Una scuola “senza futuro”?
C’è molto da dire, e ci sarà da dire a lungo, sulle Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025 redatte dalla cosiddetta Commissione Perla: un documento che non va sottovalutato, nei suoi pregi, che in qualche caso ci sono, e nei suoi limiti, difetti, errori e, aggiungerei, menzogne. Bisogna prima di tutto evitare semplificazioni e banalizzazioni ideologiche. Non è un documento “fascista”, un attentato ai valori costituzionali o allo spirito democratico. I riconoscimenti di rito alla Costituzione, alla democrazia, ai valori civili ci sono tutti, e non manca neppure qualche tributo alla Resistenza. Semmai si potrebbe osservare che sono un po’ troppo di rito, che non si distaccano da una retorica routinaria, ma almeno ci sono e non si potrebbe non sottoscriverli. Non abbiamo a che fare con un documento eversivo o con un brutale attacco al sistema educativo di stampo trumpiano. Siamo, tutto sommato, ancora nei limiti della decenza istituzionale. I problemi sono altri. Sono indubbiamente numerosi e chi ha competenze diverse dalle mie ne vedrà sicuramente molti che io non sono in grado di mettere a fuoco. I problemi che vedo io si possono assommare in una formula che enuncio subito, riservandomi poi di chiarirla in maniera più analitica: non si tratta di un documento fascista, e neppure di un documento antidemocratico, ma si tratta ugualmente di un documento, nel complesso, reazionario. Nel senso che auspica una sorta di arresto del cambiamento, un’inversione di rotta riguardo a molti aspetti della società e della cultura di oggi, forse mirando non tanto a un comunque impossibile ritorno al passato, ma piuttosto al rifiuto di alcune linee di possibile futuro che nell’oggi si vanno affermando. Il rischio non è tanto quello dell’imposizione autoritaria e delle limitazioni di libertà, quanto quello dell’inefficacia, del girare a vuoto, della perdita di tempo riguardo a evidenti esigenze del presente che saranno, lo si voglia o no, realtà del futuro.
Restando nei limiti delle mie competenze e dei miei interessi culturali, mi limiterò a tre punti soltanto, il primo obiettivamente secondario anche se tutt’altro che irrilevante, gli altri invece decisivi e politicamente assai rivelatori.
Il latino: perché e per chi?
Il primo punto riguarda l’insegnamento del latino nella scuola secondaria di primo grado. Dico subito che non sono contrario in linea di principio. È una bellissima lingua, avere accesso a una dimensione di bellezza è sicuramente un vantaggio anche se non dovesse comportare una particolare utilità pratica. Però vorrei sapere non tanto come si studierà il latino – non lo si potrà evidentemente imparare davvero, a quel livello di studi – ma perché lo si studierà, e soprattutto al posto di cosa. La mia sensazione è che lo studio del latino non serva tanto a comprendere e conoscere una dimensione culturale di ovvia importanza, ma a cancellarne un’altra, di importanza almeno uguale.
Il documento non è ingenuo. Vede bene gli aspetti anacronistici della proposta e cerca di darne una giustificazione articolata e almeno in parte sensata: “l’insegnamento del mondo antico ha bisogno di essere giustificato e non è più considerato come un valore di per sé. Occorre perciò agire sulla motivazione, suscitando interesse e passione per la lingua e la cultura latina, facendo comprendere che esse permettono a tutti gli studenti senza alcuna distinzione di intendere meglio la cultura contemporanea e di accedere a mondi di grande fascino. Le discipline classiche potranno mostrare la loro utilità contribuendo alla qualità linguistica dell’espressione degli studenti, ma anche alla migliore comprensione di concetti e idee che fanno ormai parte dell’immaginario europeo e, più latamente, globale”.
