Arcipelago delle Lofoten, Norvegia settentrionale: circa 200 km a nord del Circolo polare artico. Isole e isolette, anche piccolissime, quasi tutte collegate tra loro da ponti e ponticelli. Il bellissimo paesaggio, assai meno glaciale di quel che ci si aspetterebbe (c’è la corrente del Golfo, d’estate si va addirittura in spiaggia, anche se solo i bambini osano sguazzare un po’ in quello che è pur sempre il Mare del Nord) è costellato da cittadine e villaggi di casette coloratissime. Una volta ci abitavano i pescatori, adesso per lo più sono residence per turisti. Uno di questi ex villaggi, tutto di casette rosse e bianche, si trova sul minuscolo isolotto di Hamnǿy. Quando non ci sono turisti, è disabitato. Quando ci sono turisti, in una delle casette apre un ristorante. Si chiama Gadus, nome scientifico del merluzzo, simbolo e ragion d’essere delle Lofoten, che prima del turismo vivevano di quello (e anche oggi, un po’, sempre di meno). Ma la cosa più interessante (a parte che ci si mangia bene) è che al nome ufficiale segue, sul menu, una sorta di autodefinizione del locale: “Trattoria artica”. Esattamente così, in italiano.
Naturalmente non ci sarebbe nulla di strano, e nulla di interessante, se fosse semplicemente un ristorante italiano. La Norvegia, come tutto il mondo, ne è piena, e in un luogo così turistico si trova di tutto: nell’isoletta vicina c’è un ristorante messicano. Il punto è che il locale non vuole affatto essere un ristorante italiano in Norvegia: vuole proprio essere quello che dice di sé, una trattoria artica. Vuole seguire il modello informale, familiare, certamente anche stereotipato, della trattoria italiana, e ne ha il tipico arredamento e, per quanto possibile, anche l’atmosfera. Ma non vuole essere un ristorante italiano identico a tutti i ristoranti italiani dovunque nel mondo. Vuole essere artico. È consapevole del luogo, della sua cultura, dei cibi che vi si producono. Quindi il menu (trilingue: italiano, norvegese, inglese) è tanto italiano quanto artico. Propone mescolanze, non trapianti, non mere importazioni di cibi esotici. Tanto per dare un’idea: uno dei piatti più buoni sono gli arancini allo stoccafisso. Tutti sappiamo che gli arancini (o arancine: si usano tanto il maschile quanto il femminile, senza regole precise) sono tipicamente siciliani. In Sicilia ne esistono ormai varie versioni, alcune delle quali abbastanza innovative e anche scandalose agli occhi dei puristi. Ma non ho mai trovato, in Sicilia, gli arancini allo stoccafisso. Potrebbero esserci benissimo, ma pare di no. Credo, ma posso sbagliarmi, che in Sicilia non ci abbia ancora pensato nessuno. In una trattoria artica, in un posto dove il merluzzo (letteralmente) si respira nell’aria, la cosa evidentemente è venuta in mente, e funziona.
Naturalmente non voglio far pubblicità al locale (anche se lo merita). Voglio riflettere su un incontro. Non so se i proprietari siano siciliani, o norvegesi innamorati della Sicilia, o magari una famiglia mista: comunque due tradizioni diverse si accostano e si fondono, dando vita a una terza cosa, che prende da entrambe senza riprodurne nessuna.
Non è l’unica volta né la prima: in realtà quest’incontro e questa fusione risalgono nel tempo e fanno parte a pieno titolo dell’atmosfera del luogo.
