L’ascesa al “potere” di Xi Jinping al XVIII Congresso del P.C.C. si è caratterizzata rapidamente come una sorta di svolta nel panorama politico cinese. E questo non perché si sia delineato un rapporto più partecipato tra elite dominante e il resto del corpo sociale, più che mai ancorato al verticismo decisionale più intransigente; ma perché il precedente schema di conduzione economica patrocinato da Hu Jintao veniva valutato ormai inadeguato a fronteggiare i problemi che si erano accumulati  e che risultavano alla lunga potenzialmente capaci di mettere in discussione quello sviluppo complessivo che la “riforma” avviata da Deng Xiaoping aveva sinora assicurato, garantendo alla Cina una crescita economica senza precedenti. Una crescita che veniva valutata come assolutamente indispensabile per mantenere la situazione sociale sotto controllo ed evitare nella società civile tensioni dagli sbocchi imprevedibili.

La riforma fiscale

In primo luogo appariva chiaro come il debito pubblico presentasse una dilatazione spropositata se è vero che, dopo i provvedimenti varati per reagire alla crisi del 2008, il debito stesso era balzato dal 140% al 250% del P.I.L., anche perché gli “stimoli” adottati dalla direzione legata a Hu Jintao – e poi reiterati dallo stesso Xi sino al 2017 – avevano comportato un incremento senza precedenti della spesa pubblica per dare poi luogo a infrastrutture dall’utilità non sempre comprovata.  Ma soprattutto Xi e i suoi avvertivano come questo fenomeno doveva avere valenze e significati più reconditi, nel senso che sulla sua formazione e sul suo costante incremento agivano altri fattori, come l’indebitamento determinato dall’attività non sempre esemplare degli  organi periferici a cui la riforma di Deng aveva a suo tempo conferito, per forza di cose, un’autonomia operativa non indifferente. Ebbene alla resa dei conti questo “decentramento” presentava bilanci contraddittori, dal momento che ad un più rapido ricorso alla sperimentazione innovativa aveva fatto riscontro un’eccessiva frammentazione e una proiezione verso gli impianti ad alto investimento di capitale, con conseguente riluttanza a sottoporre a bancarotta le imprese che operavano in passività; anzi sostenendole artificiosamente con inevitabili ripercussioni sull’incremento delle passività e sulla stessa crescita economica. Tuttavia è anche vero che agli organismi periferici sono state di recente attribuite una serie di mansioni crescenti in materia previdenziale e assistenziale con un sovraccarico di funzioni che poi non trovano un’adeguata copertura nei versamenti effettuati dagli organi centrali; un contesto estremamente contraddittorio che ha dato luogo ad uno stato di frizioni endemico, per cui mentre le autorità centrali lamentano la corruzione dilagante che imperversa a livello locale, gli organi periferici denunciano le incompetenze e il burocratismo che caratterizza l’operato delle gerarchie pechinesi. Un complesso di fattori già carico di negatività che si aggrava ulteriormente per le iniziative assunte a livello periferico dove gli organi competenti, pur di far fronte alle esigenze le più disparate, non hanno esitato a ricorrere a procedure di dubbia pertinenza, come l’esproprio forzoso della terra ai contadini per poi destinarla alla speculazione immobiliare; un fenomeno di assoluta consistenza  se è vero che tra il 1990 e il 2010 sono stati corrisposti ai malcapitati di turno qualcosa come 320 miliardi di dollari a titolo di rimborso, mentre il valore effettivo dei fondi sottoposti a esproprio forzoso ammonterebbe, secondo stime attendibili, a non meno di 800 miliardi di dollari. Inoltre non è mancato l’indebitamento crescente con organismi finanziari non proprio ortodossi  (shadow banking) previo il ricorso a procedure sostanzialmente trasversali, anche se si trattava di violare precisi dinieghi posti dal potere centrale.

Di fronte a questa complessa serie di problemi la leadership riunitasi attorno a Xi Jinping si è compattata con un atteggiamento risoluto, nel  tentativo di porre un argine a questa tendenza alla dilapidazione del pubblico danaro che poi, per forza di cose, contribuiva ad alimentare il debito. In sostanza si è posto mano ad una “riforma fiscale” che ruota attorno a criteri ben precisi.  In primo luogo si è convertito l’ammontare del debito locale in emissione di bond, sancendo una sorta di partnership pubblico-privato in cambio di una partecipazione futura dei privati stessi alle risorse; poi si è proceduto ad ancorare l’operato degli organi periferici alle risorse effettive, senza sforamenti arbitrari, magari ricorrendo a disposizioni che hanno restituito agli organi centrali alcune funzioni che prima erano state delegate in provincia; infine il trasferimento dei fondi necessari al funzionamento delle realtà periferiche è stato regolamentato e ancorato a procedure vincolanti in modo da evitare il ricorso al finanziamento da parte di centri finanziari impropri. Insomma il progetto “riformatore” di Xi punta ad accentuare il potere degli organi centrali e ad imporre una disciplina alle procedure mercantili degli organi periferici, ponendo termine al ricorso di quest’ultimi ai finanziamenti extrabudget.

