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l 18 settembre u.s. il Governo Meloni ha approvato il Decreto Sud sulla Zes unica per tutto il Mezzogiorno. In esso, surretiziamente, ha infilato due articoli di modifica del Decreto Cutro – a sua volta correttivo del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” – con i quali la durata massima di permanenza di un migrante nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio)  è stata portata a 18 mesi.

Le motivazioni ufficiali di tale provvedimento rinviano alle difficoltà di disbrigare le relative pratiche, allorquando “nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l’operazione di allontanamento sia durata più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte dello straniero o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi“.

Dunque, negli stessi annunci del governo, il tempo necessario per la conclusione dei procedimenti relativi ai singoli casi era stimato, fino a qualche settimana fa, nell’ordine di 12-18 mesi. A fronte di tale tempistica, il Governo decideva contestualmente di realizzare almeno venti CPR in luoghi lontani da centri abitati, uno per Regione, e di affidarne la costruzione al Genio Militare. È appena il caso di rimarcare che i CPR sono delle vere e proprie carceri, dove più che spesso non vengono rispettate le minime condizioni di civiltà e dove il migrante viene chiuso in ‘detenzione amministrativa’, senza aver commesso alcun reato che possa giustificare tale reclusione.

Lo scorso 6 novembre il coup de théâtre a Palazzo Chigi. Il nostro Capo del Governo ed Edi Rama, capo del Governo di Albania, sottoscrivono sotto ampia copertura mediatica un Patto bilaterale in base al quale l’Albania mette a disposizione dell’Italia due superfici nel proprio territorio. Su di esse il nostro Paese, a proprie spese, costruirà due CPR. Al loro interno vigerà l’esclusiva giurisdizione italiana, mentre la sicurezza delle aree circostanti sarà affidata allo Stato albanese con copertura italiana dei relativi oneri. Costi stimati a 16,5 milioni di euro all’anno per la durata dell’accordo, che l’Italia verserà all’Albania. La durata del Patto bilaterale è stata fissata a cinque anni. Prorogabili, ovvero riducibili a minor tempo, ma non prima di diciotto mesi dalla sottoscrizione dell’accordo. Dunque nessuna possibilità che il Patto venga sciolto prima del prossimo voto europeo.

Nei due centri potranno essere contestualmente ospitati al massimo tremila richiedenti asilo. Pur se prudenzialmente, nell’art. 9 del Patto, si precisa che il periodo massimo “di permanenza dei migranti nel territorio della Repubblica d’Albania in attuazione del presente Protocollo, non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla vigente normativa italiana”, dunque diciotto mesi, il Governo italiano ha più volte ribadito che il procedimento di verifica dello status di ogni singolo migrante ivi detenuto, fino alla deliberazione sulla sua accoglienza o sul suo rimpatrio, sarà vagliato da una commissione ad hoc entro trenta giorni dal suo ingresso nel Centro.  Dunque ogni mese dovrebbe esserci il ricambio dei tremila richiedenti asilo per un totale annuo di 36mila.

Entreremo di qui a breve nel merito giuridico e fattuale di questo singolare accordo, non senza però averne prima delineato la cornice politica. Il Patto Meloni-Rama, difatti, ha  una spiegazione pressoché esclusivamente politico-progandistica.

A giugno 2024 si svolgeranno le elezioni per il Parlamento Europeo e le destre continentali nel loro insieme tenteranno la spallata al tradizionale assetto centrista PPE-PSE che regge gli organi istituzionali dell’UE da decenni. Nello stesso tempo si contenderanno l’elettorato in Italia.

È aspra la competizione interna alle destre italiane tra forze sovraniste, antieuropee, finanche filorusse, razziste e xenofobe, e le componenti – per capirci qui le definiamo neo-golliste – che si propongono di governare l’Unione Europea, non di sfasciarla.