In un’altra isola un po’ più grande c’è un paesino, ormai anch’esso solo per turisti, che si chiama Å, e si vanta di avere il nome più breve al mondo (primato in realtà condiviso da diversi altri luoghi nella stessa Norvegia e anche altrove). In questo luogo debitamente pittoresco (anche stavolta le casette sono rosse; altrove sono gialle) c’è un Museo dello Stoccafisso: Tǿrrfiskmuseum. Ma sui cartelli turistici il nome è anche in italiano, e in nessun’altra lingua. La ragione di questa particolare intimità italo-norvegese così strettamente legata al merluzzo e ai suoi derivati è svelata da uno dei pochi monumenti presenti in un luogo che di monumentale ha solo il paesaggio. Nell’isola di Sandǿy, un cippo ricorda Pietro Querini, a cui è dedicato anche un parco. Pietro Querini, patrizio veneziano, Senatore della Serenissima, ricco mercante e avventuroso navigatore, a metà del Quattrocento fece naufragio nelle Lofoten e, soccorso e accolto amichevolmente dalla gente del posto, vi scoprì la pesca del merluzzo (pesce ignoto nel Mediterraneo) e le tecniche per la sua conservazione, la salatura (baccalà) e l’essiccazione all’aria aperta (stoccafisso). Ne fece relazione al Senato, suscitando grandissimo interesse. Baccalà e stoccafisso (termini non di rado usati come sinonimi, anche se erroneamente) risolvevano brillantemente il problema del rifornimento della flotta con cibi a lunga conservazione e potevano essere lecitamente consumati nei giorni di magro. Ne nacque un intensissimo commercio che si estese ad altre marinerie del Mediterraneo, tra cui quella messinese. Insomma, gli arancini allo stoccafisso di Hamnǿy sono legittimi eredi di piatti “tipicamente italiani” come il baccalà alla vicentina o il pesce stocco alla messinese. La fusione gastronomica mediterraneo-artica esiste da secoli, e in Italia molti ristoranti assolutamente tradizionali avrebbero titolo per autodefinirsi anch’essi “trattorie artiche”, perché senza cibi di provenienza artica dovrebbero decurtare i loro menu, rinunciando magari alle loro principali specialità.
Se poi ci venisse una smania di purismo identitario e decidessimo che in Italia si deve mangiare solo cibo italiano e nulla che non appartenga alla nostra sana tradizione (c’è chi lo dice, in effetti, non senza ampio consenso), allora non dovremmo rifiutare con sdegno solo gli arancini allo stoccafisso. Dovremmo rifiutare gli arancini come tali, perché li hanno inventati gli Arabi. E la cassata, per lo stesso motivo. E la cotoletta alla milanese, perché è viennese. E la pizza napoletana, perché la pizza è greca (pita) e i pomodori vengono dal Sudamerica. E il gateau di patate, perché è roba franco-sudamericana. E il caffè, perché viene tutto da posti poco igienici del Terzo Mondo. E la pasta di qualsiasi tipo, invenzione pure questa degli Arabi di Sicilia, importata per la prima volta ad Aquileia nell’anno Mille (peraltro con precedenti greci e persiani). Insomma, non so cosa ci resterebbe. Forse farro e castagne.
2. Funziona allo stesso modo per la lingua. La nostra è una creazione letteraria abbastanza artificiale anche se di grande pregio (il volgare di Dante non lo parlava nessuno, neanche lui) partendo dal fiorentino e inserendovi apporti di altra provenienza, soprattutto siciliani, con molti neologismi e termini dotti di origine latina e persino greca, non senza errori perché Dante non sapeva il greco (cfr. l’inesistente plurale “entomata” in Purgatorio, X, 128). Da un’espansione del fiorentino letterario nasce l’italiano letterario (cioè l’unico italiano esistente: l’italiano lo scrivevano tutti, le persone colte beninteso, ma non lo parlava nessuno, fino all’italiano televisivo, che per la prima volta diventa una lingua realmente parlata, sempre con inflessioni e lessico molto specifici, perché oltre all’italiano letterario esistono praticamente soltanto i diversi italiani regionali). E questa lingua, oltre ad essere un frullato di mille dialetti, è comunque un miscuglio di decine di lingue diverse. Su una base ovviamente latina, apporti germanici (“guerra” è una parola longobarda), francesi (“camion”, “garage”…), spagnoli (“brio”, “sussiego”…), inglesi, innumerevoli nell’italiano contemporaneo (“sport”, “film”, peraltro non usato in inglese nel nostro senso, “computer”…), arabi (“cifra”, “zero”, “alcol”), persino scandinavi (“fiordo”), persino finlandesi (“sauna”). Insomma, se volessimo espellere dalla nostra lingua tutto ciò che non è “tipicamente italiano”, ci resterebbe un latino storpiato, e forse neanche quello.
Vale, s’intende, per tutte le lingue del mondo. Il tedesco è una fusione di diversi dialetti germanici con una solida componente di latino umanistico, l’inglese è una fusione di lingue germaniche e celtiche con un significativo apporto franco-normanno, lo spagnolo è una mescolanza di latino, arabo e visigoto, eccetera. Tutte le lingue sono bastarde, dovunque nel mondo si trovano equivalenti linguistici di cose come la “trattoria artica”.