La lotta alla corruzione

Tuttavia appariva chiaro a Xi e ai suoi come la riforma fiscale e il conseguente tentativo di ridimensionare l’attività dissennata degli organi periferici si configuravano come elementi insufficienti per  porre un argine alla dilatazione del debito pubblico, anche perché poi si doveva contestualmente mantenere il tasso di sviluppo su livelli abbastanza sostenuti.  In pratica, secondo il parere di numerosi osservatori,  si delineava il rischio di una severa crisi finanziaria per via della bolla speculativa edilizia oltre che per il già descritto vertiginoso aumento  del debito pubblico. Nel primo caso il fenomeno, reiteratamente contrastato con una penalizzazione fiscale selezionata e con il rilancio dell’edilizia popolare, è stato di recente evidenziato come ancora sussistente in numerose città cinesi dalle stesse fonti del regime; il che equivale a dire che non è ancora sotto controllo. Di rilevo ancora maggiore è il fenomeno del “debito” giunto, come si diceva innanzi, al 250% del P.I.L. dopo che per reagire agli effetti negativi della crisi del 2008, si era proceduto, sin dall’epoca di Hu Jintao,  a stimolare l’economia con il ricorso massiccio agli investimenti pubblici. Insomma, secondo il parere di numerosi osservatori, la Cina potrebbe trovarsi di qui a breve di fronte a una sorta di circolo vizioso: se si lotta per contenere il debito si contrae lo sviluppo, ma se si contrae lo sviluppo è difficile contrastare le difficoltà finanziarie. In definitiva alla direzione che si raccoglie attorno a Xi è apparsa chiara l’esigenza di una profonda ristrutturazione, non fosse altro perché l’esperienza messa a punto da Zhu Rongji nel 1997 quando per sfuggire alle difficoltà determinate dall’esplodere dei  “prestiti non esigibili” avviò un piano di rilancio basandolo sulla chiusura di alcune industrie pubbliche obsolete, sulla corresponsione di finanziamenti ai settori privati più dinamici e sulla regolamentazione del mercato manifatturiero oggi non può essere riproposta. Il rilancio, dopo che la crisi esplosa nel 2008 aveva visto esaurirsi il precedente modello basato sull’importazioni di capitali e sulla costruzione di infrastrutture per agevolare le esportazioni, andava ricercato altrove.

Da quest’ordine di considerazioni ha preso le mosse l’iniziativa di fronteggiare la corruzione che, manifestatasi sin dai primordi dell’esperienza riformatrice avviata da Deng Xiaoping, ha coinvolto strutturalmente tutta l’attività economica cinese, con procedure abbastanza consolidate che ruotano sostanzialmente attorno al meccanismo di formazione dei prezzi che risultavano incrementati in quanto le aziende pubbliche vendevano a prezzo “libero” prodotti destinati al valore controllato, all’esproprio forzato di fondi agricoli ceduti alla speculazione immobiliare dopo l’elargizione di prebende illecite, per venire alla vendita di licenze o autorizzazioni varie per l’avvio di attività le più disparate. Un fenomeno che ha finito con l’assumere proporzioni gigantesche e che, per un lungo periodo di tempo, aveva trovato il regime praticamente consenziente o, nel migliore dei casi, reagire in maniera solo saltuaria, anche perché l’ampio ricorso alle procedure corruttive veniva visto sovente come uno strumento idoneo a contrastare l’inerzia burocratica e quindi a porre in essere le attività produttive.  Tuttavia di recente questi fenomeni hanno raggiunto una tale ampiezza da svolgere una funzione assolutamente antitetica alle esigenze dello sviluppo economico, caratterizzandosi per un dirottamento improprio di risorse a cui sovente fa riscontro l’accaparramento monetario parassitario di minoranze che operano nei meandri dell’apparato dominante; e questo soprattutto nel settore delle infrastrutture avviate dal 2008 in poi per reagire agli effetti della crisi e in quello delle vendite forzate delle terre – dopo sommaria procedura espropriativa a danno dei contadini – per dare luogo alla speculazione immobiliare più sfacciata. Contro questi fenomeni consolidatisi già da tempo non c’è dubbio che il gruppo dirigente raggruppatosi attorno a Xi Jinping ha agito con incontestabile risolutezza, per cui non è stato raro il caso di eminenze grigie del regime trasformarsi in meno che non si dica in frequentatori non proprio entusiasti delle patrie galere, anche se  non è mancato tra gli osservatori più attenti chi abbia ritenuto di poter  valutare come la “campagna anticorruzione” sia stata avviata in via prioritaria per mettere a tacere o emarginare con netto anticipo potenziali avversari dello stesso Xi. Un’ipotesi non del tutto priva di fondamento, anche se va tenuto presente che la “campagna di Xi”  – commisurata alle altre iniziative assunte in tema di riforma fiscale, di intensificazione ideologica  e di irrigidimento dei controlli sui media – sembra sia proiettata a migliorare complessivamente il governo del Paese e a contrarre la sfera delle improduttività, vincendo la resistenza di quanti si oppongono all’accentuazione della “riforma”. Un progetto che, nella valutazione di numerosi  osservatori, presenta incertezze e aspetti dubitativi di assoluto rilievo in quanto tutta l’idea riformatrice di Xi è stata associata a provvedimenti  che hanno accentuato il controllo degli organi di partito e hanno inasprito le misure interdittorie  verso ogni forma di dissenso proveniente da organismi non governativi. Il partito, per Xi, rimane la sola fonte di autorità e lui stesso concentra una serie di funzioni crescenti; una pregiudiziale tutt’altro che inessenziale che, a parere di più di un osservatore, pone seri dubbi sulla capacità di combinare questa nuova stretta politica ed ideologica con il programma di “riforme efficientiste” di cui si è fatto paladino risoluto l’attuale leader della Cina postdenghista. In altri termini il quadro politico vigente, caratterizzato dal permanere del partito unico e dalla gestione del potere da parte di un’esigua minoranza di burocrati intoccabili, appare come il meno propizio a garantire quel “rilancio” di cui la stessa direzione del P.C.C. avverte la necessità e l’urgenza. E questo perché se è vero che la centralizzazione del potere politico ha finora coinciso con lo sviluppo economico, questi due elementi potrebbero nei tempi brevi entrare in contrasto, nel senso che l’ulteriore crescita imporrebbe una diversificazione  e un’articolazione meno rigida e centralizzata nella gestione del potere effettivo. E qui è difficile immaginare come l’alta burocrazia del regime – usa da tempo immemorabile alla gestione del potere in maniera quasi esoterica – possa accettare una riduzione consistente del suo ruolo e delle sue funzioni.

