In genere, si assiste a dibattiti sulla scuola pubblica, in cui mancano coloro che la scuola la vivono davvero: insegnanti, studenti, collaboratori scolastici, assistenti amministrativi. Spesso, in rappresentanza di tutti, viene invitato solo il Dirigente Scolastico, che dovrebbe avere una visione globale della situazione. Però, nella realtà dei fatti, sono i docenti ad essere impegnati, in prima linea, per far funzionare il sistema scolastico, nonostante i continui tagli agli organici. Anche quest’anno, infatti, la scuola ricomincia con 200mila insegnanti precari e 40.404 cattedre scoperte. Per le materie scientifiche e letterarie, le graduatorie sono quasi esaurite e mancano i docenti, a causa di un sistema di concorsi “a quiz”, che non è stato in grado, negli ultimi decenni, di reclutare personale docente, in maniera adeguata. L’ultimo vero concorso per esami e titoli risale, infatti, all’anno scolastico 1999/2000. Secondo gli obiettivi fissati dal PNRR, sono previste 70.000 assunzioni entro il 2024, ma si attendono ancora i bandi di concorso e non è nemmeno ancora in Gazzetta ufficiale il Dpcm sulla formazione degli insegnanti. Intanto, per il corrente anno scolastico, il Mef ha autorizzato 50.807 assunzioni, a fronte degli 81.023 posti disponibili, di cui solo 40.619 a tempo indeterminato. Le regioni con il maggior numero di docenti precari, assunti a settembre e licenziati a giugno, sono la Lombardia (49.000), il Piemonte (27.000) e il Veneto (23.000). In Emilia-Romagna, un insegnante su quattro è precario: sono circa 9.300 le supplenze “ordinarie” (fino al 31/08 e fino al 30/06), conferite dall’Ufficio Scolastico Regionale al personale docente. Di queste, circa 3.700 su posti comuni e 5.600 su sostegno. Nella nostra regione, su 7.500 posti vacanti, il Ministero ha autorizzato 5.458 assunzioni, ma dal momento che in alcune discipline, come quelle scientifiche, è difficile trovare docenti, alla fine delle operazioni probabilmente sarà possibile immettere in ruolo circa 5.200 docenti e quei 2/300 posti rimasti fuori dalle nomine in ruolo verranno coperti con le supplenze. Secondo la Cgil scuola, a Bologna sono stati confermati gli organici dello scorso anno, ma in realtà ci sono scuole che, per mantenere lo stesso numero di insegnanti, sono state costrette ad accorpare tra loro le classi, talvolta obbligando gli alunni a cambiare indirizzo, rispetto a quello scelto inizialmente. L’annoso problema del precariato ricade, perciò, soprattutto sugli studenti, a cui non viene pienamente garantito il diritto all’istruzione e alla continuità didattica. I docenti precari, infatti, cambiano sede ogni anno e non riescono a seguire gli alunni per tutto il ciclo scolastico. Ciò penalizza, in modo particolare, gli allievi disabili: in Emilia-Romagna servono 13.900 insegnanti di sostegno, ma 8.000 posti andranno a supplenza. Solo alla scuola primaria, su sostegno, si registrano 83 posti scoperti a Modena, 65 a Bologna, 60 a Reggio Emilia, 50 a Parma, 45 a Ravenna, 27 a Ferrara, 26 a Piacenza. Posti che andranno ai precari, la maggior parte non specializzati o reperiti tramite Mad, cioè la messa a disposizione: elenchi aggiuntivi ai quali i Dirigenti Scolastici attingono per disperazione, quando non riescono a trovare insegnanti. Peccato che, però, spesso si tratti di “docenti per caso”: ex commesse, pizzaioli, architetti, artisti di vario genere, che di scuola e di didattica non sanno nulla. Per essere inseriti nelle Mad, è sufficiente inviare una mail che indichi il titolo di studio posseduto, gli interessi e gli impieghi precedenti. Poi, i Dirigenti selezionano, dando la precedenza ai laureandi in Scienze della Formazione, ma in caso di necessità pescano chiunque. Inutile dire che tutto questo va a discapito della qualità dell’offerta formativa, ma serve a far fronte ad una situazione di emergenza, dovuta al fatto che la maggior parte dei posti è al Nord, ma la maggioranza dei docenti è del Sud. In Emilia-Romagna, su 2.137 cattedre, solo 17 docenti hanno accettato la nomina in ruolo: tutti gli altri hanno preferito rimanere precari, ma vicino casa. Su questa scelta, a pesare è sempre di più il costo della vita e, in particolare, della casaUn insegnante che guadagna in media 1.300 euro al mese difficilmente può sostenere un affitto da 800 euro, nelle grandi città del Nord Italia.

