(Mario Boffo, febbraio 2024)

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Dragut è un condottiero indomito. Non accetta, non conosce la sconfitta. Per questo, aggredito dalle navi napoletane intervenute a difendere Orano, che noi stavamo assediando, si è sganciato con tutta la squadra. Una volta al sicuro, però, ne ha mandato una parte, anche la nave dove sono imbarcato io, a compiere una scorreria a Napoli, che è rimasta indifesa. Le galee che ora puntano sulla vera capitale delle Spagne, la perla del Mediterraneo, la sola città che possa competere con gli splendori di Istanbul, sono comandate da  Uluğ Alì, il calabrese convertito.

Uluğ è un vero kapudan. Non vi è angolo del nostro mare che gli sia ignoto, non un paese dove non abbia compiuto scorrerie, non una lingua che non conosca. Parla italiano, calabrese, turco, greco, spagnolo. E conosce naturalmente il sabir, l’idioma che permette a tutti i popoli del mare di comprendersi, di dialogare nelle trattative commerciali, di insultarsi negli scontri.

E io, Kirmiz, così chiamato per il colore dei capelli, da quando anche io fui preso da Dragut, sono sulla galea di Uluğ. Sono il suo nocchiero. Sono il suo protetto, perché come lui napolitano, perché nel Vicereame siamo tutti napolitani.

Io però sono nato davvero a Posillipo, in una famiglia di pescatori di un borgo minuscolo e senza nome. Mi chiamavo Domenico, come il Santo che protegge dalle tempeste. La piccola imbarcazione che possedevo, con mio padre e i miei fratelli, percorreva il Golfo e approdava sulle rive di Chiaia per vendere il pesce. San Domenico mi protesse dalle tempeste, ma non dalla furia ottomana. Questo però venne dopo.

Sulle sponde di Chiaia scendeva la servitù della Marchesa del Vasto, Donna Maria d’Aragona, moglie di Alfonso d’Avalos, il Comandante delle armate imperiali. A volte c’era Caterina, un’ancella della Marchesa. Caterina, dagli occhi celesti e i capelli biondi. Un angelo che non sottraeva lo sguardo quando la invocavo con il mio. Caterina, che mi stava nel cuore e nei sensi. Caterina, alla quale non potevo nemmeno ambire a rivolgere la parola, perché io ero un umile pescatore e lei una giovane dama, pupilla di tanta nobiltà.

Eppure, Caterina talvolta mi sorrideva. Mestamente. Anche lei doveva essere consapevole della distanza che ci separava; forse quegli impercettibili segni di simpatia era tutto quello che ci saremmo potuti concedere. Troppo poco, per me. Allora meglio niente, meglio dimenticare. Mi imbarcai su una nave tonda che faceva commerci con le Calabrie, e che non approdava mai a Chiaia.

Non dimenticai nulla, mai, di quegli occhi e di quel sorriso. E quando i feroci uomini di Dragut catturarono la nave, fu il nome di Caterina che invocai, come quello di una fata, come quello di una santa. Insieme agli altri, fui trascinato ai remi di una delle galee che ci avevano assalito, e lì rimasi incatenato per tre anni.

Uluğ mi ebbe quindi al suo servizio, perché fu al comando della squadra di cui faceva parte quella galea. Mi volle con sé quando seppe di dove ero. Voleva a lui vicino uomini che conoscessero le coste, e quelle di Napoli erano le più ambite. Quindi mi tolse dal remo, e mi tenne come nocchiero. Sono con lui da due anni. Dovetti farmi mussulmano. Come lui.

Forse Caterina l’avrei dimenticata, con il tempo. Le donne di Costantinopoli, turche, circasse, greche, tatare, slave, albanesi, sono in grado di far dimenticare anche la Madonna, che Gesù mi perdoni. E nelle soste fra un scorreria e l’altra, non mi sottraevo alle gioie e alle letizie di bordelli dove le fanciulle certo rivaleggiavano in bellezza con quelle del Serraglio. Ma ora sto andando a Napoli, al seguito del mio Kapudan, e  Uluğ vuole sbarcare proprio a Chiaia. Gli ho suggerito di assaltare il Palazzo d’Avalos e di rapire la stessa Marchesa del Vasto, per puntare così a un ricchissimo riscatto. Mi sono offerto di guidarlo nell’impresa, perché in quel Palazzo c’è Caterina.