Un nuovo progetto di sviluppo

Tuttavia, al di là delle considerazioni del caso in ordine al fondamento di queste considerazioni dubitative circa la capacità del quadro politico di rendersi adeguato alla nuova fase imposta dallo stesso sviluppo degli eventi, non si può non riconoscere come  l’attuale gruppo dirigente abbia colto – soprattutto a seguito della crisi del 2008 – l’esigenza di imprimere una svolta agli schemi di sviluppo adottati nelle grandi linee sin dall’avvio della “riforma” patrocinata da Deng Xiaoping. In pratica sin dal 1978 si era trattato di dirottare una massiccia quantità di risorse verso il settore dei beni di investimento come del resto imponeva lo stato di arretratezza che si registrava nel momento dato, con conseguente assorbimento della manodopera contadina che affluiva dalle campagne; tutto ciò determinava la costruzione di infrastrutture destinate sovente all’esportazioni con conseguente spreco non indifferente di risorse. La nascita di un settore privato correggeva solo parzialmente questi squilibri, se è vero che lo stesso Wen Jiabao, nella relazione presentata nel 2007 davanti l’Assemblea Nazionale del Popolo, non aveva soverchie incertezze nel definire l’economia cinese “sbilanciata, instabile, scoordinata e insostenibile”. Un giudizio ineccepibile che delineava il quadro di riferimento effettivo che ha caratterizzato l’indubbio sviluppo economico conosciuto dalla Cina e che poi ha subìto delle mutazioni sostanziali con lo scoppio della crisi nel 2008 quando si fu costretti a registrare il fallimento di 23.000 aziende piccole e medie e la conseguente disoccupazione di 20 milioni di lavoratori. Per le alte gerarchie del regime fu chiaro che l’epoca dello sviluppo basato sulle esportazioni era terminata e che occorreva puntare sulla domanda interna; solo che poiché le potenzialità d’acquisto del cinese medio non superavano margini ben precisi, non restava altro che ricorrere alle infrastrutture e alle abitazioni come uniche alternative per stimolare la domanda. Il risultato fu che mentre lo sviluppo, pur contraendosi, si manteneva su valori abbastanza sostenuti, il debito pubblico – come già visto – aumentava vertiginosamente; ma soprattutto si determinavano nuove discrasie dal momento che si passava da uno “squilibrio” esterno (cioè le esportazioni) ad uno interno (cioè gli investimenti).

Di fronte a questo cumulo di problemi il gruppo dirigente che si raccoglie attorno a Xi Jinping  è apparso determinato a porre in essere una svolta: passare dalla mera “mobilitazione delle risorse”  a “l’uso efficiente delle risorse”. Il che non significa che gli squilibri verranno completamente a cessare e non avranno più a determinarsi settori in sovrapproduzione e crescenti disuguaglianze; vuol dire che si delinea una nuova fase caratterizzata da consumi interni più accentuati, investimenti meno dissennati, una maggiore efficienza  e una più accurata distribuzione.  Un progetto che si raccorda organicamente al varo della “riforma fiscale”, alla lotta alla corruzione e al contrasto alla speculazione edilizia – come si diceva innanzi – e che punta a ridurre tutti gli sprechi e le inefficienze che sono tipiche della gestione burocratica del potere, assumendo un carattere endemico e irreversibile difficilmente contrastabile con un progetto “riformatore”  che sia adottato da settori più o meno illuminati di quella stessa burocrazia che gestisce incontrastata  ogni funzione dirigente e che è la vera responsabile di quelle disfunzioni e discrasie a cui ora tenta di porre un rimedio.

