagio agli adolescenti tra cui la pandemia, le incertezze delle tensioni internazionali, le condizioni dell’ambiente e la crisi climatica che hanno reso più difficile la gestione delle loro emozioni, con un incremento del malessere generale della popolazione adolescenziale. Anche la mancanza di attività fisica e l’uso problematico dei social media sono fattori di rischio diffusi tra i giovani. Sempre a livello globale si stima che un adolescente su sette tra i 10 e i 19 anni è alle prese con un disturbo psicologico, con diversi sintomi correlati alla depressione, all’ansia e ai disturbi comportamentali che risultano prevalenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sottolinea l’importanza della diagnosi precoce e del trattamento dei problemi di salute mentale riscontrati in adolescenza, evitando l’istituzionalizzazione e l’eccessiva medicalizzazione. Inoltre i disturbi del comportamento alimentare negli adolescenti è in costante crescita dopo la pandemia da Covid, e si sta estendendo anche ai ragazzi, mentre finora colpiva quasi esclusivamente le adolescenti, caratterizzandosi come una patologia di genere. Infine non va trascurata la questione della fluidità sessuale, storicamente ignorata o declinata in forme di cura assai nocive, mentre i pregiudizi e l’ignoranza relativa al fenomeno rischiano di provocare ansia, tristezza, crisi identitaria gestita in totale solitudine. Tutte queste considerazioni suggeriscono una profonda innovazione dei servizi di prossimità, in piena integrazione tra i servizi forniti dalle case di comunità (dai consultori ai servizi di salute mentale), alle politiche di welfare di comunità gestiti dalle amministrazioni locali. Gli interventi psicosociali per gli adolescenti devono essere collocati in una comunità che si assuma per intero la responsabilità educativa. Le superficialità con cui si trattano i comportamenti trasgressivi dei ragazzi, stigmatizzati spesso con forme linguistiche che favoriscono la costruzione patologica della propria identità, (ad es. l’abuso del termine baby gang), evidenzia l’incapacità di vedere le richieste d’aiuto, che dall’individuo si spostano progressivamente al gruppo dei pari.

Il disagio mentale e la medicina di genere

Come detto i disturbi depressivi vengono diagnosticati quasi due volte più spesso nelle donne che negli uomini. Gli ormoni sessuali influenzano la disponibilità di neurotrasmettitori nel cervello, ma assumono rilevanza anche lo squilibrio nella divisione delle mansioni tra uomini e donne che aumenta lo stress psicologico. Dall’altra parte, una buona posizione sociale, l’indipendenza finanziaria o il riconoscimento sociale nel lavoro agiscono come fattori protettivi contro la depressione. Sono molti gli studi che mostrano come i modelli di ruolo prevalenti influiscano sulla diagnosi e sul trattamento dei disturbi mentali.  Abbiamo già trattato come per gli uomini è più difficile cercare aiuto per la depressione. E anche tra i professionisti si osserva la tendenza a diagnosticare più spesso malattie “tipicamente femminili” o “tipicamente maschili” nel genere corrispondente.

Il disagio mentale, quindi, si colloca nella più vasta tematica della medicina di genere i cui obiettivi vanno riproposti anche in questo contesto:

  • Garantire la prevenzione, la diagnosi e la cura ad ogni persona con un approccio che tenga conto delle differenze di genere, in tutte le fasi della vita e in tutti gli ambienti di vita e di lavoro;
  • Promuovere e sostenere la ricerca biomedica, farmacologica e psico-sociale basata sulle differenze di genere e trasferimento delle innovazioni nella pratica clinica;
  • Garantire adeguati livelli di formazione e di aggiornamento di tutto il personale medico e sanitario in tema di Medicina di genere;
  • Promuovere la conoscenza della Medicina di genere presso tutti gli operatori della sanità e la popolazione generale, e nelle diverse articolazioni del welfare.

Gli psicologi di base e di comunità

Si definisce psicologo di base un professionista che ha conseguito una laurea magistrale ed è iscritto all’albo degli psicologici. Il concetto “di base” riguarda l’accoglienza del bisogno psicologico e del primo segnale d’aiuto. Per questo lo si vuole inserire nel circuito delle Cure Primarie, nella medicina di base. L’ Attività psicologica nell’assistenza sanitaria primaria ha una valenza estremamente importante rispetto a provvedimenti spot, come il famoso “Bonus Psicologo” che non può certo risolvere un disagio che abbisogna di continuità terapeutica ed integrazione socio/sanitaria dell’intervento. Fino ad ora il ruolo dello psicologo e l’importanza della psicologia sono stati oltremodo trascurati, affidando il benessere psicologico soprattutto agli studi privati.