Nel Governo del nostro Paese convivono sia la destra sovranista antieuropea di Salvini, sia quella neogollista della Meloni, sia infine il centro  di Tajani afferente al PPE. Le urne del 25 settembre ‘22, nel premiare nel suo insieme questa coalizione, ne hanno assegnato inquivocamente la leadership ai FdI di Giorgia Meloni, che hanno conquistato il 26% dei voti. Lega e Forza Italia si sono fermate molto a distanza, intorno all’8% ciascuna.  Ma solo cinque anni prima, alle politiche del ‘18, era stata la  Lega a sopravanzare gli alleati col suo 18% circa dei voti, mentre i FdI si erano fermati al 4%. E l’anno successivo, alle europee del 2019, la stessa Lega aveva sbancato tutti col suo 34% dei voti. Nel ‘13 era stato invece il partito di Berlusconi a primeggiare nell’area della destra italiana col suo 22% dei voti, mentre la Lega aveva racimolato un misero 4% e i FdI il 2%. L’elettorato di destra italiano è decisamente fluttuante, umorale. Da tempo resta stabilmente nel campo della destra, ma al suo interno oscilla con disinvoltura e vertiginosamente da un partito all’altro.

Per ora, forte del voto del 2022, Giorgia Meloni sta governando con mano ferma la coalizione; ma i suoi attuali partner di governo sembrano subirne la leadership piuttosto che riconoscerla. Cosa succederebbe se alle europee di giugno la premier dovesse essere ridimensionata da Salvini, o da Tajani, o da entrambi?  Salvini in particolare punta con  determinazione a riequilibrare i rapporti di forza e la Meloni ne sta registrando l’attivismo con crescente nervosismo.

La questione dei  migranti è, in questo contesto, il terreno di scontro più acuto. La Meloni ha cavalcato le pulsioni sovraniste e xenofobe dell’elettorato della destra italiana fino al voto dello scorso settembre, quando ha cannibalizzato con voracità l’elettorato già di Salvini. Poi, da Capo del governo, ha dovuto  necessariamente trovare gli equilibri con l’UE e con i ‘poteri forti’ dell’Italia e del mondo. E lo ha fatto, come lo sta facendo, anche con perizia pragmatica, grazie alla quale sta ottenendo significativi riconoscimenti internazionali. Riconoscimenti politici e, sotto il profilo economico, da parte delle agenzie di rating economico-finanziarie. Sta lasciando però spazio elettorale a Salvini, che, giocando da partito di lotta e di governo, accentua sempre più il suo posizionamento sovranista e xenofobo.

Il Decreto Cutro e i due articoli del Decreto Sud sui CPR, fin dai primi passi di questa legislatura, erano stati condivisi e co-gestiti, anche sotto il riguardo della propaganda, sia dai FdI che dalla Lega. E d’altronde la materia nel nostro Paese è stata tradizionalmente di competenza del Viminale, oggi tenuto dal Ministro Piantedosi; ufficialmente un tecnico, di fatto uomo molto vicino a Salvini. Ora però, col Patto Italia-Albania, il pallino è passato nelle mani della premier. Tant’è che tutta la parte realizzativa dei CPR di Albania e la loro gestione è stata affidata alla Difesa in concorso con Ministero della Giustizia, piuttosto che al Viminale.  Il primo senso politico del Patto Italia-Albania sta dunque nello scippo del tema migranti dalle mani di Salvini.

Il secondo sta nella volontà, dopo il palese insuccesso del Decreto Cutro, di dimostrare all’elettorato italiano nel suo insieme che si sta facendo qualcosa e che finalmente il governo ha trovato il modo di risolvere il problema che tanto angoscia la piccola e media borghesia italiane, oltre che la lumpen-borghesia. Che questa trovata si rivelerà nel tempo più o meno efficace sotto il profilo fattuale poco importa. L’importante è che a giugno, recandosi ai seggi elettorali, gli Italiani abbiano nella mente questo convincimento.

Si pensi solo alla tempistica. Cinque mesi per realizzare i due centri in Albania, e siamo ad aprile. Inaugurazione in pompa magna. Trasferimento ivi dei primi tremila sventurati. Altre fanfare a tutto volume sulla RAI-Luce. E siamo a maggio. Trenta giorni per valutare i singoli casi e le elezioni europee saranno state già consumate…

Veniamo ora al merito del Patto.