A ciò si aggiunga che la percezione del termine del ciclo economico basato sulle esportazioni – e sulle infrastrutture interne che le sostenevano –   imponeva la ricerca di un progetto di sviluppo dove inevitabilmente i consumi interni assumevano un ruolo più marcato, grazie anche alla recente costituzione di una classe media di circa 250 o 300 milioni di unità o ai successi registrati nella “lotta alla povertà” per cui il fenomeno dell’indigenza vera e propria, a voler stare alle fonti ufficiali, sarebbe stato vistosamente ridimensionato, passando da 840 milioni di persone a soli 84. Solo che qui, a dispetto del rilievo da conferire a questi dati incontrovertibili,  si incontrano difficoltà di vario genere per via della carenza delle prestazioni sociali garantite dal regime – peraltro drasticamente ridimensionate al momento del varo della “riforma” denghista – per cui chi in Cina dispone di un reddito che eccede il minimo per poter sopravvivere tende quasi sistematicamente ad una forma naturale di accantonamento per poter all’occorrenza  fronteggiare eventuali futuri disagi piuttosto che all’immediato accaparramento di consumi. Un contesto di fattori che ha indotto il regime – già all’epoca di Hu Jintao – a rilanciare le prestazioni sociali con iniziative che hanno comportato il riconoscimento  del diritto ad un minimo salariale, il criterio disgiunto  di corresponsione delle pensioni per operai e i contadini, l’eliminazione della tassa per la scuola dell’obbligo, l’avvio di un programma  per l’edilizia popolare. In definitiva la voce di bilancio relativa alle “spese sociali” è sensibilmente aumentata, passando in poco tempo da 200 miliardi di yuan a 700, incidendo sul P.I.L. per l’8% contro il precedente 5%. Tuttavia il livello delle prestazioni rimane basso, lasciando sovente escluse intere categorie sociali, come i migranti, mentre per i “nuovi ricchi” prodotti progressivamente dalla riforma promossa nel 1978 da Deng Xiaoping  – quel 10% che si appropria di circa il 60% del reddito nazionale – il problema è risolto alla radice previo il ricorso alle “prestazioni private” che nella Cina di Xi Jinping assumono un valore crescente, se è vero che le stesse fonti ufficiali non fanno mistero dal dichiarare come le istituzioni sanitarie non pubbliche hanno raggiunto a tutto il 2018 l’ammontare complessivo di 450.000 unità, tra i quali spicca il dato attinente alla “cliniche private” che sono ormai attestate su un più che significativo 21.000. In definitiva, a dispetto degli spettacolari successi registrati in Cina con la “riforma” avviata a suo tempo da Deng Xiaoping, il problema “sociale” è tutt’altro che risolto, nella misura in cui sono proprio i provvedimenti intrinseci nella “riforma” stessa che determinano e aggravano progressivamente  disuguaglianze sempre più accentuate. E l’idea di costituire, nel contesto dato, una società basata sui consumi interni è destinata a riscontrare difficoltà di tutto rilievo.

L’impianto industriale

A ciò si aggiunga che lo stesso equipaggiamento industriale della Cina impone verifiche puntuali  e definizioni indifferibili in un periodo di transizione come l’attuale, caratterizzato da instabilità accentuate e sollecitazioni trasversali che comportano repliche e messe a punto che magari suggeriscono  l’accantonamento di metodiche abituali e di criteri interpretativi apparentemente consolidati. E questo perché, a dispetto di un luogo comune abbastanza diffuso, l’economia cinese rimane caratterizzata da una presenza rilevante e incisiva delle imprese di Stato – S.O. E. , State Owners Enterprices – per  le quali, in buona sostanza, continuano a valere i criteri di gestione e le valenze di fondo de “l’economia di comando”, cioè l’impianto gestionale e il ruolo decisorio della pianificazione centralizzata a conduzione burocratica.

Certo, a far tempo dal 1987, hanno preso corpo  logiche “razionalizzatrici” che hanno valorizzato in misura via via crescente criteri econometrici e impostazioni che si ispiravano all’economia di mercato; in pratica le aziende venivano raggruppate per “volume d’affari”, nel senso  che al “mantenimento delle grandi” faceva riscontro il criterio di “lasciare andare le piccole” . Un’iniziativa rivolta essenzialmente a liberare lo Stato dalle spaventose insolvenze  delle aziende di più ridotte dimensioni  che alla fine degli anni  90 avevano accumulato passività che ammontavano a circa un terzo del P.I.L. nazionale. Così, mentre  i quadri medi della nomenclatura di partito si metabolizzavano senza colpo ferire in “proprietari” delle rispettive aziende, si assisteva a questa contrazione delle attività delle S.O.E.  che da 262.000 che si annoveravano nel 1997 passavano nel 2008 a 110.000 , mentre il numero degli occupati passava da 113 milioni nel 1995 a 64 milioni nel 2007.

Tuttavia lo Stato cinese ha continuato a mantenere un controllo diretto e indiscusso su fondamentali settori di base di preminente rilievo nazionale e di maggiore capacità d’incidenza,  come l’aviazione, le ferrovie, i generatori di energia; quelli produttori di petrolio, gas, carbone; l’acciaio, l’alluminio, il settore petrolchimico; gli equipaggiamenti attinenti le fonti d’energia; le imprese relative ai beni per le infrastrutture; l’equipaggiamento militare. Tutte queste imprese sono direttamente controllate dallo Stato che, per ovviare alla loro cronica passività, ha progressivamente avviato  numerose iniziative per renderle competitive, come la suddivisione settoriale  in modo da stimolare un regime di parziale concorrenza; in altri casi si è proceduto alla creazione di organismi specifici – come il S.A.S.A.C.  State-Owned Assets Supervision  and Administration Commission –    che devono sovraintendere alla conduzione e all’andamento di questi colossi pubblici; infine non si è esitato più di tanto dal procedere alla marcata contrazione di  tutti gli oneri sociali  che precedentemente gravavano sui bilanci di queste gigantesche imprese statali. I risultati, ad onor del vero,  non sono sempre stati lusinghieri, se queste aziende di Stato hanno continuato a dare luogo ad una produttività inferiore a quella del settore privato, che invece ha manifestato un dinamismo crescente,  contribuendo  in maniera cospicua a determinare il P.I.L. nazionale, a incidere sensibilmente  nella formazione del surplus commerciale, ad assorbire in misura sempre più accentuata manodopera e a fornire sbocchi professionale ai giovani in cerca di prima occupazione. Tuttavia queste connotazioni storiche del settore pubblico cinese di recente hanno fatto registrare delle controtendenze, se è vero le proiezioni internazionali avviate dalle direzione di Xi e i suoi – la “Nuova Via della Seta” di cui si riferisce più avanti in dettaglio – hanno comportato un agire complesso e articolato a livello mondiale, nel senso che, la stessa prioritaria necessità di reggere al regime di concorrenza,  avrebbe indotto di per sé l’esigenza di comportamenti  più funzionali e produttivi. Una linea di tendenza da valutare con cautela e con prudenza e che va acquisita, di fronte ad una situazione in costante evoluzione,  senza pregiudiziali prioritarie, evitando sommarie generalizzazioni.