Si evidenzia l’importanza a delle cosiddette delle Scienze della vita come la psicologia e la psichiatria, l’antropologia che debbono agire nella pratica di cura interdisciplinare. Non si tratta solo di inserire lo psicologo di base semplicemente nelle équipe che si occupano della cura, quindi nei circuiti delle cure primarie, ma si tratta di utilizzare il loro apporto nella promozione della salute e nella prevenzione del disagio. Deve essere chiaro: la psicologia di base è fondamentale e l’introduzione nelle Cure primarie dello psicologo e condizione essenziale per il benessere, ma anche la prevenzione ha bisogno di piani che escano dai luoghi della cura e della riabilitazione.

Una parola chiave è prossimità. Non ci si riferisce esclusivamente alla domiciliarità, ed alla diffusione di servizi territoriali prossimi ai cittadini, ma anche all’interazione tra servizi di base e specialistici, tra ospedali e territorio ecc.

Bisogna promuovere nuovi paradigmi e nuove forme di partecipazione ai percorsi di salute, quindi anche un diverso ruolo della comunità rispetto al benessere individuale e sociale. Se vogliamo che la salute mentale sia tale è necessaria la promozione della salute basata su un processo multifattoriale e intersezionale. Si deve cioè agire per sviluppare empowerment, coping , life skills per fronteggiare eventi stressanti e traumatici anche di tipo sociale. Ci vuole lo psicologo di comunità. Infatti lo Psicologo di Comunità si prende cura di un contesto sociale e delle persone che ne fanno parte, promuovendo lo sviluppo di relazioni armoniche e delle risorse interne. Un primo livello di azione è quello dell’ascolto e del counseling, finalizzato ad esempio alla gestione di situazioni interne stressanti. Accanto agli strumenti tipici della psicologia come questionari, test e colloqui, lo Psicologo di comunità dispone di metodi e tecniche per ottenere un “profilo di comunità” su cui poi intervenire per promuovere dinamiche positive. Un altro strumento particolare a cui può ricorrere è la “ricerca azione”, che prevede il coinvolgimento dei soggetti che fanno parte di una comunità nella raccolta di opinioni e suggerimenti per migliorarne la coesione e il funzionamento. Un ruolo importante può essere la consulenza ad amministratori e policy makers nella progettazione di interventi pubblici.

Le demenze, un’esperienza dello psicologo di comunità

Ho vissuto personalmente l’esperienza pluriennale dei caffè Alzheimer, avendone promossi quattro nel territorio Bolognese. Si tratta di esperienze che si collocano nel contrasto allo stigma della malattia, nella lotta all’isolamento delle persone con demenza e dei caregiver, al supporto dei caregiver stessi attraverso colloqui individuali e di gruppo con i familiari, oltre a fornire forme di stimolazione cognitiva in termini giocosi ai partecipanti con demenza.

Lo psicologo svolge un ruolo rispetto alla comunità costituita dai caffè Alzheimer, sia nel supporto psicologico in senso stretto, sia nel coinvolgimento della comunità in cui si svolgono i caffè, di solito circoli o case di quartiere frequentati da persone di varie generazioni. Analizzato il profilo di comunità lo psicologo estende al di fuori del caffè azioni di prevenzione, e forme di integrazione attivando risorse e azioni che accrescono il coinvolgimento dei caregiver, delle persone con demenza e la comunità. Ad esempio favorendo l’incontro con le scuole materne del territorio in cui si “scambiano” regali fra bimbi ed anziani in occasioni di date significative, oppure con le feste da ballo con cui si integrano altri soggetti del luogo, con azioni di welfare culturale, come la partecipazione a mostre o a musei su cui poi lavorare con gli strumenti della psicologia e della psichiatria. Le demenze sono malattie neurologiche che però portano con sé sintomi psicotici molto disturbanti. Per questo l’azione ambulatoriale ha un peso modesto, così come l’apporto farmacologico, molto importante, ma non esaustivo. Ad esempio anche la formazione sul trattamento dei comportamenti atipici è molto importante per la gestione dei disturbi comportamentali correlati alle demenze, anche se è conclamato che la socialità ne mitiga la frequenza. Insomma si agisce sul benessere dei partecipanti coinvolgendo l’intera comunità che li circonda.

