Yassine Lafram è il Presidente nazionale dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII). È nato a Casablanca nel 1985 e cresciuto in Italia; guida la comunità islamica di Bologna, città in cui risiede. Ha conseguito l’incarico di Presidente nel 2018, e persegue la promozione delle aspettative degli islamici nel nostro paese attraverso il dialogo con le istituzioni.
Lo abbiamo intervistato per LAB Politiche e Culture, con l’intento di conoscere il suo pensiero su vari temi inerenti all’integrazione in Italia delle comunità musulmane e su alcuni argomenti di attualità internazionale.
Ecco le domande e le risposte di Yassine.
L’UCOII è l’unione delle comunità islamiche in Italia. Immagino che unisca le comunità islamiche diffuse regionalmente; ma le diverse comunità sono caratterizzate anche da modi diversi di interpretare l’Islam, oppure da diverse correnti teologiche e confessionali?
L’UCOII riunisce comunità islamiche diverse per provenienza, sensibilità e percorsi, ma unite da una visione condivisa dell’Islam. Esistono, naturalmente, differenze giurisprudenziali e culturali – come tra scuole di pensiero o tradizioni locali – ma ciò non rappresenta un ostacolo, bensì una ricchezza. Lavoriamo affinché queste differenze siano vissute all’interno di una cornice comune di fede, cittadinanza e responsabilità sociale.
Nonostante le molte differenze dottrinali, e almeno nell’immaginario collettivo dell’Occidente, l’Islam ha connotazioni genericamente conosciute nei suoi tratti essenziali, o almeno genericamente percepite. Esso è nato e si sviluppato storicamente nei paesi che sappiamo. La crescita delle comunità islamiche in Occidente e in Europa, evento tutto sommato recente sul piano storico, sta dando luogo a un Islam diverso, frutto dell’incontro con la civiltà occidentale e cristiana?
L’Islam vissuto in Europa non è un Islam diverso nei fondamenti, ma è un Islam che si esprime in un contesto nuovo, in relazione ai valori costituzionali, democratici e pluralisti. Questo incontro sta portando i musulmani a elaborare nuove forme di espressione della propria fede, più consapevoli del contesto civile in cui vivono, senza rinunciare alla loro identità religiosa. È un cammino di crescita reciproca.
In alcuni paesi europei, con una storia di immigrazione precedente, rispetto all’Italia, il rapporto di alcune comunità islamiche con la società locale ha dato luogo ad attriti, a ghettizzazione e a problematiche che non aiutano la piena integrazione e il rispetto reciproco. Come vede la situazione in Italia, e come pensa che situazioni sgradevoli possano essere rimosse o prevenute?
In Italia il percorso migratorio è più recente rispetto ad altri paesi, e ciò ha permesso in alcuni casi di costruire relazioni più dirette con le istituzioni. Tuttavia, permangono criticità: pregiudizi, disuguaglianze, carenza di spazi di culto, mancanza di rappresentanza adeguata. Per evitare dinamiche di isolamento o ghettizzazione, è necessario investire sull’inclusione, sulla partecipazione civica e su una narrazione pubblica che riconosca i musulmani come parte integrante del tessuto nazionale.
In Italia vi sono sufficienti moschee? E se non ve ne sono, è perché sono poche, o perché non sono abbastanza distribuite sul territorio? Che cosa chiedono, al riguardo, le comunità islamiche, e come si confrontano con le istituzioni locali?
No, il numero di moschee e spazi adeguati al culto musulmano è insufficiente e spesso mal distribuito. In molte città, i fedeli si ritrovano a pregare in garage, capannoni o locali improvvisati, con evidenti limiti di dignità e sicurezza. Le comunità islamiche, attraverso un dialogo trasparente con le istituzioni locali, chiedono il riconoscimento del diritto fondamentale alla libertà religiosa, e quindi la possibilità di costruire luoghi di culto regolari, aperti e integrati nella società.
Che cosa pensa del fondamentalismo islamico? In alcuni paesi si è manifestato con conseguenze anche gravi. Crede che vi sia questo pericolo anche in Italia? E se c’è, anche solo a livello potenziale, come prevenirlo?
Il fondamentalismo è una minaccia che riguarda tutte le società, e non è esclusivo di una religione. In Italia il fenomeno è marginale, ma non va sottovalutato. La risposta più efficace non è solo la sicurezza, ma la prevenzione: serve educazione, inclusione, dialogo. Le comunità islamiche devono essere parte attiva della soluzione, contribuendo a diffondere un Islam radicato nei valori di pace, giustizia e responsabilità civile.
Considera sufficiente l’apertura della società italiana verso le comunità islamiche?
Negli ultimi decenni, la società italiana ha fatto passi avanti nell’apertura verso le comunità islamiche, ma persistono ancora stereotipi, diffidenze e una certa resistenza nel riconoscere pienamente la pluralità religiosa. Anche i musulmani devono fare la loro parte, rafforzando la propria presenza civica, culturale e istituzionale. L’inclusione è un processo reciproco, che richiede impegno, fiducia e conoscenza.
Come giudica, viceversa, il fatto che in alcuni paesi il culto cristiano non sia consentito in forma ufficiale e libera?