Come che sia  le S.O.E., quanto meno tra le mura domestiche,  sono in una posizione egemonica per così dire a “priori”, anche se si è cercato di evitare di  trasformare questa netta prevalenza in monopolio assoluto, nel senso che nel tempo è prevalso un orientamento tendenzialmente  compensativo, consistente  nell’avviare una sorta di diversità di aziende  – pubbliche e private – nei rispettivi settori di competenza, in modo da dare luogo a un regime di competitività che a sua volta potesse indurre a una maggiore efficienza. In definitiva la transizione dal “piano” al “mercato” è progressivamente in atto, ma è tutt’altro che completata, se è vero che al potenziamento crescente del settore privato – a sua volta reiteratamente agevolato da esenzione fiscali e da crediti concessi dalle banche pubbliche che devono prescindere dalla verifica delle necessarie coperture – corrispondono trattamenti del tutto privilegiati per le imprese pubbliche  che vengono a loro volta costantemente sostenute con l’erogazione di credito agevolato e la somministrazione delle risorse le più disparate.  E se, a dispetto questa posizione di marcato privilegio, si delinea l’ipotesi  di un’impresa pubblica che non ha retto il regime di competitività con il settore privato per cui  si prospetta il fallimento, interviene il potere politico per evitare che evenienze del genere si concretizzino. In definitiva un’ibrida coesistenza di elementi estremamente disparati che ha dato luogo a una situazione del tutto specifica, dal momento che mentre l’industria pubblica è nettamente prevalente nel settore dei beni d’investimento,  quello dei servizi e dei beni di consumo è egemonizzato dall’industria privata; un contesto di fattori estremamente contraddittorio che, per forza di cose, si frappone al progetto razionalizzatore ed efficientista che si è posto come obiettivo prioritario la leadership che è emersa al XVIII congresso del P.C.C..

Rinnovo tecnologico

Nondimeno  a Xi e ai suoi appariva chiaro come l’idea di un “rilancio” dovesse passare, pur nel contesto dato, per un rinnovo tecnologico che investisse l’intero processo produttivo, anche per reggere più adeguatamente la competitività internazionale, ponendo termine alle inefficienze del periodo antecedente dove ai risultati soddisfacenti riscontrati nei settori a tecnologia intensiva – come componenti d’auto, equipaggiamento per generatori di energia etc. – facevano da contraltare vistose carenze nei settori dove le attività lavorative impongono l’applicazione integrata di diversi livelli di tecnologia, alto coefficiente di precisione e processi produttivi complessi. In pratica le esportazioni cinesi sono il risultato, almeno sovente, del completamento e dell’assemblaggio dei manufatti industriali prodotti altrove, dove la tecnologia cinese ha ben poco a che vedere.  La percezione di questo stato di fatto e la consapevolezza della precarietà che ne derivava  nella competizione internazionale – dove nel frattempo la Cina ha raggiunto una posizione di tutto rilievo – hanno indotto il nuovo gruppo dirigente a dirottare fondi consistenti a favore della ricerca, con risultati incontrovertibili per quanto attiene i prodotti che formano oggetto di esportazione.  La produzione è stata sovente riorganizzata con l’assunzione di manodopera qualificata (skilled workers) che talvolta, nell’ultimo periodo, ha preso il posto del contadiname che affluiva dal mondo rurale senza una precisa e specifica professionalità; e non sono mancati i provvedimenti conseguenti, se è vero che 7 milioni di contadini che precedentemente erano stati assunti da imprese nei centri urbani, sono stati rispediti nelle località d’origine, non si sa con quale gradimento da parte degli interessati. Tuttavia questo cambio di passo è ben lungi dal conferire alla Cina il ruolo di leader nel settore tecnologico, anche perché, come già visto, le S.O.E. –  le imprese statali che ancora svolgono un ruolo di tutto rilievo – esercitano sovente una funzione frenante al rinnovamento, rimanendo ancorate alle metodiche abituali, favorendo  cioè la routine e puntando a sopravvivere in maniera più o meno parassitaria tramite i finanziamenti pubblici; una tendenza consolidatasi già da tempo, anche se di recente è stato avviato un tentativo per  rendere queste imprese più produttive trasformandole cioè in società a responsabilità limitata e  favorendo  l’associazione di questi pilastri di quella che fu l’economia di piano del periodo maoista con il capitale privato, cinese o straniero che sia. In ultima analisi se è doveroso riconoscere gli indubbi miglioramenti ottenuti nell’ultimo periodo dai cinesi in tema di applicazione tecnologica,  è certo che non si delinea all’orizzonte alcuna posizione leaderistica al riguardo, mentre i riconoscimenti internazionali ai contributi teorici dei ricercatori cinesi rimangono assolutamente esigui.