Direi che anzitutto viene riconosciuto un punto debole: si tratta di suscitare interesse e passione per qualcosa che di suo non è più in grado di suscitare interesse e passione, dando quasi per scontato che il punto di partenza sarà insegnare una disciplina di cui agli studenti non importa nulla, trovando alquanto volontaristicamente il modo di motivarli. A quale scopo? Non escludo per niente che ci possa essere uno scopo valido: non mi pare che lo sia quello proposto. La lingua e cultura latina, si dice, “permettono a tutti gli studenti senza alcuna distinzione di intendere meglio la cultura contemporanea e di accedere a mondi di grande fascino”. La seconda cosa, l’accesso a mondi fascinosi, è potenzialmente vera, si tratta di riuscirci. La prima cosa, intendere meglio la cultura contemporanea, è invece falsa, o almeno tanto astratta e generica da essere priva di significato. Cos’è la “cultura contemporanea”? Di chi è e dove è la “cultura contemporanea”? C’è una “cultura contemporanea” di tutti e dovunque che possa essere intesa meglio grazie al latino? I cinesi o gli arabi, ma anche gli americani o i russi, dovrebbero sapere il latino per avere adeguato accesso alla “cultura contemporanea”?
È evidente che un discorso del genere ha un presupposto tacito: che il latino sia una sorta di marchio di fabbrica che segnala un’appartenenza ritenuta imprescindibile. Dobbiamo sapere il latino (o fingere di saperlo) per essere quello che dobbiamo essere. Italiani, europei, cristiani. Tutto il documento, almeno nella sua parte umanistica, ruota su questo cardine. Ma allora l’espressione chiave è appunto “senza alcuna distinzione”. Che significa qualcosa di molto diverso da ciò che sembra significare. Sembra significare: indipendentemente dalle condizioni sociali di partenza e dal percorso di studio che successivamente verrà scelto. Sarebbe un ricorso al principio di uguaglianza. Ma significa invece, con ogni possibile evidenza: indipendentemente dalla cultura di provenienza. La scuola è un meccanismo per produrre italiani, europei, cristiani. Dunque studierai il latino: anche se sei arabo o ghanese o qualsiasi altra cosa. Non puoi dire che a te non importa perché hai un’altra storia alle spalle con cui il latino non c’entra: non conta chi sei, ma chi devi essere. Senza alcuna distinzione. Non è più il principio di uguaglianza. È un principio di esclusione. Lo studio del latino copre e nasconde il disconoscimento della multiculturalità.
Eppure, una soluzione diversa potrebbe essere suggerita, di sicuro involontariamente, dalla frase che segue: “Le discipline classiche potranno mostrare la loro utilità contribuendo alla qualità linguistica dell’espressione degli studenti, ma anche alla migliore comprensione di concetti e idee che fanno ormai parte dell’immaginario europeo e, più latamente, globale”. “Discipline classiche” e “latino” non sono la stessa cosa e le discipline classiche non sono soltanto discipline linguistiche. Una soluzione adeguata potrebbe derivare appunto da una riflessione sulla classicità. Ogni cultura, in realtà, ha una propria, e diversa, “classicità”. Cioè un passato in qualche modo esemplare, collegato a una storia in parte reale e in parte mitizzata (il che non è un limite), caratterizzato da espressioni linguistiche, letterarie, artistiche, religiose particolarmente rilevanti, da cui un popolo (più o meno qualsiasi popolo) ritiene di trarre origine, fondamento e legittimazione. C’è una classicità greca e latina che, con qualche abuso e non poche illusioni, possiamo sentire ancora nostra ed ha comunque un enorme valore in sé. Ma c’è anche una classicità araba, senza dubbio (tra l’altro, molto intrecciata con quella greca), c’è una classicità cinese, ci sono persino, nonostante la nostra totale ignoranza in proposito, classicità africane, e così via.
Allora, il punto è proprio che bisogna fare distinzioni. Non siamo, e non è necessario che diventiamo, tutti uguali, purché ci sia un uguale diritto di essere diversi, e un punto d’incontro tra le diversità, che comprensibilmente tenderà ad essere più vicino all’identità maggioritaria, ma non può in tutto e per tutto identificarsi con essa. È indispensabile, nell’incontro, che ognuno sappia, e sappia dire, da dove viene e cosa lo rende quello che è. Con ciò non intendo dire che accanto al latino bisogni insegnare l’arabo coranico o il cinese mandarino. Sarebbe bellissimo ma è evidentemente impossibile. Però, bisogna pure che si sappia che il latino rappresenta (senza esaurirla) la classicità italiana ed europea, ma esistono altre classicità, che non si potranno conoscere a fondo e probabilmente neanche superficialmente, ma di cui bisogna sapere che esistono, meritano rispetto e sono modelli di civiltà di importanza e solidità non minori. A questo punto si potrebbe persino provare a insegnare il latino agli arabi, purché gli altri sappiano, almeno un po’, che gli arabi ci sono e chi sono.