L’UCOII ha sempre espresso con chiarezza la propria posizione in favore della libertà di culto per ogni fede e in ogni contesto. Sosteniamo il principio che la libertà religiosa è un diritto fondamentale e universale, da tutelare senza eccezioni. È un dovere morale e religioso difendere il diritto di ogni individuo a professare la propria fede liberamente, ovunque si trovi, senza discriminazioni.
Vi sono temi che differenziano l’Islam dalla cultura occidentale ed europea: la (controversa) necessità del velo, il ruolo e le libertà della donna, il conflitto che insorge talvolta tra leggi europee e la sharia… Come si declina tutto ciò in Italia? Ciò che divide i diversi modi di sentire, è iscritto nelle teologia e nella dottrina, oppure si tratta di concetti e usi di carattere culturale? Potranno, questi temi, diluirsi col tempo entro il modo occidentale di concepire la società, o rischiano invece di acuirsi a causa della loro potenza simbolica, e rendere più difficile la competa e serena integrazione?
Dipenderà dalla qualità delle relazioni e delle politiche. Se sapremo costruire un dialogo sincero, valorizzare le diversità come risorsa e garantire pari diritti e doveri, le differenze culturali si armonizzeranno con il tempo. Se invece si alimentano diffidenze e discriminazioni, si rischia una polarizzazione. Le nuove generazioni cresciute in Italia stanno già dimostrando che è possibile coniugare fede, identità e cittadinanza.
Molti di questi temi sono spesso deformati nel dibattito pubblico. Il velo, ad esempio, è un’espressione spirituale e identitaria che deve essere scelta liberamente, mai imposta né vietata. Il ruolo della donna nell’Islam è centrale, e va sottratto a letture patriarcali che non rappresentano il messaggio autentico della fede. Per quanto riguarda la sharia, nessuno chiede di sostituire il diritto italiano: i musulmani vivono la loro religione nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi dello Stato.
Un convegno in Bahrain dell’anno scorso si è posto il tema di che cosa possano fare le diverse religioni dell’umanità per collaborare su obiettivi comuni, mettendo da parte le questioni dottrinali e teologiche, che risultano divisive. Lei ritiene possibile questo? E quali potrebbero essere gli obiettivi concreti di tale collaborazione?
Sì, ed è già in atto. Le religioni possono e devono collaborare su obiettivi comuni: la giustizia sociale, la pace, la dignità della persona, l’educazione, la tutela dell’ambiente. Le differenze dottrinali non devono diventare un ostacolo, ma uno stimolo al rispetto reciproco. Il dialogo interreligioso è una responsabilità condivisa: non si tratta di cancellare le differenze, ma di costruire insieme il bene comune.
Lei si è espresso spesso in modo molto positivo, con dichiarazioni e con atti, nei riguardi di Papa Francesco. Come vede adesso Leone XIV?
Ho espresso più volte pubblicamente la mia profonda stima per Papa Francesco: un leader spirituale che ha dato voce agli ultimi, ha promosso la pace e il dialogo tra le religioni, e ha costruito ponti anziché muri. Per quanto riguarda Papa Leone XIV, è ancora presto per dare un giudizio completo, ma auspichiamo che prosegua sulla via del dialogo interreligioso, della giustizia e dell’inclusione. L’UCOII resta disponibile a collaborare su questi obiettivi.
Più in generale, che futuro pensa che avrà il dialogo interreligioso? Si tratta semplicemente di conoscersi e capirsi meglio, oppure si tratterà di trovare terreni comuni anche sul piano strettamente religioso? E in Italia, qual è il denominatore comune atto a rispettare le differenze ma a realizzare la piena inclusione di tutti i fedeli e di tutti i cittadini?
Il dialogo interreligioso non è un lusso, ma una necessità. Non si tratta solo di capirsi meglio, ma di contribuire insieme alla costruzione di una società più giusta, più solidale, più umana. In Italia, il denominatore comune deve essere la dignità umana, la libertà di coscienza, la legalità e la convivenza pacifica. Su questi valori possiamo camminare insieme, nel rispetto delle differenze, per una piena cittadinanza di tutti.
Indubbiamente le grandi religioni presentano anche aspetti politici; allora le pongo un’ultima domanda a tema internazionale. Il Medio Oriente è attraversato da tragiche vicende; che influenza potranno avere, tali vicende, sul dialogo e sui rapporti fra le religioni, soprattutto fra le religioni del Libro?
I tragici eventi che attraversano il Medio Oriente hanno inevitabili ricadute anche nei rapporti interreligiosi in Europa. È fondamentale non lasciare che le tensioni esterne alimentino divisioni interne. Le religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e Islam – hanno oggi una responsabilità ancora più grande: essere voce di pace e giustizia.
Noi come UCOII siamo dalla parte delle vittime civili, e in particolare del popolo palestinese, che sta subendo una catastrofe umanitaria che definiamo senza esitazioni come un genocidio. In quanto credenti e rappresentanti religiosi, abbiamo il dovere di denunciare apertamente queste violazioni del diritto e di stare dalla parte degli oppressi. Il silenzio, oggi, sarebbe una forma di complicità. La giustizia non è un’opzione, è un principio che fonda ogni dialogo autentico.