Caterina, che mi riesplode in mente, in tutto lo splendore della sua bellezza, dall’oblio in cui avevo cercato di seppellirla. Potrò rivederla, potrò averla! La condurrò mia schiava a Costantinopoli e ne farò la mia regina. Come il grande e Magnifico Suleyman ha fatto con Hurren, la sola donna con cui giacque per tutta la vita dopo averla conosciuta.

Avanti, mio Kapudan, la ricchezza e l’amore ci aspettano!

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“Li turchi so’ sbarcate a la marina! Li turchi so’ sbarcate a la marina! ‘Nserrateve ‘int’a ‘li case, sunate ‘li campane!!!”

Era già sera quando le grida sparsero il panico. Tirai in secco la barca, cercai di nasconderla alla meglio sotto un telo. È la mia sola ricchezza. Poi li vidi scendere a terra dalle scialuppe, con calma, senza urlare. Lasciati i rematori di guardia, sembravano dirigersi verso una destinazione precisa, senza curarsi dell’allarme che avevano destato e delle porte che si chiudevano pesantemente nel terrore. Vidi che andavano verso il Palazzo. Avrebbero forse risparmiato le povere famiglie di Chiaia?

Corsi alla casa di certi amici, anche loro come me pescatori, e rinserrammo porte e finestre.

“Nicola, che sta’ succedenno?”

Le donne di casa mi interpellavano; ma io non sapevo che consigliare, se non di chiudere qualunque uscio e di pregare. Intorno, nessun trambusto. Solo angoscia. E il mormorare dei rosari.

Non possiamo fare altro che aspettare e invocare la Madonna.

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A Palazzo d’Avalos irrompemmo come ossessi, sfondando portoni e arrembando le mura e le finestre. Dentro, i servi e le domestiche, che già si stavano accingendo alla notte, urlavano il nome di tutti i santi. I più giovani venivano subito incatenati; gli uomini avrebbero servito come rematori o schiavi; le fanciulle, come serve o concubine; a meno che non fossero riscattati. Gli anziani e inutili venivano subito sgozzati o decapitati. Alcuni di noi depredavano ogni cosa che apparisse di qualche pregio. Dovevamo portare indietro quanto più possibile in gente e beni. Nessuno voleva deludere  Uluğ, e  Uluğ non voleva deludere il Sultano, cui sarebbe spettato una parte del bottino.

Io, però, non sgozzavo, non rubavo, non catturavo. Io cercavo Caterina.

Ma le prede più preziose, la Marchesa e Caterina, non si trovavano; financo nelle stanze padronali, nei gabinetti privati, nei nascondigli più reconditi. Alcuni servitori, legati e minacciati, rivelarono che la Marchesa non era nel Palazzo, era andata fuor della grotta, ad Agnano, dove trascorreva periodi di cura. Afferrai per la gola un vecchio di casa e gli chiesi di Caterina. Neanche lei, rispose il vecchio terrorizzato, neanche lei era nel Palazzo, aveva seguito la Marchesa. Fu l’ultima cosa che disse, perché gli trafissi la gola con tutta la disperazione e la rabbia che avevo in cuore.

E via, allora, con gli altri, a scatenare lo smacco sulla gente di Chiaia. Se non abbiamo potuto avere le gemme più preziose, avremo almeno merce materiale e umana a ripagare la nostra impresa.

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“Arapite, arapite! Simmo de’ vuoste”.

Sentiamo queste voci nel trambusto che ora si spande per le case. Molti, credendosi rassicurati, aprono le porte. Ma quelli non sono amici, non sono soccorritori. Sono i rinnegati napoletani che in questo modo inducono i più sprovveduti. Entrati nelle case, è tregenda. Dalle più povere prendono uomini e donne, ammazzano vecchi e invalidi, catturano bambini. Dalle più ricche prelevano ori, preziosi e persone di rango per cui chiedere riscatto.

Io non mi sono fidato. Ho imposto alla gente che mi ha dato ricovero di non parlare e di non prestare ascolto ad alcuna invocazione. Almeno fino al mattino, quando forse arriverà qualche soccorso.

Dall’esterno giungevano pianti, invocazioni, urla. Da una casa all’altra, tuttavia, da qualche finestra meno esposta agli assalti, ci si dava la voce, si davano e si chiedevano notizie, si osservavano le fiamme appiccate alle case e alla Cappella di San Leonardo, dove l’altare era stato profanato e i preti trucidati.