Ma qui si vede bene qual è il problema fondamentale: la storia e il suo insegnamento.
Il trionfo dell’Occidente.
Sulla storia, il documento parte da un’affermazione apodittica e perentoria, che suona quasi come uno squillo di tromba: “Solo l’Occidente conosce la Storia”. E prova subito ad argomentare, o meglio finge di farlo: “Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra”. Con ciò si dà per scontato che avere una storia e scrivere di storia siano la stessa cosa, e così non è. Viene qui rinnegato, senza fornirne alcuna ragione, un concetto che nella storiografia contemporanea ha piena cittadinanza, il concetto di storia orale. In tutto il mondo, compreso il mondo occidentale, compresi soprattutto gli Stati Uniti, esistono decine se non centinaia di istituti universitari specializzati, che non si occupano necessariamente dei cosiddetti popoli senza scrittura (a cui non c’è antropologo contemporaneo che non riconosca comunque una storia), ma precisamente delle fonti orali della nostra storia (ovviamente di quella recente), e non solo come materiale da trascrivere e su cui poi debitamente scrivere di storia, ma come documento storico alternativo alla scrittura che fornisce informazioni irreperibili o insufficienti nei documenti scritti.
C’è qualcosa di ancor più grave, però. In questo modo si reintroduce una distinzione discriminante e gerarchizzante abbandonata da generazioni e oggi unanimemente considerata non scientifica dagli specialisti: quella tra “popoli storici” e “popoli senza storia”, o come si diceva nell’Ottocento (e non oltre il primo Novecento) Kulturvölker e Naturvölker, “civili” appunto i primi, “primitivi” se non addirittura “selvaggi” i secondi. Con l’aggravante che a questo punto selvaggi o almeno poco civili sarebbero assolutamente tutti i popoli non occidentali, antichi e moderni. Si vorrebbe poter attribuire una simile enormità a crassa ignoranza, ma si tratta di molto peggio. È un atto consapevole di negazione dell’evidenza per ragioni di pura ideologia.
Concediamo che sia vero (e non lo è) che per avere una storia occorra scrivere di storia: solo l’Occidente scrive di storia? Decisamente no. La storiografia araba, ad esempio, è immensa, comprende migliaia di testi, risalendo con certezza sino all’epoca omayyade (VII-VIII sec.). La metodologia della ricostruzione storica nel mondo islamico ha motivazioni religiose fortissime, perché le gesta e l’insegnamento del Profeta e dei suoi successori hanno valore esemplare in quanto se ne accerti la verità storica. Affermare del Profeta qualcosa che non sia documentato sarebbe bestemmia. Su queste basi, l’interesse per l’accertamento storico diviene un tratto culturale caratterizzante. Tutti i generi storici sono ampiamente praticati, dalla storia universale alla biografia, e troverei assai arduo trovare, in Occidente, uno storico medievale paragonabile a Ibn Khaldun.
Certo, si potrebbe dire, e io sarei totalmente d’accordo, che la civiltà islamica rientra a pieno titolo nel concetto di Occidente, ma questo non lo si dice, e se poi si vanno a vedere gli argomenti previsti nei diversi cicli di studio l’Islam lo si trova solo sotto forma di “espansione islamica”, quindi come qualcosa che da fuori invade l’Occidente e non come qualcosa che vi appartiene a pieno titolo sin dalle sue origini, come è verità di fatto.
