A testimonianza di amicizia e ammirazione per l’opera fotografica di Fabrizio Uliana (clicca qui per vedere la raccolta Venezia anamorfica)

Venezia, una città troppo fotogenica per essere fotografata

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otografare Venezia è una sfida, perché quando visitiamo alcune grandi città turistiche come New York, Parigi o Venezia, siamo immersi «in» una cartolina tridimensionale, poiché la nostra percezione è filtrata attraverso il prisma dei ricordi delle foto, dei film, dei testi letterari che ne hanno costruito l’immagine e, per dire tutto, il mito. Fotografare Venezia è una sfida ancora più grande, in quanto questa città ha la singolarità di essere catturata da una monumentalità mobile senza cessare di essere inglobata nei riflessi dell’acqua dei canali e della laguna, come uno scrigno fluido avvolto da armoniche nuvolose, come il Canaletto che fa librare un cielo minaccioso sopra il Canal Grande[1].

Così si vede Venezia museificata e mummificata, viva e ricoperta dalle icone delle epoche passate che le sono state incollate. Si crede di guardare la città mentre si dispiegano tra lei e noi una serie di immagini preconfezionate, «pittoresche», che impediscono di vederla. I tentativi opposti che evidenziano il rovescio della medaglia, foto di parti desolate e brutte, degrado dei luoghi o i volti sconfitti delle persone vulnerabili, alimentano il mito.

La nostra percezione della città è dunque continuamente parassitata, mistificata, sia che sia dalla visione romantica, quella dell’amore a Venezia («vedere Venezia e morire»), sia dalla visione carnevalesca che evoca la morte e la rende più evidente con le esagerate feste decadenti («vedere Venezia per non morire»), o, infine, sia da quella attuale, della visione apocalittica del suo sprofondamento lagunare («vedere Venezia morire»).

Come si potrebbe sfuggire a questa cristallizzazione del vedere, a questa immobilizzazione della città in un perpetuo movimento di cielo e di acqua a favore di cliché convenuti, a rischio di una vera e propria letargia visiva? Cercare di contrapporsi non risolverebbe nulla, poiché la decadenza fa parte del mito di Venezia, come mostrano alcune scene del film Morte a Venezia.

Bisognerebbe allora rinunciare e chiudere gli occhi, o praticare esercizi percettivi per aprire lo sguardo e nutrirlo della freschezza di nuove esperienze? Oppure bisogna al contrario abitare a Venezia, viverci stabilmente per non vederla più o almeno per annientare il sublime sotto il quotidiano, quello dei disagi che vivono i suoi residenti?

Le metamorfosi dello sguardo

Fabrizio Uliana, in questa serie di Anamorfosi veneziane, coglie la sfida perché intrappola sotto il suo sguardo non ciò che, da Venezia, si dà a vedere sotto il sigillo di un’illusione estetica, ma l’invisibilità stessa che la rende «visibile». La fotografia sarebbe così l’arte di ciò che rende visibile il visibile. Avendo vissuto sul posto per molti anni, avendo percorso i luoghi più conosciuti come i più ignorati, lui fa parte del circolo fotografico veneziano «La gondola» e si è dedicato a questa arte da molto tempo[2]. Per trasformare lo sguardo che rivolgiamo a Venezia, con un semplice telefono cellulare, ha messo a punto un processo di ripresa sul quale la sua mano effettua una rotazione che permette di avere una de-formazione visiva ponendola sotto il segno dell’anamorfosi. Un modo per trasformare il vedere in una visione inedita: riconosciamo immediatamente in queste foto i quartieri, i monumenti emblematici della città, ma li vediamo come non li abbiamo mai visti. La bizzarria apparente, per non dire a volte la mostruosità inquietante di queste viste, ha per effetto quello di cambiare il nostro sguardo sulla città. L’anamorfosi è una singolarità pittorica che consiste nel presentare una rappresentazione deformata o mostruosa, che si ricompone quando la si presenta davanti ad uno specchio: si tratta dunque di un gioco di smarrimento provvisorio, allo stesso titolo del trompe l’oeil o di altri paradossi visivi. Ma bisogna considerare, in questo caso, l’anamorfosi in senso ampio, poiché la decomposizione del tempo e del movimento non presuppone qui nessuno specchio che ripristinerebbe la rappresentazione «normale» di una realtà nota a tutti. È invece l’occhio fotografico che «deforma» l’iconografia veneziana, che ci impedisce di vedere la città nella sua verità, proponendo una realtà trasformata, il che conferisce alle immagini un’alta potenza rivelatrice.