Servono, perciò, politiche strutturali, che siano in grado di puntare davvero sulla scuola pubblica, come leva di emancipazione sociale. Una scuola intesa come comunità educante e non come azienda, guidata da Dirigenti burocrati, secondo una concezione verticistica, introdotta dalla riforma Gelmini-Berlusconi-Tremonti-Brunetta. Da allora in poi, la nostra non è più stata davvero una “buona scuola”: l’ultimo vero programma politico per una scuola buona è stato quello di Bersani, il cui governo, purtroppo, non ha mai visto la luce. Sono stati anni davvero bui per la scuola pubblica, continuamente sabotata, in favore di quella privata. Nonostante tutto, però, la maggioranza degli insegnanti ha continuato a svolgere la propria professione, con passione e dedizione. È proprio su questo impegno e sulla professionalità dei docenti che si regge ancora la scuola statale italiana. Gli insegnanti che amano il proprio lavoro ritengono fondamentale il ruolo dell’istruzione sia per formare il cittadino di domani sia per uscire dall’attuale crisi di valori. L’istruzione e la cultura, infatti, sono le forme di prevenzione più efficaci contro la violenza e la prevaricazione. Per questo, dopo i fatti di Caivano, Don Patriciello ha chiesto l’intervento di un esercito di maestre elementari. In molte realtà, infatti, specialmente quelle più disagiate, la scuola è l’unico presidio di legalità sul territorio. È a scuola che si imparano quei valori, che ci rendono davvero umani: la convivenza democratica, il rispetto per la diversità, l’integrazione multietnica. Per questo, occorre che la politica torni ad investire risorse sulla scuola pubblica, considerata non più in termini di costo, ma come un investimento, per il futuro del nostro Paese. Una scuola pubblica in cui il diritto all’istruzione sia garantito a tutte e tutti in egual misura, secondo il dettato costituzionale e non secondo il progetto di autonomia differenziata, voluto da Calderoli, che rischia di segnare la fine di un sistema nazionale di istruzione, a scapito delle regioni del Sud. La scuola non può e non deve rispondere alle logiche del mercato: non è un’azienda, che deve garantire determinati standard di efficienza e di performance, ma una comunità educante, in cui ciascuno possa trovare spazio, per emanciparsi culturalmente e socialmente. L’istruzione non può diventare un lusso per pochi, ma devono essere garantite a tutte e a tutti le stesse opportunità di formazione, per una scuola che sia davvero del merito e non del privilegio.