La proiezione verso il mercato mondiale

In definitiva i successi complessivi derivanti dall’applicazione della “riforma” appaiono  fuori discussione: la Cina è divenuta la maggiore potenza commerciale a livello mondiale, la povertà assoluta risulta al 10% dei valori pregressi, le esportazioni sono aumentate su livelli senza precedenti con conseguente surplus commerciale nei confronti di numerosi paesi, l’accumulo di valuta estera ammonta all’astronomico importo di 3.500 miliardi di dollari. Eppure i sintomi negativi non mancano. Tutt’altro. Lo sviluppo basato sugli investimenti e sulle esportazioni non può più essere riproposto; l’incremento annuale del P.I.L. tende a decrescere o a mantenersi su indici nettamente inferiori a quelli del primo periodo della sperimentazione “denghista”; il ricorso alle “infrastrutture” alimenta un debito pubblico spaventoso, per cui ci si orienta in qualche modo a contrastarlo se è vero che nelle valutazioni programmatiche dell’esercizio corrente non si fa menzione degli “stimoli” costituiti dalle opere pubbliche, anche se poi qualche rilancio parziale  di metodiche del genere non è venuto a mancare; il reddito di ampi settori popolari rimane largamente insufficiente, a fronte di incredibili arricchimenti di esigue minoranze; la direzione politica dell’immenso Paese è, ieri come oggi, appannaggio di una ristretta cerchia di burocrati; gli indubbi miglioramenti sul piano tecnologico – soprattutto nel settore delle “intelligenze artificiali” – sono ben lungi dall’assicurare una sensibile riduzione dello scarto dagli Stati Uniti; a livello internazionale la Cina può contare su numerose relazioni, ma non su alleanze vere e proprie. Insomma numerosi elementi di giudizio concorrono nell’evidenziare come la “riforma” varata a suo tempo da Deng Xiaoping – e poi ribadita e accentuata da quanti si sono succeduti al comando del Paese – abbia in una qualche misura esaurito la sua spinta propulsiva e come gli arrangiamenti empirici messi a punto da Xi Jinping e dai suoi per rivitalizzare l’intero andamento dell’economia incontrino nuovi intralci e diano luogo a reiterate contraddizioni.

E’ probabile che proprio il tendenziale accentuarsi delle difficoltà tra le mura domestiche abbia indotto la leadership cinese in carica a considerare come l’allargamento economico-finanziario verso il mercato internazionale costituisse la chiave di volta per continuare a mantenere lo sviluppo su livelli sostenuti in modo da garantire una relativa stabilità politica interna. In tal senso si è proceduto in primo luogo ad intensificare i contatti con i potentati economici occidentali perché reiterino i loro investimenti in Cina – F.D.I., Foreign Direct Investment – ; in tal senso non sono mancate le adozioni delle procedure più garantiste e il ricorso alle esemplificazioni più duttili pur di agevolare il flusso degli investimenti esteri, a cui ha fatto riscontro come ulteriore elemento di rassicurazione l’impegno esplicito a garantire la “proprietà intellettuale”, per cui le aziende cinesi non avrebbero più provveduto ad appropriarsi  delle fasi lavorative delle imprese straniere per riprodurre in proprio lo stesso prodotto.

Tuttavia a fronte di queste iniziative che accentuano tendenze delineatesi già da tempo per la regolamentazione  dell’afflusso del capitale straniero in Cina, quel che appare saliente è che si è consolidata una proiezione differente che registra un dinamismo crescente delle aziende cinesi sul mercato internazionale. I prodromi, per così dire, risalgono al 2005 cioè successivamente all’esplodere del surplus commerciale cinese, quando l’aggancio al dollaro venne sostituito da uno “strisciamento” quasi antitetico al dollaro stesso; ma soprattutto la svolta è avvenuta nel 2015, quando è stato reso noto che il valore dello yuan sarebbe stato fissato secondo i valori della parità quotidiana. In pratica misure intese ad estendere l’uso dello yuan a livello internazionale come conseguenza del ruolo crescente assunto dalla Cina nel commercio mondiale, oltre che come uno sforzo rivolto a liberalizzare il finanziamento affinché si rivolgesse maggiormente verso i settori produttivi, piuttosto che verso le infrastrutture e le S.O.E.. Dopo il 2015, quando lo yuan è divenuto una moneta di riserva del I.M.F. – International Monetary Fund –, la moneta cinese ha raggiunto un successo di tutto rilievo a livello internazionale; nondimeno lo scarto con il dollaro rimaneva abissale in quanto la moneta statunitense continuava ad egemonizzare oltre tre quarti del commercio mondiale, grazie anche all’adozione di misure praticamente truffaldine risalenti al 1971, quando Nixon adottò la decisione unilaterale di venir meno agli accordi di Bretton Woods e di far fluttuare liberamente la moneta americana, mentre le altre monete rimanevano contestualmente agganciate al dollaro stesso. Un contesto specifico che ha suggerito ai dirigenti cinesi di rivolgere già da tempo reiterate richieste al I.M.F. per ottenere un maggiore ruolo all’interno dei centri del potere effettivo, in modo poi da contrastare questa artificiosa supremazia statunitense grazie alla quale il colossale debito pubblico americano – ammontante a circa 23mila miliardi di dollari – viene paradossalmente scaricato sugli altri. E di fronte al categorico diniego dell’I.M.F. di aderire alle richieste di Pechino la direzione di Xi Jinping non ha esitato ad adottare decisioni significative destinate a svolgere uno ruolo cruciale negli anni a venire sullo sviluppo nazionale, oltre a delineare un mutamento radicale negli equilibri politici internazionali. Infatti con la prospettiva dichiarata di sviluppare investimenti nella “Nuova via della seta”, si procedeva alla fondazione della A.I.I.B. – Asian Infrastructure Investment Bank – che tende ad aggregare capitali internazionali grazie ad un’operazione che si pone dichiaratamente al di fuori dal controllo degli abituali centri di potere finanziario e che si configura oggettivamente come una sfida al consolidato egemonismo statunitense.