Il lavoro di torsione che Fabrizio Uliana impone all’apparecchio al momento dello scatto, deforma la nostra percezione, scomponendo il tempo e lo spazio veneziani. Ciò non è frutto dell’artificio, né dell’arbitrarietà, né di una semplice fantasia, anche se si percepisce, sfogliando il libro, umorismo e una gioia ludica a manipolare le apparenze. Il processo è messo al servizio di un’intenzione: Venezia è deformata, cioè sconfitta nelle sue forme costituite convenzionali, decostruita in senso letterale e figurato, non per essere distrutta, ma per meglio essere ri-formata, riformulata secondo nuovi codici, quelli della sua eminentissima plasticità. Così la metamorfosi si compie davanti ai nostri occhi poiché, sotto le apparenze, ci viene proposta la legge dell’apparire che dà le regole di ricomposizione di una città nella sua verità.

Fabrizio Uliana introduce, infatti, una doppia dimensione che non si trova quasi mai nelle vedute di Venezia come solo i poeti possono restituire mediante la potenza dell’immagine metaforica[3].

In primo luogo, quella del movimento che non è semplicemente suggerito dal luccichio delle acque o dalle nuvole in fuga, ma che è agito direttamente nel momento dello scatto, portando inesorabilmente le architetture in una deflagrazione visiva fatta di vortici, cadute, slittamenti: quello che mostra il cliché n° 6 (Punta della Dogana) su cui la punta della Dogana sembra essere catturata in una piega su se stessa e trascinata dal movimento dell’acqua che scivola in un ampio primo piano, portando con sé la gondola verso gli abissi. La fotografia n° 15 (Ca’ d’Oro) va fino in fondo alla rappresentazione di un maelstrom che produce una vera e propria inversione dei mondi destabilizzando il nostro sguardo. In secondo luogo, c’è quella della metamorfosi dinamica che destruttura le architetture, le fa volare in frantumi, ne dissocia gli elementi. Così, la foto di n°13 (Santuario di Santa Lucia) sembra cogliere, con modalità dell’istantanea, un effetto di soffio, che castra il campanile della chiesa e taglia una cupola che rimane sospesa nello spazio. L’immagine forse più emblematica a questo titolo è quella di p. 19 (Canal Grande dal ponte degli Scalzi). Lei coniuga la torsione che porta ad una caduta delle facciate verso sinistra e una dissociazione degli elementi architettonici, campanile, camini. Fabrizio Uliana ottiene così una serie di vedute in cui Venezia è modellata da un gioco di forze in movimento che la decompongono visivamente sia nella sua dimensione liquida (canali e laguna) che spaziale (architettura e luoghi) per restituirne la profondità che gli dà il suo significato.

Una grammatica del visibile

Le immagini sembrano prodotte da sequenze successive, come dal gioco casuale di un caleidoscopio che, quando si agita o si muovono i cristalli, scompone e ricompone all’infinito, per la nostra più grande sorpresa, quadri strani e abbaglianti. Ma sfogliando l’insieme del volume si comprende la profonda unità e la logica del percorso proposti dall’autore. L’insieme attesta uno stile e una sintassi visiva assolutamente singolari. Infatti, le metamorfosi di Venezia qui proposte, si traducono in una vera e propria grammatica delle forme e dei movimenti che deformano l’acqua, la terra e il cielo.

Così, ad esempio, l’immagine n° 5 (Punta della Dogana) presenta una curvatura concava nel movimento di torsione delle acque, mentre il cliché di n° 22 (Imbarcadero di San Tomà) assume una forma convessa, come se il ribaltamento delle facciate sulla destra fosse accompagnato dallo sdrucciolare delle acque del Canal Grande su uno scivolo. D’altra parte, l’immagine n° 24 (Isola di San Giorgio Maggiore) combina il concavo e il convesso con un intenso effetto di vertigine, poiché è possibile vedere contemporaneamente una veduta inclinata della Salute da San Marco e la stessa vista capovolta.

Si osserva così che una serie di combinazioni è possibile. La foto n° 10 (Ca ‘Dario dal Canal Grande) fa rotolare il canale su se stesso in modo convesso, creando una mostruosa gobba d’asino liquido, come se un crollo inghiottisse le architetture che si disgregano sotto pressione, mentre un cielo taglia l’immagine in due: si duplica sul lato destro, ma questa volta in una sorta di testa in giù caratteristica dei capovolgimenti che abbondano in questo portfolio. La foto più drammatizzata di questo crollo liquido, una delle più belle dell’album senza dubbio, è la foto n° 32 (Bacino di San Marco) dove la silhouette ben ritagliata della piazza San Marco, vista dal largo o dall’altra sponda, si staglia sul fondo di un cielo basso e grigio e si trova come attratta inesorabilmente alla base di un’immensa cascata scrosciante, le cui masse di acqua verde, solcate da onde verticali, seguono una curva prima di precipitarsi nel vuoto. L’impressione è rinforzata dalla fenditura sul lato sinistro che delimita la verticale dell’acqua e trascina nella caduta la parte sinistra degli edifici che costeggiano il Canal Grande a monte della piazza. Una vista mozzafiato che, certo, obbedisce a una regola di costruzione d’immagine ma, ben oltre, si impone con una potenza simbolica profondamente significativa. Questa drammatizzazione si ritrova nella composizione molto riuscita del Ponte Rialto (n° 3), spezzato come un guscio di noce, a causa di una frattura che sembra infliggergli lo scorrimento dell’acqua dal canale verso destra: il successo complessivo è dovuto alla presenza del palo obliquo e al colore blu cobalto della barca.