Peccato, però, che il Ministero dell’Istruzione e del Merito stia remando in direzione contraria: la norma del dimensionamento scolastico, contenuta nell’ultima Legge di Bilancio, prevede l’accorpamento e la chiusura delle scuole con meno di 900 studenti, con conseguente taglio dell’organico di docenti, personale Ata, Dirigenti Scolastici e Dsga. Nonostante il dimensionamento scolastico produrrà i suoi maggiori effetti a partire dal 2024/25, già nel 2023 sono previsti numerosi tagli, conseguenti al calo della popolazione scolastica. Si è, infatti, stimato che da oltre 8 milioni questa scenderà a meno di 7 milioni, nell’arco di dieci anni. Per il governo Meloni sembra, dunque, ineluttabile che la scuola subisca ancora dei tagli. Secondo le stime ufficiali, già nel 2023, quasi 700 scuole saranno accorpate, soprattutto nelle regioni del Sud. La prima regione a ribellarsi e ad annunciare ricorso alla Corte costituzionale è stata la Campania, seguita a ruota dalla Puglia e dalla Toscana. Anche la Regione Emilia-Romagna ha preso posizione al riguardo: “Il governo taglia sulle scuole, rischiamo le classi pollaio. Non l’ho mai fatto in otto anni, ma impugno il provvedimento davanti alla Corte costituzionale”, ha affermato il Presidente Stefano Bonaccini. Il Ministro Valditara ha risposto alle critiche, precisando che: “Sul tema del dimensionamento scolastico le scelte del dicastero vanno nella doppia direzione di mitigare gli effetti delle normative precedenti e osservare i vincoli dell’Ue, in attuazione del PNRR”. La sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti ha spiegato che “la riforma ha l’obiettivo di parametrare il numero delle autonomie scolastiche alla popolazione studentesca regionale e non più, come in passato, al numero di alunni per singola istituzione. Ne discende che la riforma consentirà alle regioni di procedere, in piena autonomia, a una pianificazione, a livello locale, adeguata alle esigenze del territorio e, contestualmente, al Ministero di programmare un piano di assunzioni, sulla base dell’effettivo fabbisogno, tenuto conto del personale attualmente in servizio e della stima delle cessazioni per i prossimi anni. Il sistema introdotto dalla riforma si prefigge, altresì, di ottenere un abbattimento delle reggenze attribuite ai Dirigenti Scolastici e della consuetudine di condividere tra più scuole i Direttori dei servizi generali e amministrativi, nonché il miglioramento dell’efficienza amministrativa e gestionale”. Come facilmente prevedibile, il provvedimento ha infiammato il dibattito politico: i partiti di opposizione hanno parlato di attacco alla scuola pubblica, con un provvedimento scellerato che andrà a privare i piccoli comuni di quelle scuole piccole, ma fondamentali per il territorio. Anche i sindacati sono contrari: Francesco Sinopoli, Segretario generale di Flc-Cgil ha detto, senza mezzi termini, che il dimensionamento scolastico non è nient’altro che una serie di tagli, portati avanti con la scusa della coerenza con gli obiettivi del PNRR. Contestato anche il pretesto dell’eliminazione delle reggenze. Usb Scuola fa notare, infatti, come pur venendo meno le reggenze, i Presidi avranno in affidamento ancora più plessi, con un carico di lavoro maggiore che, in alcuni casi, può estendersi su scuole dislocate in più comuni. Il Presidente nazionale di Anief, Marcello Pacifico, affronta invece il problema della denatalità. Se è vero che questo è un fenomeno oggettivo, difficilmente contestabile, numeri alla mano, è anche vero che il governo non ha provato a fronteggiarlo in alcun modo. La denatalità, secondo Pacifico, poteva infatti essere l’occasione per ridurre il numero di alunni per classe e aumentare l’organico docente e Ata, reintegrando l’organico aggiuntivo del periodo Covid. Questi provvedimenti avrebbero beneficiato ugualmente dei fondi del PNRR, ma il governo Meloni ha preferito procedere nella direzione opposta. Scelta che non stupisce, considerato che questo esecutivo di Destra ha deciso di investire di più in armi di distruzione che sull’istruzione e la formazione. Al contrario, Nelson Mandela affermava che: “L’istruzione è l’arma più potente che si può usare, per cambiare il mondo”. Pertanto, è compito di una Sinistra progressista, degna di questo nome, riportare al centro dell’agenda politica la scuola, l’Università e la ricerca, al fine di realizzare il pieno sviluppo della persona umana. Infatti, l’art. 9 della Costituzione afferma che: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. A differenza dello Stato fascista, che aveva imposto una “cultura di regime”, la Repubblica non controlla, ma promuove, ossia favorisce anche finanziariamente lo sviluppo della cultura e della ricerca. Ancora una volta, la via maestra è la nostra Costituzione: la sua completa attuazione deve essere l’obiettivo principale, per salvaguardare l’assetto democratico e repubblicano del nostro Paese.

L'autore

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Marilena Mauro

Vive e lavora a Bologna, come docente di scuola primaria.