Ma ammettiamo pure, e il documento non dice questo, che l’Islam rientri nel concetto di Occidente e non smentisca quindi la tesi che solo l’Occidente conosce la storia. Davvero le civiltà non occidentali, si sono limitate a vaghe compilazioni annalistiche? Uno dei classici riconosciuti dalla scuola confuciana (a proposito di classicità…) è appunto un testo storico, Primavere e autunni, attribuito allo stesso Confucio, quindi autorevolissimo, che è pressocché contemporaneo a Erodoto e, pur essendo assai più stringato, presenta un’accuratezza decisamente maggiore riguardo alla cronologia. Come tutti i classici confuciani, è uno dei fondamenti della cultura cinese. Cultura in cui del resto alla storiografia è attribuito un ruolo peculiare che la rende del tutto indispensabile. Nella Cina antica la storia svolge quasi la funzione del diritto: registra esempi normativi, in positivo o in negativo, riguardo a ciò che governanti e sudditi debbono fare o non fare in determinate circostanze, donde l’esigenza del rigore e della completezza della documentazione. L’opera più importante della storiografia cinese medievale, lo Zizhi Tongjian, fu redatto per incarico imperiale da una commissione di studiosi tra il 1065 e il 1084, comprende 294 volumi e fornisce dati biografici di circa tre milioni di personaggi. Mi si indichi un testo paragonabile nella storiografia occidentale. Sul modello cinese, anche la cultura giapponese e quella coreana hanno sviluppato un interesse storiografico precoce, meno legato a esigenze istituzionali e con una forte presenza nella cultura popolare.
Ciò detto, le culture non sono tutte uguali ed esistono grandi civiltà poco interessate a scrivere di storia, segnatamente quella indiana. Mancano qui davvero, fino a tempi recenti, testi storiografici veri e propri, anche se la vastissima e antichissima letteratura epica, narrativa e teatrale ha spesso per oggetto eventi storici, di cui rappresenta a volte l’unica registrazione. Troverei comunque arduo sostenere che, avendo poca storiografia, l’India non abbia una storia. Cambia la natura dei documenti, non certo la profondità cronologica e la ricchezza dei contenuti.
In altri casi, l’“assenza” di storia potrebbe avere cause piuttosto inquietanti e non innocenti. Sappiamo che esistevano intere biblioteche azteche e maya. Cosa contenessero non lo sappiamo, perché gli spagnoli hanno distrutto tutto sistematicamente: migliaia di testi di cui non sapremo più niente (tuttavia, grazie ad acquisizioni archeologiche recenti, siamo ora in grado di leggere migliaia di testi epigrafici maya, da cui emergono date, nomi, registrazioni di eventi: possiamo ora tracciare a grandi linee una storia dei Maya, che evidentemente dunque una storia l’avrebbero anche avuta).
Tenendo conto di questo e di altri casi simili, la tesi che solo l’Occidente ha una storia acquista tutto un altro sapore, decisamente cattivo. Non senza evidente compiacimento, si afferma infatti che attraverso la “disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine” prodotti dalla storia, “la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo”. Si sfiora dunque la rivendicazione orgogliosa del colonialismo, senza dire che esso ha comportato la distruzione della storia altrui, sia in quanto corso di eventi autonomamente gestito, sia in quanto memoria storica. Certo, se distruggiamo la storia degli altri, poi diventa vero che la storia ce l’abbiamo solo noi, ma non parrebbe tanto il caso di gloriarsene. Per fortuna, a distruggere la storia altrui non ci siamo sempre riusciti. E meno male, dunque, che siamo ancora in grado di percepire che l’esclusivismo storico dell’Occidente è, di fatto, una falsità.
Sul monopolio occidentale della verità (ovvero, la filosofia di Stato)
Ma se il documento sostiene senza pudore una falsità, è perché vuole collocarsi su un orizzonte superiore alla banalità dei fatti, del tutto ideale, spirituale, filosofico. Se solo l’Occidente ha una storia, è perché solo l’Occidente ha una filosofia vera. È questa la tesi, implicita ma non troppo. L’Occidente ha storia perché pensa la storia, e la pensa secondo verità, una verità che è conquista progressiva e si identifica in sostanza con la storia stessa. Prima i greci, poi i romani, poi il cristianesimo. Attraverso questa successione, lineare, ascendente e non contraddittoria, “si affermò […] l’idea di una storia dal tempo lineare, fatta interamente dagli uomini (cioè con l’ovvia esclusione di qualunque intervento esterno di natura magica da parte di individui o cose dotati di poteri straordinari) e avente un fine eminentemente positivo quale la salvezza. Un fine positivo che, grazie al processo di laicizzazione che la cultura occidentale comincerà a conoscere dal Seicento, muterà la propria natura cessando di essere quello della salvezza ultraterrena per divenire il fine del progresso”.
Bisogna dunque essere storicisti. La scuola deve fondarsi su una filosofia ufficiale, da cui derivi il dovere di sostenere che la storia è progressiva e l’Occidente ne è il protagonista e il culmine. Ecco, se c’è un punto in cui il documento è fascista, non tanto nei contenuti specifici, ma nella funzione che assegna alla scuola pubblica e quindi allo Stato, è esattamente questo.