Noi sgranavamo un rosario dopo l’altro.

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Anche io, Kirmiz, mi do alla razzia e all’eccidio. Sono un mussulmano, ora, un rifugiato presso la Sublime Porta. La frustrazione di non aver trovato Caterina, ora che il Destino, con un supremo inganno, sembrava avermela offerta come il dono più prezioso, mi ha reso feroce. Rubo. Uccido. Stupro.

Anche io, come gli atri rinnegati, busso alle porte, parlo nella lingua familiare. Alcune porte si aprono, ed è la devastazione. Altre restano chiuse. Le tralasciamo. Torneremo dopo. La notte è ancora lunga.

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“Nico’, stanno bussanno… arapimmo?”.

Quei turchi maledetti, e più maledetti ancora i cristiani rinnegati, stanno adesso cercando di entrare anche qui. Rinforziamo le porte con delle travi. Fuori, l’inferno.

Cominciano a forzare la porta, la scuotono. Dico alle donne di rifugiarsi al piano di sopra. Le raggiungo, e sento che dabbasso la porta ha ceduto. Salgono le scale. Un giovane dai capelli rossi mi si para davanti e si ferma attonito.

Attonito resto anch’io, perché quell’uomo è mio fratello Domenico.

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Quando ho visto mio fratello Nicola con gli occhi sbarrati dal terrore, dalla sorpresa, dalla speranza… forse dall’affetto, sono stato preso da un tumulto. Kirmiz e Domenico si battevano  nel cuore e nella mente. L’uno diceva “uccidi; è un infedele”; l’altro diceva “abbraccialo; è tuo fratello”.

Lo vedo che mi viene incontro senza parlare.

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Quando ho visto Domenico, non sapevo che cosa sarebbe successo. I rinnegati sono i peggio. Sapevamo che era stato preso dai turchi, ma mai avrei pensato che si facesse saraceno.

Adesso non so che farà. Mi sgozzerà con la scimitarra? Cado in ginocchio e scoppio a piangere. Vedo che anche lui cade in ginocchio e scoppia a piangere.

Le donne di casa pregano la Madonna e Gesù Cristo.

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Spuntano le prime luci dell’alba. Sento i comandanti che urlano, che chiamano. Bisogna tornare alle scialuppe, ora, subito, prima che arrivino armigeri cristiani, oramai certo allertati. Sento i compagni che si raggruppano, che si avviano in fretta alla spiaggia.

Mi alzo. Negli occhi di mio fratello leggo sentimenti che non possono essere descritti. Sconforto, pietà, amore, condanna. Sì, mi dico, sono tuo fratello, ma adesso sono un turco. Un nemico. Un infedele.

Guadagno anch’io la strada verso l’imbarco. Non devo pensare. La mia vita ora è questa. Raggiungeremo le galee alla fonda e innalzeremo le insegne del riscatto.

Con le luci del giorno, parenti e amici dei presi verranno a trattare. Chi ha qualcuno che paghi, sarà liberato. Per gli altri, sarà la galera, la schiavitù, l’harem.

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Sono arrivate le guardie armate, i messi del Viceré, gli agenti del Pio Monte. Tratteranno, pagheranno. Forse la maggior parte sarà riscattata, forse tutti.

Tutti tranne mio fratello Domenico. Egli non è più un captivo, perché è passato dalla parte del turco. È mio fratello, ma non è più mio fratello.

Aspettiamo.

Vediamo poi che tra urla di giubilo delle famiglie i rapiti tornano a terra. Vediamo poi che le galee corsare si allontanano verso l’orizzonte.

Piango mio fratello. Lo piango perché ha rinnegato Cristo e perché è dannato.

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Guardo, forse per l’ultima volta, le sponde della terra dove vidi la luce e dove conobbi l’amore. Dove ho portato l’odio.

Non tornerò, non per mia volontà.

Guardo il mare. Questo mare maledetto che avversi adoratori dello stesso Dio non fanno che profanare e tingere del reciproco sangue…

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(Ispirato all’incursione che  Uluğ Alì, il rinnegato calabrese Giovanni Dionigi Galeni, compì a Napoli il 25 maggio del 1563)

 

In copertina: Napoli, Castel dell’Ovo

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.