Lo stesso per le religioni. Il sincretismo è l’unica modalità di esistenza delle religioni, in ogni parte del mondo e in ogni tempo. L’ebraismo, forse (le origini sono nebulose e meramente ipotetiche), mescola religioni mesopotamiche e cananee con apporti egizi colti. Il cristianesimo nasce dall’incontro dell’ebraismo col ricco panorama religioso dell’ellenismo tardo, con qualche apporto persiano. L’Islam è, sa di essere e a differenza di altre religioni lo dichiara, uno sviluppo di ebraismo e cristianesimo con residui importanti dell’antico politeismo arabo (il rito del pellegrinaggio è interamente di origine “pagana”). Per quel che riguarda le religioni orientali, poi, è assolutamente normale la pratica di più religioni contemporaneamente: non c’è giapponese che non sia (blandamente) scintoista, buddista e confuciano allo stesso tempo, senza che ciò gli susciti alcun problema e gli appaia minimamente contraddittorio.
Lo stesso per il “sangue”, se proprio vogliamo usare questo termine abbastanza truculento. L’ideologia della “purezza di sangue” è una delle peggiori oscenità della storia umana oltre che una sistematica e pervicace negazione dell’evidenza. Cos’è un siciliano, ad esempio? Un greco-punico superficialmente latinizzato, intensamente arabizzato, con limitati ma significativi apporti normanni (scandinavi, cioè) e germanici, appena una spruzzatina di DNA francese, infine una solida e duratura componente ispanica. Un toscano è un etrusco latinizzato con apporti germanici molto importanti. Un lombardo è un celta latinizzato e germanizzato con una spruzzatina ispanica. E si potrebbe continuare a lungo ed estendere il discorso a tutti i popoli del mondo, compresa naturalmente l’eletta “razza” germanica, che è un bel po’ latina e un bel po’ slava e mille altre cose ancora. E chi, in particolare, cercasse la purezza del “sangue italiano” non troverebbe assolutamente nulla di puro, neanche la romanità, che nasce come fusione di una marmaglia di fuoriusciti e briganti di varia provenienza con sabini ed etruschi e si sviluppa senza limiti e confini accogliendo e fondendo assolutamente tutto senza eccezione alcuna. Essere razzisti in Italia è davvero un’impresa disperata. Sarebbe più realistico essere terrapiattisti.
3. In un suo scritto del 1936, un antropologo all’epoca abbastanza noto, Ralph Linton, propone un’intelligente e divertente descrizione del risveglio mattutino dell’americano medio. Ne presento una versione molto sintetizzata.
Dunque, l’americano medio si sveglia in un letto, mobile inventato in Medio Oriente e perfezionato in Nord Europa. Indossa un pigiama, versione europeizzata di un indumento indiano. Alzandosi, calza un paio di mocassini, un tipo di scarpa inventato molti secoli fa dai pellirosse. Fa colazione usando cucchiaio (una variante di un originale romano), coltello (fabbricato in acciaio, lega inventata nell’India del Sud) e forchetta (strumento inventato in Italia nel Medio Evo)… Infine, legge il giornale, stampato in caratteri alfabetici di antica origine fenicia su carta, materiale inventato dai Cinesi e perfezionato dagli Arabi, secondo una tecnica elaborata in Germania. E, di fronte alle notizie terribili che giungono dall’Europa, utilizzando una lingua indoeuropea ringrazia una divinità ebraica di averlo fatto nascere al cento per cento americano.
Da questo divertente brano si possono ricavare tre insegnamenti molto seri. Il primo è quello più appariscente ed ovvio: non esistono identità pure. Non esistono unicità storiche assolute. Non esistono confini culturali invalicabili. Qualunque cultura, dovunque e sempre, è una mescolanza inestricabile di tratti delle più disparate provenienze, è una continua riplasmazione di elementi preesistenti, spesso da secoli o millenni, non di rado nati a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Questo processo è inarrestabile. Possiamo tenere quanto ci pare alla purezza della nostra lingua, ma essa trae comunque i suoi elementi da altre lingue più antiche e non potremo evitare a lungo neologismi e prestiti linguistici di provenienze anche molto esotiche. Potremo rivendicare a oltranza l’autenticità dei nostri costumi e la costanza delle nostre tradizioni, ma, ci piaccia o no, i costumi cambiano e le tradizioni pure, magari mantenendo l’illusione della loro inalterabilità. Questo primo insegnamento lo potremo sintetizzare nella proposizione: ogni cultura è, dovunque e sempre, sintesi mobile di altre culture, cultura è già automaticamente multiculturalità.