Ma entriamo nel merito. Se l’Occidente in quanto tale è storicista, allora bisogna espungerne i greci e i romani. Né Erodoto, né Tucidide, né Tito Livio (e nessun altro), si sognavano minimamente di pensare che ci fosse una storia lineare, fatta interamente dagli uomini e avente un fine di salvezza. La continuità tra greci, romani e cristianesimo è un luogo comune stantio che non ha mai sfiorato neppure per sbaglio una verità di fatto. Come ben sapevano e rivendicavano tutti i pensatori cristiani almeno fino alle soglie della modernità, ma non di rado pure dopo, tra antichità classica e cristianesimo c’è contrapposizione radicale. Il cristianesimo vincitore si è appropriato delle spoglie dell’antichità vinta e le ha ostentate trionfalmente. In questo modo, certo, le ha anche conservate e tramandate: avendone però distrutto il senso originario. La dovremmo smettere di raccontarci la favola inconsistente della continuità tra mondo classico e cristianesimo. La vera continuità, non senza naturalmente aspetti anche drammatici di conflittualità, è con l’ebraismo, e la concezione della storia come processo di salvezza non nasce, né si vede come avrebbe potuto nascere, né ad Atene né a Roma, ma, del tutto ovviamente, a Gerusalemme.
Di ciò, nel documento, non si fa minimamente cenno. Come non si fa cenno del fatto che lo storicismo come dottrina filosofica è comunque lontanissimo dal rappresentare l’essenza del pensiero occidentale: non ne esiste la più pallida traccia prima del medioevo, dove appare peraltro in un’ottica miracolistica e apocalittica, è caratteristica saliente di una fase importantissima ma breve del pensiero ottocentesco quasi esclusivamente in Germania (con qualche prosecuzione tardiva in paesi provinciali, tra cui il nostro), incontra avversari assai robusti come Schopenhauer e Nietzsche, si risolve in forme assai mutate nel marxismo e si esaurisce con esso (né del resto tutto il marxismo, specie quello più recente, è ascrivibile a una visione storicista).
Dal marxismo comunque la scuola italiana deve tenersi ben lontana. Occorre infatti smentire, dice il documento con paterna sollecitudine, “ogni sopravvalutazione degli elementi economici e strutturali”: il dato storico principale, semmai, è quello “religioso” (un po’ di Weber male orecchiato, si direbbe: la mezza cultura è peggiore dell’ignoranza conclamata).
Ma la vera ragione per cui lo storicismo, cadavere da decenni, andrebbe riesumato e messo sugli altari, o almeno sulle cattedre, non è filosofica ma intensamente patriottica: lo storicismo è roba nostra, è la quintessenza filosofica dell’italianità. È ciò che fa assurgere l’italianità a puro concetto, a verità indiscutibile ben al di sopra dei fatti volgari. Si può dire infatti, proclama squillante il documento, “che in generale la storia abbia rappresentato l’alimento decisivo che nel corso della modernità ha dato al pensiero italiano quella caratteristica assolutamente sua e peculiare che un filosofo ha chiamato ‘pensiero vivente’. Per un Paese come il nostro dove lo ‘storicismo’ – vale a dire l’affermazione circa il carattere storico di ogni conoscenza umana e l’assorbimento nella dimensione della prassi di ogni significato o prodotto della conoscenza stessa – lo storicismo, dicevamo, vuoi nella sua versione idealistica crociana che in quella dell’attualismo di Giovanni Gentile, vuoi nella versione marxista di Antonio Gramsci, ha influenzato in maniera decisiva l’intero corso del Novecento”.
