I media mettono in pericolo la democrazia?

“In un’epoca di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”, diceva George Orwell in 1984. Oggi i media, di qualunque genere, ci dicono la verità? I media mettono in pericolo la democrazia? Un semplice, piccolo giro nei meandri dei media del mondo, in particolare quelli delle grandi democrazie del nostro tempo, ci dà da pensare. Il nostro mondo s’impantana nella falsificazione, la frode, gli inganni e le bugie.  C’è da credere che siamo in pieno nell’universo orwelliano.

Terrorismo mediatico

Apertamente conniventi, i media costituiscono una delle tecniche moderne – forse la prima e certamente la più efficace – della velleità di controllare gli individui. Si applicano, molto meglio di quello che faceva il «Partito » immaginario di George Orwell, ad eliminare ogni idea « eretica » . Certamente non tutti, ma gran parte fra essi, e non dei minori. Quando la CNN, per ragioni oscure, cade nella diffusione di fake news, e il presidente degli Stati Uniti riprende immediatamente le sue affermazioni, la libertà trema, muore. Non è il solo esempio da citare e certamente non l’ultimo che ci offrono i media dominanti.

Big Brother non è mai stato tanto reale, tangibile e evidente. È tornato in servizio notoriamente ed esplicitamente, sulle onde e i set dei maggiori media internazionali, quelli che si vantano di essere i cantori della libertà d’espressione e d’opinione, gli alfieri della democrazia nei quali abbiamo molto a lungo creduto. Non vederlo, non dirlo, senza voleremo questo accusare e giudicare, non serve alla democrazia.

La gerarchizzazione delle vite umane, i due pesi e due misure e i doppi standard mediatici sono proposti come regole assolute. Ci sarebbero i maestri e gli eterni scolari, quelli che comandano e quelli che debbono eseguire. Ci sarebbero pure quelli che hanno il diritto di vivere e quelli che debbono sparire. La bomba è cieca e assassina se spazza via un ucraino diventa “diritto di difendersi” quando la vittima è palestinese. È così e non altrimenti. Nessuno deve osare domandarsi perché, se no sarà ben presto catalogato come complottista, oppure – ed è ancora più netto, più pulito – tacciato di terrorismo o di  antisemitismo e ridotto al silenzio mediatico.

Crimini di pensiero

La « polizia del pensiero » opera sugli schermi a viso scoperto. I « crimini del pensiero » pullulano sulle grandi catene televisive internazionali, ma anche più numerosi e in maniera molto più incontrastabile, sulle piattaforme Internet, che un tempo avevano promesso di allargare il campo della libertà dando una voce a chi non ha voce.

Censori zelanti e freddi, manifestamente colpiti da quello che Hannah Arendt definisce la « banalità de male », limitano a viva forza la parola, o semplicemente sanzionano il blocco dei conti dei cittadini-giornalisti, quando si azzardano ad uscire dalla « distopia totalitaria ». Un’ideologia oppressiva opera senza interruzione a epurare tutti i pensieri che considera scomodi. La libertà d’opinione e d’espressione, fondamento – come ci è stato insegnato – della democrazia, deve ormai aderire in maniera cieca alle coperture pregiudiziali e unilaterali delle grandi imprese mediatiche.

Col progresso dell’Intelligenza Artificiale i rischi assumono delle forme diverse e ben più dannose. In questo mondo fortemente interconnesso, nessuno verrà risparmiato.

Il Forum sulla legge, i diritti e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Just Security (www.justsecurity.org) ci spiega, per esempio, che la polizia di Memphis (USA) ha creato un falso profilo Facebook per stringere amicizia con militanti di Black Lives Matter e raccogliere informazioni tramite loro.  Più grave ancora (ma forse no), nella più grande democrazia del mondo i pregiudizi integrati negli algoritmi dei programmi colpiscono i diritti di alcuni individui. In effetti, lo stesso Forum denuncia che degli utenti di Instagram hanno recentemente scoperto che l’etichetta terrorista era stata aggiunta alla loro biografia in inglese se la loro biografia araba comprendeva la parola « Palestinese », l’emoji della bandiera palestinese, o ancora l’espressione araba corrente « lode a Dio ».

Una democrazia di facciata

A fronte di questi fatti e di tanti altri, si può ancora parlare di democrazia? Una democrazia che calpesta le libertà, soprattutto due più fondamentali, cioè la libertà d’opinione e d’espressione, sarebbe democratica? Ma allora, di che democrazia parliamo? La democrazia sarebbe, come afferma il professor Alain Badiou, « nient’altro che uno strumento di propaganda del capitalismo » ? Un imbroglio per le masse ingenue? Molti lo pensano, peraltro non senza fondamento.

Dalle fake news alla manipolazione, i media dominanti non s’interessano chiaramente più dei principi deontologici. Formano l’opinione pubblica senza un contesto, senza una logica. La sola democrazia che predicano e che si sforzano incessantemente di imporre, anche con la violenza, si riduce a una costituzione, un multipartitismo di facciata, delle elezioni e l’avvicendamento al potere. Insomma, una democrazia solo di facciata.

Lotta contro l’occupazione, autodeterminazione, sovranità sulle risorse nazionali, scambio ineguale e ingiusto e anche la pura e semplice libera circolazione delle persone, sono concetti quasi assenti nel loro lessico, delle questioni minori che lasciano entrare nel dibattito pubblico solo occasionalmente.

Tantissime sono le ragioni che spiegano questo freno all’emergere di un giornalismo che si tira fuori dagli stereotipi. La lista è lunga, e va – malgrado le differenti linee editoriali – dall’assenza di cultura e di prospettiva storica, alla fascinazione per l’aneddoto, dalla mancanza di formazione al peso considerevole delle reti sociali che costituiscono l’unica fonte cui ricorrono i giovani giornalisti.  La prossimità di certi media ai poteri politici, economici e ideologici aggrava la situazione.

È una constatazione che turba. Anche se i media occidentali non formano un blocco monolitico, anche se certi si smarcano, resta comunque il fatto che essi veicolano, nella loro diversità, attraverso i loro giornalisti, una concezione riduttiva, che non rende conto affatto della diversità filosofica, culturale e spirituale dell’insieme dei popoli del mondo.

Non è il caso di cercare un colpevole e soprattutto non solamente dal lato dei professionisti dei media. Molti tentano, a loro rischio e pericolo, di fare correttamente il loro mestiere e certi riescono anche ad informarci. Vogliamo prendere posizione per la costruzione di un discorso di tolleranza e di dialogo rispettoso, che metta all’ordine del giorno la pace di cui il nostro mondo ha molto bisogno. Una copertura mediatica equilibrata  professionale che non metta in pericolo la democrazia: niente di più!

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L'autore

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Habiba Mejri-Cheikh

Habiba Mejri-Cheikh è Co-presidente e co-fondatrice di I-Dialogos, ex Direttrice dell'Informazione e della Comunicazione dell'Unione Africana. Vive a Tunisi.