La foto n° 23 (Piazza San Marco), riprende una parte del procedimento, ma questa volta non si tratta più di un salto d’acqua, bensì terrestre, poiché la distorsione è applicata a piazza San Marco, di cui riconosciamo perfettamente gli elementi con una deformazione del campanile, allargato verso l’alto e frammentato, con un movimento di fuga di alcuni elementi del tetto. Abbiamo visto nell’immagine n° 4 (Campanile, El parón de casa, Piazza San Marco) lo stesso campanile distaccarsi su uno sfondo blu opalescente, diviso in due dalla base con una torsione verso destra del suo «piede» sinistro. La foto n° 5 (Osteria La Zucca) è sorprendente perché frantuma le due pareti di una «calle» . La parte sinistra, con questi colori aciduli, rimane intatta nella sua parte bassa, ma si contorce verso le sue parti alte come se le facciate stessero ripiegandosi su se stesse, catturate sull’orlo del crollo, mentre tutto il lato destro è bloccato in un faglia materializzata dal suolo che si insinua, con le facciate inesorabilmente inclinate a destra. La foto n° 25 (Ponte dei Sospiri) obbedisce alla stessa regola compositiva, che mette in scena il Ponte dei Sospiri ripreso in un movimento che abbiamo già osservato per la foto precedente. Tutti i monumenti più emblematici e conosciuti di Venezia, oggetto di innumerevoli scatti banali da parte dei turisti, sono presi nel vortice e dalla vertigine innescati dal gesto fotografico di Fabrizio Uliana che, facendoli esplodere, li strappa così alla banalità.

Questo movimento, che induce il visibile in una deformazione tormentata, può infine assumere la forma circolare di un vortice liquido, attirando nel suo occhio gli spazi e i volumi (n° 24, Isola di San Giorgio Maggiore). Questo è la situazione nella foto n° 29 (Faro-Isola di Murano) che mostra il canale ai piedi del Faro di Murano preso nel movimento di un scaricamento che abbiamo già osservato, ma che viene complicato dalla formazione di un’ansa che separa dalle triplici «briccole» una parte di azzurro, dove si riflette il cielo, e una parte animata di piccole onde che formano un imbuto liquido avvolgendosi ai piedi del pontile del vaporetto.

La deformazione può interessare, come si è visto, l’acqua e la terra, ma può anche perturbare il cielo, come illustra l’inflessione data alle nuvole nella foto n° 1 (Chiesa di San Simeone Piccolo) che presenta una curvatura a sinistra tra una parte di architettura che costeggia l’acqua del canale, trascinata nello scivolamento verso il basso, in contrapposizione a nubi cariche e pesanti che flettono nello stesso movimento concavo. Anche qui, come in molte altre foto, le parti superiori dei monumenti (in questo caso la chiesa di San Simeone Piccolo) si separano e si distaccano duplicando verso sinistra. La foto n° 28 (Chiesa di San Trovaso) accentua questo effetto: l’intero campanile e la parte alta della facciata, sottoposti alla pressione deformante, si sfaldano nell’aria, collassando verso sinistra come se fossero catturati dall’acqua. Può anche accadere, come nella foto n° 21 (Canale di Cannaregio da Riva di Biasio), che i monumenti siano in preda a una vera e propria levitazione al punto da essere sospesi in un cielo nuvoloso, le cui onde blu fanno vibrare i contorni. A volte la visione aerea può essere più leggera, e ricordare il surrealismo, cioè quella del lampione la cui distorsione sembra obbedire, come la silhouette dell’albero, agli influssi imposti dal vento leggibile nella flessione artificiale delle masse nuvolose (n° 27, Omaggio a Magritte – Isola della Giudecca).

Si potrà così comprendere il modo in cui questa sintassi visiva, combinando in diverse modalità questi significanti iconici, produce effetti di senso. La foto n° 10 (Ca’ Dario dal Canal Grande) ad esempio coniuga un cielo di sfondo di un blu opaco con un crollo verso sinistra delle facciate, tra cui quella della Ca’ Dario, che scivolano sulla cascata creata dalla deformazione del Canal Grande che non è più in orizzontale ma si riversa in forte pendenza. Questo vale anche per la foto del cantiere di riparazione delle gondole (n° 11, Squero di San Trovaso). Anche la foto di Burano dai colori così iconici di quest’isola obbedisce alle regole di questa sintassi, con un crollo questa volta verso destra (n° 19, Casa di Bepi, isola di Burano). A volte accade anche che le metamorfosi giochino solo su un elemento parziale, come il primo piano su un angolo di calle che, in controluce, deforma l’angolo del palazzo (n° 26, Ponte del Megio).