Conosco e stimo il filosofo che, in uno dei suoi libri meno felici, ha tentato di costruire una “Italian Theory” fondata sul concetto di “pensiero vivente”. Non credo che questo filosofo si senta particolarmente onorato da una simile citazione. Trovo comunque irritante e inutile questa ennesima riproposizione della vecchia fola consolatoria del primato morale e civile degli italiani, che presuppone la consapevolezza dolorosa e taciuta del contrario. A parte ciò, salta agli occhi che qui si fa di tutta l’erba un fascio: espressione che in questo caso suona particolarmente pregnante. Croce, Gentile e Gramsci. Triade pacificata e retoricamente ammorbidita – come un tempo Cavour, Garibaldi e Mazzini – in cui si confondono allegramente insieme, nel nome del sacro storicismo, liberalismo, fascismo e marxismo, si annulla gioiosamente la differenza tra fascismo e antifascismo e tra chi è morto in galera e chi in galera ce l’ha mandato e si dichiara quello che sembra uno dei principali intenti del documento: la rifondazione, con qualche aggiornamento e qualche correttivo, della scuola gentiliana.
Poi c’è pure qualche lacrima di coccodrillo, decisamente poco convinta e poco convincente. Ebbene sì, lo storicismo, e con esso l’Occidente, ha fatto anche dei danni: “nella coscienza europea ed occidentale del XIX secolo la storia, la propria storia, – che proprio allora assiste alla vasta diffusione dei diritti dell’uomo e dei principi costituzionali, alla straordinaria crescita economica e del benessere, a risultati strabilianti nell’ambito della scienza e della tecnologia – assurge altresì a motivo decisivo per la formulazione di una presunta superiorità nei confronti di ogni altra popolazione e cultura della terra. Di quelle popolazioni e culture che nulla sanno di quanto sopra perché la loro storia ha seguito un tracciato assolutamente diverso non rivestendo perciò ad occhi occidentali alcun significato, potendo essere quindi tranquillamente ignorata. Come ogni sapere umano pure la storia, insomma, offre il destro di essere piegata al pregiudizio e alla discriminazione”.
Quindi in fondo anche quegli altri, gli sventurati non occidentali, avrebbero avuto una propria storia, che “ha seguito un tracciato assolutamente diverso”. Poverini, gli abbiamo fatto un po’ male, ci dispiace, li abbiamo un pochettino sottovalutati e discriminati. Però in fondo mica avevamo tutti i torti. La “vasta diffusione dei diritti dell’uomo e dei principi costituzionali”, la “straordinaria crescita economica e del benessere”, i “risultati strabilianti nell’ambito della scienza e della tecnologia” sono roba tutta nostra, come avremmo potuto non pensare che la storia degli altri potesse essere “tranquillamente ignorata”?
Tant’è vero che siamo fermamente intenzionati a continuare a ignorarla. “I contenuti seguenti assegnano uno spazio largamente prevalente alla storia europea e degli Stati Uniti per una precisa ragione. Pur essendo sempre più venute alla nostra attenzione le vicende dell’intero pianeta, resta il fatto che le finalità indicate sopra possono essere raggiunte solo rinunciando preliminarmente all’ambizione enciclopedica di parlare della storia universale, che vorrebbe dire necessariamente occuparsi un poco, o pochissimo, di ogni cosa. Per contro tali finalità implicano la centralità della storia occidentale, ed europea in particolare, storia che ha rappresentato in misura decisiva il contesto in cui affonda le sue radici la secolare vicenda italiana. Contesto solo intendendo il quale si può capire il processo di formazione della nostra cultura e delle nostre istituzioni democratiche”. Si prega di ammirare la logica stringente con cui si afferma che niente è meglio di poco. Di sicuro, non si potrebbe parlare di tutto in maniera approfondita. Ma non si vede cosa impedisca di fornire quelle poche informazioni di base che consentirebbero agli studenti, persino (perché no?) a quelli della scuola primaria, di sapere che esiste appunto una storia universale e che al mondo non ci siamo solo noi.
Altrimenti, visto che il mondo comunque esiste e non possiamo rimpicciolirlo a nostro piacimento, gli studenti si troveranno di colpo, senza nessuno strumento cognitivo a disposizione, a dover fare i conti con un mondo alquanto più grande di noi, che sarà a quel punto completamente ignoto, incomprensibile e perciò minaccioso. Sarebbe così difficile insegnare che il mondo è grande, vario e pieno di cose belle e interessanti? Poi, certo, del tutto ragionevolmente si approfondiranno solo quelle dimensioni storiche che ci riguardano più direttamente, ma almeno si avrà un contesto, e pure un senso delle proporzioni. Perché gli studenti debbono sapere (visto che ciò è previsto dai programmi) che sono esistite grandi civiltà extraeuropee antiche, ma non che ve ne sono state anche di medievali e moderne? Perché debbono sapere qualcosa dei Sumeri ma nulla della Cina? Perché debbono sapere chi erano i guelfi e i ghibellini, ma non che all’epoca dei guelfi e ghibellini la città più grande, bella e ricca del mondo era il Cairo? Perché non debbono sapere che quando l’Europa era straziata dalle guerre di religione l’impero Moghul, nell’India settentrionale, superava di dieci volte la Francia che era il più ricco Stato europeo?