Saremmo però molto miopi, e forse anche ipocriti, se sottovalutassimo l’orgoglio del nostro americano medio di essere, appunto, americano al cento per cento. È un’illusione un po’ comica, ma non è soltanto un’illusione. Nel percepire una siderale distanza tra sé e le cose tremende che accadono in Europa, il nostro americano, per sua fortuna e per sfortuna (e colpa) degli europei del tempo, non si inganna affatto: tanto che qualche anno dopo lui stesso con tanti altri come lui verrà a riportarci a furia di bombardamenti sulla via della ragione (cosa di cui non gli saremo mai grati abbastanza). La percezione di una differenza storica non è sempre e solo illusoria. E sebbene tutte le tradizioni siano, secondo un’espressione di Hobsbawm ormai entrata nell’uso, inventate, questo non impedisce che esistano davvero. L’invenzione della tradizione è precisamente il modo in cui storicamente nascono delle identità distinte: tutte le nazioni, tutte le religioni, tutte le ideologie hanno origine nel momento in cui qualcuno (un numero sufficiente di persone), dimenticando, fraintendendo, riplasmando un’immensa eredità di cose passate, comincia a sentirsi americano (o svizzero, o portoghese, o calvinista, o comunista, o liberale, ecc.) al cento per cento. Secondo possibile insegnamento: non esiste la multiculturalità generica, l’indistinzione, il miscuglio indifferenziato. L’identità è costruzione storica artificiale, ma non mera finzione. Per incontrarsi con gli altri, convivere, dialogare, bisogna avere un’idea sufficientemente precisa di chi si è, e un sufficiente orgoglio per il fatto di esserlo.
Infine, non lasciamoci fuorviare dall’evidente paradossalità di un americano al cento per cento che rende grazie a un dio ebraico. La lunga durata temporale e la capacità di passare da una popolazione all’altra sono caratteristiche salienti delle religioni e cospicui vantaggi delle identità religiose rispetto alle altre identità collettive. Un’identità etnica non può estendersi troppo senza indebolirsi: se tutti diventano romani, per fare un esempio storico, questo vuol dire che nessuno lo è più sino in fondo, che la cosa smette di essere significativa. Mentre se centinaia di popoli e milioni di persone diventano, per esempio, cristiani (o islamici, o buddisti…) questo è un enorme successo in cui si sostanzia l’importanza storica di una religione. Naturalmente, però, quest’estensione geografica e interetnica è assolutamente incompatibile con qualsiasi idea di fissità. Qui abbiamo un aspetto importante del pluralismo religioso che mi sembra sottovalutato. Non c’è solo il pluralismo esterno, la coesistenza più o meno pacifica o più o meno conflittuale di religioni diverse. C’è anche quello che potremmo chiamare il pluralismo interno: il fatto cioè che tutte le religioni cambiano nel tempo (anche quando mantengono una continuità identitaria) e si differenziano nel proprio estendersi. Essere ebreo duemila anni prima di Cristo è cosa molto diversa dall’esserlo duemila anni dopo Cristo, sebbene in questo caso si abbia a che fare con una delle identità religiose più durature della storia universale. Essere un buddista tibetano è cosa molto diversa che essere un buddista giapponese, sebbene i testi fondativi riconosciuti siano gli stessi e vengano professate le stesse dottrine caratterizzanti. Essere un calvinista o un cattolico, per dire una cosa ovvia, sono due modi molto diversi di essere cristiani, tanto che per questa differenza è corso sangue fino a tempi storicamente non così remoti. C’è un pluralismo religioso interno diacronico, potremmo dire (cioè, la stessa religione è diversa nelle sue diverse epoche) e un pluralismo religioso interno sincronico (cioè, la stessa religione nella stessa epoca presenta più forme differenti, in conflitto tra loro o anche no). Ma non c’è solo l’alternativa tra l’essere cattolici o l’essere calvinisti, per fare un esempio relativo al cristianesimo: c’è anche l’alternativa tra l’essere cattolici nel senso di San Francesco e l’essere cattolici nel senso di Torquemada (migliaia di esempi analoghi sono possibili in riferimento a tutte le religioni, ovviamente). Tutto questo si potrebbe sintetizzare in un terzo insegnamento: nessuna identità religiosa può essere semplicemente ricevuta dalla tradizione, perché ogni tradizione ne presenta una vasta ed eterogenea molteplicità. Ogni identità religiosa, consapevolmente o meno, nasce da una scelta, in parte individuale, in parte collettiva, in parte libera, in parte costrittiva, tra svariate possibilità, nate dalla stessa radice, ed è destinata a subire sempre nuovi mutamenti nella storia dei singoli e delle collettività.