Nondimeno anche qui si registravano le pulsioni più difformi e le sollecitazioni più disparate. Infatti è fuori di dubbio che l’iniziativa cinese abbia avuto riscontri lusinghieri, se è vero che al neonato organismo finanziario hanno aderito  gruppi finanziari di ben 84 paesi, mentre non sono mancate significative intensificazioni delle iniziative dell’A.I.I.B., quanto meno in prospettiva, dal momento che è stata messa a punto la proiezione anche oltre il primigenio campo di riferimento asiatico. Ma al tempo stesso questo impulso ad essere operativi sul mercato mondiale – O.D.I. Outbound Direct Investment – ha comportato l’entrata sulla scena di imprese che già si erano dimostrate passive tra le mura domestiche sino a essere coinvolte sovente nella bancarotta e nel fallimento, per cui il loro agire a livello internazionale è risultato tutt’altro che positivo; in pratica ne è derivata una destabilizzazione del valore dello yuan e una conseguente contrazione delle scorte di valuta straniera per cui, secondo le stesse fonti ufficiali, l’ammontare delle riserve in dollari che nel giugno del 2014 superava i 3500 miliardi, nel gennaio del 2017 si attestava su un meno incoraggiante 2998 miliardi. Il che, a voler stare alle valutazioni degli organi ufficiali del regime,  avrebbe comportato il pronto intervento delle autorità competenti che avrebbero assunto le iniziative del caso per riportare il valore delle riserve in dollari a un più lusinghiero ammontare di 3200 miliardi.

Va da sé che l’iniziativa cinese ha dato luogo a risultati contraddittori. Infatti in alcune circostanze si sono effettivamente avviate infrastrutture scarsamente utilizzabili e difficoltà di indubbio rilievo o, a detta di alcuni commentatori, delle vere e proprie “cattedrali nel deserto”; ma più spesso si è proceduto all’istallazione di complessi funzionali  alle esigenze di sviluppo dei singoli paesi dove si  poneva in essere  l’iniziativa innovativa. Ma soprattutto i cinesi puntavano, oltre alla creazione  di strutture che agevolassero in loco le relazioni con le proprie aziende,  a dare riscontro alla nuova fase di sviluppo interno: contrastare la tendenziale sovrapproduzione  di alcuni settori di base, accedere alle materie prime per sostenere l’auspicato sviluppo tecnologico, diversificare il reperimento delle fonti energetiche come petrolio, gas. Insomma una proiezione  a  tutto tondo verso una posizione leaderistica mondiale.

E’ comprensibile come l’iniziativa cinese abbia determinato diffidenze e opposizioni allo stesso livello internazionale. In primo luogo  l’India che,  grazie a una crescita economica abbastanza sostenuta punta a giocare un ruolo di rilievo sullo scacchiere asiatico, guarda con velata ostilità all’iniziativa messa in campo da Xi e i suoi, vedendovi un progetto espansivo  che potrebbe danneggiare il proprio ruolo  nell’area circostante.  Ma la vera opposizione è venuta dagli Stati Uniti che già a suo tempo avevano sperato di assimilare la Cina postmaoista all’interno della propria consolidata egemonia politica globale  a livello economico e politico. Viceversa l’esperienza concreta ha avuto il modo di evidenziare  come la dirigenza denghista e postdenghista sia  stata in grado di mettere a punto, almeno nelle grandi linee, una strategia di sviluppo di tutto rilievo, fino a configurarsi, almeno in prospettiva, come  un’alternativa credibile all’abituale egemonia statunitense. Soprattutto con l’assunzione dello yuan come moneta di riserva nelle transazioni commerciali internazionali si è delineata la possibilità che gli scambi ruotino in maniera meno esclusiva attorno al ruolo preponderante del dollaro, configurando la possibilità della cessazione – o quanto meno di una significativa  contrazione  – di quelle procedure praticamente truffaldine grazie al quale il colossale debito pubblico americano viene praticamente scaricato sugli altri. In pratica per Washington fu subito chiaro come “ la nuova via della sera” si configurasse come qualcosa di più di un mero progetto infrastrutturale e commerciale, ma rientrasse in una definizione innovativa intesa a mutare nella sostanza gli assetti economici delineatisi già da tempo a livello planetario, togliendo agli Stati Uniti, almeno tendenzialmente, la consolidata egemonia  economica e strategica. E di fronte a evenienze del genere i circoli dirigenti statunitensi hanno manifestato senza indugi la volontà di voler reagire. A loro modo, s’intende.

In primo luogo veniva avviata un’iniziativa alternativa al dinamismo cinese – il Q U A D – che avrebbe dovuto porsi come contraltare alla“Nuova via della seta” posta in essere da Pechino. Ma soprattutto la dirigenza americana ha dato luogo ad una più accentuata pressione militare rivolta a far intendere a chi di dovere che gli USA sono disposti a fare leva sulla loro incontestabile supremazia militare pur di continuare a mantenere inalterata una situazione che assicuri loro una netta e artificiosa supremazia commerciale, senza la quale si avvierebbe un’inevitabile declino. Così la rete missilistica e satellitare già in essere è stata notevolmente rafforzata e la pressione complessiva è stata accentuata grazie alla presenza della III e VI flotta operante nel Pacifico a cui forniscono le opportune integrazioni le 250 basi militari statunitensi dislocate nell’area.

Tuttavia questo quadro di riferimento così complesso e contraddittorio ha fatto registrare ulteriori elementi di variabilità per via del dilagare della pandemia del COVID 19 a livello planetario e delle relative conseguenze sul piano economico e politico. In pratica se molti paesi avevano accettato i “prestiti” cinesi per poi commissionare ai cinesi stessi la costruzione di quelle infrastrutture  di cui ritenevano di avere bisogno, a questo punto alcuni di questi paesi confessano candidamente di non essere in grado di onorare gli impegni presi e di non potere restituire a Pechino  quanto pattuito. Anzi si rivolgono con nitido candore ai cinesi stessi per chiedere la trattazione di nuovi tassi e la riduzione della somma da dover  restituire. Insomma lo scenario si presenta sempre più complesso e la matassa, per così dire, rischia di ingarbugliarsi a vista d’occhio.