I migranti soccorsi da navi italiane, militari o della Finanza, verranno portati, nel numero massimo di tremila e con l’esclusione delle donne, dei bambini e degli infermi, nei due centri da costruire nelle aree di Shengjin e di Gjader in Albania. Il numero dei detenuti nei due CPR d’Albania, fissato in tremila come appena ricordato, è da intendersi come il numero massimo di migranti che possono restare in situ contestualmente. Dopo i primi tremila, nuovi ingressi potranno esserci solo se ci saranno corrispondenti uscite. Il governo italiano stima in trenta giorni il tempo medio per addivenire alle deliberazioni per ciascun migrante.

La prima considerazione da farsi è fattuale: cosa lascia immaginare al Governo che i migranti detenuti in Albania saranno rimpatriati in trenta giorni? L’obiettivo appare quanto meno velleitario. E se i primi tremila, invece di essere rimpatriati, o trasferiti in Italia nel caso gli venisse riconosciuto il diritto all’asilo, in trenta giorni lo saranno in un anno e più, com’è più che probabile, per tre o seimila pratiche evase all’anno a fronte di oltre centomila sbarchi in Italia, sarà valsa la pena di anticipare all’Albania ex nunc 16,5 milioni di euro, ai quali vanno aggiunte le spese per la realizzazione dei centri e per la loro gestione col personale italiano che dovrà esservi trasferito? La prima minaccia dunque è di uno spaventoso danno erariale al solo scopo di fare propaganda.

Passando al riguardo giuridico sono molte le perplessità.

La più macroscopica è l’incostituzionalità di un Patto tra Stati che non sia ratificato dal Parlamento. L’articolo 80 della nostra Costituzione prescrive che <<Le Camere autorizzano con legge la ratifica di trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importino variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi>>. Il Patto de quo: 1. si configura come un trattato internazionale di natura politica; 2. prevede arbitrati e procedure giudiziarie in caso di contenziosi; 3. importa variazioni di fatto del territorio di Albania, che trasferirà la sovranità delle due aree sopra citate allo Stato italiano; 4. comporta infine oneri finanziari.

Dunque necessita ineludibilmente della ratifica parlamentare con legge. Tajani se n’è accorto e si è affrettato quanto meno ad illustrare l’accordo in Parlamento nel contesto di un question time lo scorso 21 novembre. L’ha fatta passare come una disponibilità dettata dalla sensibilità democratica della maggioranza, non come un atto inderogabile, qual è. Ma ha comunque evitato che il treno deragliasse appena partito.

Tuttavia il passaggio parlamentare del 21 novembre non ha esaurito gli obblighi costituzionali. Il protocollo d’intesa sottoposto all’esame dell’aula difatti è per ora solo una dichiarazione d’intenti. Non è stato sottoposto a voto, né avrebbe potuto esserlo visto che non è strutturato in legge. Gli uffici legislativi dovranno tradurlo in norme e articoli da sottoporre al voto delle aule parlamentari. Tant’è che lo stesso Tajani ha annunciato alla Camera che il Governo a tambur battente sottoporrà alle aule il redigendo Ddl.

Il Protocollo lascia perplessi anche sotto il profilo del diritto UE. La commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, lo ha chiarito: «L’accordo Italia-Albania non viola il diritto comunitario perché ne è al di fuori» in quanto esso si applica <<ai soccorsi effettuati da navi italiane in alto mare, ovvero al di fuori delle acque territoriali italiane e quindi europee».  Dunque, supponendo che i salvataggi avvengano in acque internazionali,  il Patto è in linea col diritto comunitario. Dalla dichiarazione della Johansson, è però implicito dedurre che, qualora dovessero attuarsi in acque territoriali italiane, o greche, o comunque di Paesi membri dell’UE, esso non sarebbe in linea col diritto comunitario. Difatti se il salvataggio dei migranti avvenisse in acque europee, comporterebbe l’applicazione del diritto d’asilo dell’Ue – vedasi il trattato di Dublino – senza la possibilità di spedire i migranti richiedenti asilo in un Paese extra-UE, qual è ad oggi l’Albania.