Per sintetizzare quanto finora detto: non possiamo parlare di convivenza, pace, dialogo tra popoli o tra comunità religiose ipotizzando una vaga pappa multiculturale in cui nessuno sa chi è e nessuno tiene a sé stesso (e in cui quindi ogni cosa può stare al posto di qualsiasi altra e nessuna al fondo significa niente). Le identità sono tanto più necessarie quanto più sono costitutivamente arbitrarie, artificiali, multiformi e fragili. Nessun dialogo può iniziare se non dall’affermazione di sé, sperabilmente accompagnata da simpatetica curiosità per ciò che l’altro affermerà di essere. Chi è nessuno non può dialogare con nessuno, chi non ha una voce propria non ha niente da dire a un altro. Il dialogo dunque comprende necessariamente un margine ampio d’irriducibilità reciproca e di conflitto. Sarebbe un’ingenuità “buonista” non vedere che il dialogo, se è serio, non è assenza di conflitto, ma conflitto regolato e controllato mediante il riferimento a un quadro normativo comune (etico o giuridico che sia), e temperato soprattutto dal rifiuto preliminare di ridurre o assoggettare l’altro a sé con la violenza. Entro questo quadro, però, il dialogo è anche polemico, altrimenti è solo chiacchiera. E ciò che soprattutto si ricaverà da un dialogo contemporaneamente rispettoso dell’altro e polemico (due cose tutt’altro che in contraddizione, anzi), non sarà (salvo casi particolari) la confutazione dell’altro o la sua conversione, ma l’acquisizione di una maggior libertà critica verso sé stessi, la capacità di scegliersi e di progettarsi nel futuro, assumendosi la responsabilità di quel che si è, e quindi anche la responsabilità di cambiarsi.
4. Il cibo ha un ruolo importante in questo rapporto tra identità mutevoli in continua comunicazione. Il modo migliore di stare insieme è avere bisogno gli uni degli altri, non essere autosufficienti. L’essenza delle cure parentali è dare cibo: non solo cibo, s’intende, ma cibo anzitutto. Nella preistoria più antica, i cacciatori, sempre uomini, scambiano cibo con i raccoglitori o meglio le raccoglitrici, perché di solito sono donne. Successivamente, dopo la rivoluzione neolitica, gli allevatori danno carne agli agricoltori che danno grano. Se popoli diversi si incontrano, il dono reciproco di cibo e il consumarlo insieme saranno il modo migliore per cementare l’incontro e impedire che si trasformi in guerra (o per porre fine alla guerra, eventualmente). Se non abbiamo niente da scambiare l’incontro diviene gratuito e insignificante; non ne nasce niente in comune. Se rifiutiamo di scambiare stiamo negando l’esistenza dell’altro: nulla c’è di più ingiurioso e ostile. E non si scambia solo il cibo nella sua materialità: si scambia anche la sua simbolica, le sue tecniche di preparazione, la sua estetica. Lo scambio di oggetti e beni è sempre scambio di valori culturali, interculturalità quindi. Comunicazione e mescolanza di identità, che non è perdita di identità, ma rafforzamento e incremento.
Come non esistono identità pure, incorrotte e inalterabili (se ci fossero sarebbero qualcosa di morto, ma comunque proprio non ci sono), allo stesso modo e con la stessa evidenza non esistono mescolanze in sé, mescolanze che non siano altro che mescolanze, che non siano mescolanze di qualcosa. Non c’è una contrapposizione statica di identità e comunicazione. L’identità è il frutto mutevole di scambi determinati e specifici, quelli che proprio noi abbiamo fatto con altri altrettanto determinati e specifici, precisamente in un certo tempo e in un certo modo, scambi diversi da quelli che altri hanno fatto con altri in altro tempo e altro modo. Il nostro modo di essere misti e bastardi è diverso dal modo in cui sono misti e bastardi gli spagnoli o chiunque altro. Non smettiamo di essere davvero noi stessi per il fatto che il nostro noi si interseca con mille altri noi di cui magari neppure siamo consapevoli. Il nostro specifico modo di essere impuri è la nostra “purezza”. Come la lingua italiana esiste pur essendo un miscuglio di latino lingue germaniche lingue celtiche arabo greco e ancora e ancora, anche la cucina italiana esiste ed è precisamente e specificamente la cucina italiana pur essendo un miscuglio di nord, sud, est, ovest; bacino del Mediterraneo e Sudamerica, mare e montagna, pianure aride e valli glaciali, mondo arabo e territori artici.
Quel che possiamo percepire in una trattoria artica, se andiamo oltre la mera e futile sorpresa e se resistiamo alla facile tentazione di scandalizzarci in nome del purismo identitario, è che siamo a casa nostra anche quando siamo a casa d’altri. Per il buon motivo che noi e gli altri eravamo insieme già da prima, e senza gli altri noi non saremmo noi, quel noi “autentico” che siamo.