Le stesse fonti ufficiali non hanno fatto mistero della nuova situazione venutasi a determinare se sulla stessa “Beijing Review” hanno preso corpo atteggiamenti più problematici e previsioni più realistiche dal momento che, senza ricorrere a inutili giri di parole, si riconosce che “ la Cina ha registrato il suo primo declino dal 1992” , in quanto “i principali indicatori economici hanno mostrato  diversi  livelli di declino”, mentre per quel che concerne l’esperienza della “Nuova via della seta” non ci si sottrae dal riconoscere che “guardando l’impatto del COVID 19 da una prospettiva generale, la situazione dovrebbe dare luogo a motivi di preoccupazione ………… perché i progetti in corso sono stati per lo più chiusi o sospesi dal momento che molti paesi hanno emesso ordini di soggiorno a causa della pandemia “ . Ne deriva che “sotto gli effetti del COVID 19 la Belt e Road affronterà  varie sfide e il suo ritmo dovrebbe rallentare”. Decisamente  delle ampie progettualità che avevano caratterizzato il varo della “Nuova via della seta” al momento del suo varo quando si dava l’avvio a gigantesche infrastrutture nei vari paesi nell’intento di giocare quanto prima un ruolo antitetico alla soffocante egemonia finanziaria degli Stati Uniti sembra che resti ben poco.

Tuttavia se l’esperienza della “Nuova via della seta” sembra che conosca una sorta di declino, merita di essere ricordato come i cinesi abbiano comunque messo in campo  un vigoroso dinamismo sui mercati internazionali, se è vero che l’esercizio  del 2023 ha fatto registrare un valore dell’export-import pari a 20 mila miliardi di yuan, pari a 2,8 trilioni di dollari. Il che non è roba da poco. Tuttavia questo dato indubbiamente confortante si viene a collocare in un contesto sempre più complesso che si pone come un limite vistosamente ostativo per  Xi Jinping e i suoi, intenti a determinare il passaggio della Cina da luogo di produzione e di esportazione a paese capace di produrre e consumare, previo l’auspicata autarchia tecnologica. In pratica un cumulo di fattori che ha dato luogo di recente ad un’ulteriore centralizzazione del potere politico  e ad una tendenza a contrastare in una qualche misura i settori “privati” dell’economia, rei di aver debordato dai compiti loro assegnati. Il che è come dire che l’abituale spinta intesa ad ottenere che l’attività del settore privato rientri entro l’alveo del progetto politico complessivo elaborato al centro del regime rischia di andare incontro a difficoltà sempre più accentuate, non fosse altro perché quel settore è incontestabilmente il più dinamico e partecipa in misura sempre maggiore alla formazione del  P.I.L.. E questo  mentre i dati complessivi danno luogo a manifeste perplessità, se è vero che le vendite al dettaglio sono diminuite del 2,5 per  cento per gli effetti della pandemia, il settore immobiliare non inverte il trend negativo, la crescita del P.I.L. per l’esercizio trascorso a stento ha raggiunto il 5 per cento, la disoccupazione giovanile si è attestata sul 20 per cento e passa.

In definitiva un contesto di fattori che sembra confermare come la Cina abbia complessivamente esaurito le spinte propulsive che avevano caratterizzato il processo riformatore avviato da Deng  Xiaoping dopo l’uscita di scena di Mao Zedong. Un dato praticamente incontrovertibile che attesta come la Cina abbia esaurito la fase tumultuosamente espansiva assicurata dalla prima fase della  “riforma” avviata da Deng Xiaoping per cui la crescita, d’ora innanzi, farà registrare tassi sempre meno sostenuti. E questo, per forza di cose, pone il problema della risonanza nel corpo sociale dove sinora si era consolidato una sorta di “patto non scritto” secondo cui i comuni cittadini accettavano di essere espropriati dell’esercizio dei più elementari diritti politici in cambio di un miglioramento delle condizioni di vita che sinora le varie direzioni postmaoiste avevano bene o male garantito. Oggi con il tendenziale declino dell’intera esperienza “riformatrice” tutto ciò rischia di saltare all’aria, suscitando inevitabilmente disagi nel corpo sociale  e tensioni politiche dagli esiti imprevedibili. Ed è ampiamente probabile che questa previsione sia colta anche ai vertici del regime che non a caso hanno avviato una tambureggiante campagna propagandistica sulla questione di Formosa, intesa a suscitare spinte patriottarde e sollecitazioni  nazionaliste, proprio quando il tendenziale declino dell’esperienza riformatrice può a ragion veduta comportare declino di consenso politico e iniziative che rispondono a esigenze per troppo tempo sopite. Con quale esito non è dato al momento prevedere.

La Cina di Xi Jinping è piena di variabili e di prospettive difficilmente prevedibili.

L'autore

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Aldo Bronzo

Aldo Bronzo, napoletano, è uno studioso di storia del movimento operaio, e in particolare del fenomeno staliniano e del maoismo. È allievo di Libero Villone.
Tra le sue opere:
"Le ombre del drago. Storia critica del comunismo in Cina" (Red Star Press, 2017); "La burocrazia in Unione Sovietica. Nascita, involuzione e crollo del paese dei soviet" (Red Star Press 2022).