E perché, soprattutto, non solo debbono ignorare la parte di gran lunga maggiore della storia mondiale, ma sul resto del mondo bisogna insegnargli il falso, cioè la “centralità della storia occidentale, ed europea in particolare”? Cioè una visione ottocentesca francamente colonialistica ed implicitamente razzista che, semplicemente, non è più da tempo di questo mondo? Perché la scuola deve mentire, insegnando non la storia, ma la favola forse rassicurante ma di sicuro stupida che il mondo è nostro, anzi che il mondo siamo noi?
Il codice dell’Occidente
Ma uno dei punti più stupefacenti del documento riguarda l’introduzione, nella scuola primaria, anzi al suo inizio, della Bibbia come testo di insegnamento, in buona e significativa compagnia: “Le radici della cultura occidentale attraverso alcune grandi narrazioni: p. es. Bibbia, Iliade, Odissea, Eneide (in forma molto semplificata)”.
Se si volesse clericalizzare la scuola, introducendo surrettiziamente il catechismo come insegnamento obbligatorio per tutti, sarebbe scandaloso, sarebbe incostituzionale, sarebbe una brutale imposizione autoritaria, ma avrebbe un senso. Un bruttissimo senso, ma un senso. Sarebbe il trionfo dell’integralismo cattolico e il ritorno alla religione di Stato. Ci sarebbe da inorridire, ci sarebbe da ribellarsi e da lottare, ma si capirebbe di che si tratta. Così, invece?
Del tutto esplicitamente, la Bibbia non è considerata come testo religioso, tanto meno come testo rivelato. È considerata come testo letterario, come narrazione epica al pari di Iliade, Odissea, Eneide. Più oltre, in altro contesto e a livello di formazione più avanzato, si citano Harry Potter e la letteratura fantasy (nulla da eccepire su questo: si tratta spesso, Harry Potter compreso, di grande letteratura). Un po’ curioso, per dirla così, è che la lettura di Harry Potter richieda più maturità della lettura, per quanto semplificata e mediata dall’insegnante, della Bibbia.
Ma perché leggere la Bibbia, perché leggerla in quel contesto, perché leggerla così precocemente, e quindi per forza superficialmente? Qualcuno deve aver sparso la voce, nelle alte sfere ministeriali, che la Bibbia è il “grande codice” a cui si ispira tutta la cultura occidentale, come afferma un fortunato ma non ineccepibile libro di Northrop Frye divulgato in Italia, non senza qualche intento apologetico, da Gianfranco Ravasi. E dunque, come si fa ad essere occidentali senza la Bibbia? Che poi Iliade, Odissea ed Eneide siano irrinunciabili patenti di nobiltà, a scuola l’hanno insegnato pure a noi ai nostri tempi. E dunque…
E dunque, mettiamoci nei panni di un povero insegnante (o meglio, di una povera insegnante, trattandosi quasi sempre di donne) cattolico/a. Costui/costei sarà forse abbastanza contento/a di insegnare quella che ai suoi occhi è la fonte suprema della verità e del senso, la Parola di Dio. Ma dovrebbe insegnare, almeno in teoria, che questa parola vale esattamente quanto quella di Omero e quella di Virgilio. Per di più, “in forma molto semplificata”, cioè ridotta a favoletta per bambini. Non sarà, ai suoi occhi, una specie di obbligo legale di bestemmiare? Qualcosa di profondamente oltraggioso, anzi, malgrado le apparenze, di profondamente antireligioso?
E se si tratta, invece, di insegnanti laiche/i? Non dovranno certamente insegnare che si tratta della parola di Dio, ma dovranno comunque, per obbligo, presentare agli studenti dei contenuti religiosi sotto mentite spoglie. E quei contenuti religiosi, e non altri. Non presi sul serio, per di più. Degradati. Ma comunque quelli. Non è una sciocca e inutile violenza?