C’è di più. Arrivato il richiedente asilo in Albania, o prima ancora, durante la sua permanenza sull’imbarcazione che lo avrà salvato, sarà un questore italiano a disporne la reclusione in uno dei due Centri italiani d’Albania. La disposizione del questore a sua volta dovrà essere confermata da un giudice italiano entro 48h. Emerge qui lampante non solo la mancata definizione, nel protocollo sottoscritto il sei novembre, del tribunale che eserciterà la giurisdizione del caso, ma anche la delicata questione della praticabilità dell’esercizio della funzione giudiziaria della nostra magistratura al di fuori del territorio nazionale. Sarà infatti quanto meno complicato l’esercizio ivi della giurisdizione extraterritoriale italiana sotto tutti i profili necessari, di procedura, rispetto dei diritti della difesa, ecc..

Peraltro la Cassazione non si è ancora pronunciata sul ricorso inoltratole dal Governo avverso le recenti sentenze della giudice Apostolico sul carattere arbitrario del trattenimento nei CPR italiani di alcuni migranti. Se non fosse legittimo detenere i migranti nei CPR italiani, come potrebbe un giudice disporlo per l’Albania?

Infine, i richiedenti asilo che dovessero essere giudicati dalla commissione ad hoc come non aventi diritto e che conseguentemente dovrebbero essere rimpatriati, potrebbero essere rinviati solo ai Paesi di loro provenienza, per i quali occorrerebbero reciproci accordi di rimpatrio. Di fatto ad oggi l’unico accordo vigente di questo genere è con la Tunisia. In attesa di ulteriori eventuali accordi con altri Stati, l’Italia si impegna a riprendersi indietro quelli che, decorsi i termini di trattenimento, non possono essere rimpatriati. Dunque, per questi casi, si torna punto e daccapo, un bel pasticcio!

Chiudiamo con una divagazione storica, per la quale siamo consapevoli di esporci all’irrisione perché forse ci figuriamo fantasmi.

1882, Depretis al Governo. Dopo varie esplorazioni geografiche in zona, l’Italia acquista dalla Società Rubattino la base navale di Assab in Eritrea, un piccolo pezzo di Etiopia rientra quindi sotto giurisdizione italiana. Proteste ed asalti da parte dei locali. 1885, massacro della spedizione Bianchi inviata a difesa della base navale, l’Italia coglie il prestesto per occupare Beilul e Massaua. Dopo un lungo scontro con l’esercito etiope, durante il quale avviene la terribile sconfitta di Dogali – 1887 – il Re d’Italia nel 1890 prende possesso della Colonia d’Eritrea. Capo del Governo era Francesco Crispi, il successore di Depretis.

Cosa potrà succedere se, nei prossimi mesi o anni, si dovessero verificare gravi disordini ed assalti ai due CPR d’Albania? Non è una eventualità immaginaria, quel Paese sta vivendo una fase di forti tensioni. Lo scorso 20 novembre i deputati dell’opposizione, nel tentativo di bloccare il voto sul bilancio, hanno devastato le suppellettili e riempito l’aria dell’aula parlamentare con fumo rosso, verde e viola tramite fumogeni, fino a costringere il premierr Edi Rama a lasciare l’aula sotto scorta degli agenti della sicurezza.

Per chiudere, linkiamo questo interrogativo con la storia della nostra politica estera: non fu l’annessione dell’Albania uno degli obiettivi imperiali di Mussolini, concretizzato nel ‘39?

L'autore

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Luigi Gravagnuolo

Luigi Gravagnuolo, n. 1951, è stato giornalista direttore della Radio Tv Salerno Sera, insegnante, docente presso l'UNISA negli anni novanta, comunicatore d'impresa e per Enti pubblici, direttore generale dei Comuni di Baronissi e di Salerno, sindaco di Cava de' Tirreni. Oggi è notista per diverse testate online, tra le quali genteeterritorio.it