È un’azione di psicologia di comunità anche l’attività svolte nelle salette condominiali, quando, ponendoci l’obiettivo della prevenzione delle forme di deterioramento cognitivo degli anziani, costruiamo incontri settimanali di ginnastica mentale per gruppi anche numerosi di ultrasessantacinquenni. L’esperienza si basa sulle forme di stimolazione cognitiva che corrispondono ad un preciso protocollo sanitario, a cui seguono degli esercizi “da fare a casa” fra un incontro e l’altro. Si tratta di esercizi che si collocano in una strategia preventiva, ma soprattutto promuovono forme di socialità ormai dimenticate nelle comunità condominiali, come la merenda in comune, e la festa di fine corso, gli incontri di ginnastica mentale autorganizzati ecc ecc.

L’esperienza dello psicologo di comunità è quindi molto rilevante. Se è vero che l’ambiente incide sulla salute mentale è evidente che la comunità può svolgere un ruolo terapeutico e preventivo fondamentale.  Per il benessere di comunità acquisiscono un ruolo decisivo le scienze umane, la psicologia, la psichiatria, l’antropologia, ma soprattutto la promozione di forme di autorganizzazione e partecipazione ai percorsi di salute.  Senza partecipazione dei cittadini non vi è salute della comunità, e nemmeno dell’individuo.

Un’ associazione ed una riflessione

La partecipazione è un meccanismo per coinvolgere la comunità nei processi decisionali che riguardano servizi e risorse attraverso il coinvolgimento attivo delle persone. Si evidenzia quindi la grande importanza dei percorsi auto-organizzativi delle associazioni, che, al di là del fatto che nascono con una mission, promuovono interesse, partecipazione, e percorsi di capacitazione. La prossimità è un altro elemento tipico delle associazioni che hanno innestato un proficuo percorso di innovazione in parte dettato anche dalla riforma del terzo settore. Prossimità, infatti, non è solo un concetto “spaziale”, ma è soprattutto un costrutto relazionale, in piena sintonia con il principio di promozione della salute.

La promozione della salute non è un servizio promosso da altri per sé stessi. Ognuno, deve acquisire il controllo sulla propria vita secondo ciò che ognuno “desidera” per il proprio benessere, e quindi è necessaria la consapevolezza, il proprio coinvolgimento e il controllo di sè per costruire la propria esperienza di benessere. Ciò è vero anche per le persone con demenza, soprattutto se esse si coinvolgono sin dai sintomi iniziali. Alla base dei disturbi comportamentali spesso vi è la totale negazione della propria autodeterminazione. Esperienze di letteratura mostrano che tanto più le persone partecipano alle decisioni della propria vita, tanto meno insorgono comportamenti psicotici. Ma approfondire questo ci porterebbe troppo lontano dall’obiettivo di questo articolo.

Un’associazione è anche una comunità che si caratterizza per un senso di appartenenza ad un progetto per la finalità di benessere. Ma è soprattutto un processo relazionale. Infatti la comunità è tale per l’individuo non se non si basa sulla capacità di fare “da soli”, ma dalla possibilità di contare su una rete di relazioni che sappia sostenere l’individuo nella soddisfazione dei bisogni di salute.

Un obiettivo delle associazioni che si interessano di salute, dunque, non è solo la rivendicazione di servizi per curare la malattia, ma è contribuire concretamente a superare i gap sociali che si costituiscono come determinanti di salute.

Concludendo possiamo dire che un’associazione che si occupa di “malattie” agisce nella promozione della salute, non solo focalizzando la patologia, ma cercando di comprendere ed agire sui meccanismi sociali che agiscono sui determinanti di salute con l’obiettivo di non guarire (a volte è impossibile, come nella cronicità), ma per raggiungere benessere ed equità all’interno della comunità di riferimento. In poche parole “prendendosi cura della comunità”. Per questo la nostra associazione agisce all’interno delle reti sociali territoriali, portando soprattutto bisogni ed attivando risorse.

 

Bibliografia

Rapporto salute mentale. Analisi dei dati del sistema informativo per la salute mentale (SISM). Anno 2023

 “Il progetto you the future” realizzato grazie alla partnership tra Save the Children e la Fondazione CDP.

Report L’equità nel diritto alla salute (ricerca azione CSI Comune di Bologna gennaio 2023)

L'autore

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Valeria Ribani

Professionista della sanità in pensione, attiva nel volontariato in particolare nel campo delle demenze.
Vicepresidente di ARAD (Associazione per la ricerca e l’assistenza delle demenze), riveste il ruolo di
referente per i progetti di comunità dell’area metropolitana bolognese.