Lo stesso vale, naturalmente, per le famiglie, le quali, laiche e cattoliche, avrebbero motivi diversi ma ugualmente validi per sentirsi offese e lese nella serietà e nella libertà delle proprie convinzioni.
Che l’assenza di cultura religiosa sia un male di cui il nostro paese soffre più di molti altri, che sia inaccettabile che la quasi totalità di coloro che si dicono cattolici non abbia mai preso in mano la Bibbia e non sappia neppure come è fatta, sono cose di cui sono convinto da sempre. I credenti dovrebbero avere la possibilità di un accesso scientifico e pluralista alla cultura religiosa, e la “laicità” (o l’ateismo) non hanno nessuna dignità se si fondano soltanto sull’ignoranza e sul pregiudizio. Un insegnamento di storia delle religioni scientificamente fondato sarebbe l’unica “materia alternativa” sensata all’insegnamento confessionale della religione cattolica, e in una scuola ideale di un paese ideale dovrebbe prenderne il posto, cosa che mai accadrà. Ma questa marmellata indistinta di indottrinamenti approssimativi non risolve certo il problema, non fa che renderlo ancora più grave e più osceno.
Ma perché, in fin dei conti, questa oscenità? Qualcuno forse, ne sono abbastanza convinto, ha una forte nostalgia di “Dio, Patria e Famiglia” e vuole spacciare di contrabbando un po’ di questa roba tossica a scuola. Non è però questa, credo, la motivazione fondamentale. Anche in questo caso, come in tutto il documento, ciò che si tace (e implicitamente si nega) è più importante di ciò che si dice apertamente. Cosa si tace, qui?
Qualcosa del genere, credo: prendiamo i piccoli mussulmani, e più piccoli sono meglio è, e insegniamogli, da subito, che la Bibbia è occidentale e il Corano invece no, che l’Occidente è cristiano e quindi loro, i piccoli mussulmani, non sono né saranno mai a casa propria qui da noi, che saranno sempre altri, diversi, impropri, illegittimi, mal tollerati. Che non si facciano illusioni, da subito, e non avanzino pretese. L’Occidente è nostro e nostro soltanto: lo dimostra il nostro giulivo agitare bandierine con scritto su “Grecia!” “Roma!” “Bibbia!” “Cristianità!”. Il tutto ridotto a favoletta sciocca per bimbi indottrinati e addestrati da subito alla violenza. Violenza mentale e non fisica, certo, ma non è meglio, non è meno orrendo.
Magari fosse solo fascismo…
Non mi pronuncio su altri aspetti del documento, segnatamente quelli che riguardano le discipline scientifiche. In proposito ci sono state autorevoli dichiarazioni a favore, da parte dei geografi in particolare, e non ho motivo di mettere in dubbio che ci siano anche aspetti molto positivi. Ma quello che vedo, fin dove arrivano le mie competenze, è desolante. C’è una scelta di fondo per la non scientificità, la retorica vuota, il rifiuto della realtà, la negazione dell’evidenza. Non, lo ripeto, in un’ottica propriamente fascista o antidemocratica, non è questo il punto, non è questo il problema. Ma nell’ottica di un occidentalismo ideologico, o piuttosto mitologico, che ripropone schemi mentali in parte da guerra fredda, in parte addirittura ottocenteschi. E questo proprio nell’anno che gli storici futuri identificheranno probabilmente come quello in cui il “tramonto dell’Occidente”, già ben percepibile fin dal primo Novecento, si è definitivamente concluso. In un mondo in cui Europa e Stati Uniti non sono più congiunti dalla nozione, appunto, di Occidente, ma separati, forse non per sempre, ma certo con conseguenze di lungo periodo, da un oceano di incomprensioni, ostilità e disprezzo. In un’epoca in cui l’Europa deve decidere qual è il suo posto, e se può ancora avere un posto, in un mondo in cui Stati Uniti, Russia e Cina tentano di definire i rispettivi spazi prescindendo completamente da noi. In un mondo del genere, insegnare che l’Occidente è il punto culminante e il fine ultimo della storia universale non è fascista, non è antidemocratico, non è autoritario. È molto, molto peggio: è semplicemente idiota.
In copertina: Piero Barducci, Studio (2025)