Come si vede, il lavoro di metamorfosi che colpisce gli edifici della città gioca su diverse scale. Può anche riguardare elementi localizzati (un angolo di calle), viste interne come testimonia la foto del mercato del pesce già evocata per la sua complessità, come, più semplicemente, su una deformazione delle linee orizzontali di un’architettura come nelle foto n° 30 (Ospedale SS. Giovanni e Paolo) e  n° 31 (Scuola Grande di San Marco). Quest’ultima gioca sul contrasto tra la bellezza geometrica del pavimento e la torsione della parte superiore della sala impressa dal gioco di inflessione dei pilastri. Infine, queste ricomposizioni architettoniche possono riguardare anche il paesaggio urbano in modo più globale, come testimonia la foto panoramica n° 12 (Terrazza del Fontego dei Tedeschi) che offre una vista a volo d’uccello dai tetti con un effetto di avvolgimento delle architetture soprattutto grazie al giallo ocra dei tetti della città.

I personaggi sono spesso assenti o puramente aneddotici, sono passanti anonimi, camminatori frettolosi o girovaghi, mai volti o persone individualizzabili. La foto n° 7 (Stazione di Santa Lucia) della piazza della stazione è singolare, perché le sagome umane sono catturate negli effetti di mutazione. I passanti sono trattati come l’architettura e subiscono le medesime distorsioni: la stazione che si estende linearmente è piegata verso l’alto e le scale, sul lato sinistro, si espandono in una stratificazione che incorpora e dissolve i personaggi, duplicandoli in serie. Si consideri anche la splendida vista del mercato di Rialto (n° 8, Pescheria), giocata su una delle trasformazioni più utilizzate, ovvero quella di una simmetria mimetica: la foto è divisa in due e divaricata su di sé stessa, ma è la stessa visione distorta che viene presentata su ciascuna delle due parti dell’immagine come testimoniano i due soffitti identici, così anche il personaggio della donna, duplicato in tre figure (come altrove gli elementi del tetto o della cupola), vista di spalle, vestita d’un abito a losanga. Un effetto di duplicazione con lo stesso personaggio visto da davanti e da dietro è proposto nella foto di n° 18  (Vini da Gigio), certamente più aneddotico.

Questi effetti di sfogliatura e di duplicazione di un oggetto identico per accostamento con esso possono giocare in modo ancora più insolito, come nella foto panoramica n° 16 (Vaporetto e Laguna Nord), che mostra contemporaneamente tre stati dello stesso istante. Inizialmente un vaporetto intatto sulla parte sinistra, si vede suddiviso in tre sezioni longitudinali. Nella parte centrale, la scia che la prua lascia nell’acqua si scompone in una serie verticale di colonne d’acqua, lasciando intravedere sullo sfondo i cordoni di terra ferma delimitanti la laguna. Nella parte destra, il paesaggio lagunare si riforma immobile. Un’onda di deformazione sembra percorrere l’insieme della visione come in una narrazione che gioca tra realismo e astrazione. Un movimento si crea, si propaga e si dissolve nella calma delle acque immobili.

Un’ermeneutica dell’inabissamento? …

La tecnica impiegata da Fabrizio Uliana, lungi dall’essere un semplice procedimento che avrebbe la sola vocazione di spostare lo sguardo che rivolgiamo a Venezia creando un puro effetto insolito di ebbrezza visiva, gioca al contrario come un vero rivelatore ermeneutico. Ciò che viene spiegato in questo saggio analiticamente e retrospettivamente non significa che l’autore abbia pre-meditato il suo gesto in funzione di un piano «riflessivo» in modo astratto. Questa è la vera potenza del gesto artistico di Fabrizio Uliana, sostenuto dall’istante tecnico dell’atto fotografico, che riesce a catturare, in un’intuizione fulminea, l’estetica di una città come Venezia, lontano da ogni stereotipo estetizzante. La sintassi delle trasformazioni formali, associando e combinando in vari modi molteplici significati iconici, crea una grammatica visiva al di là dell’apparente caos. Ma quali sono gli orientamenti e il significato? Si potrebbe dire che il lavoro di Fabrizio Uliana lascia al «guardante» il beneficio di una grande libertà e che bisogna evitare un’interpretazione che ne impoverirebbe il senso. Eppure, la coerenza dell’insieme, le regolarità rilevabili sotto la grande diversità dei punti di vista sulla città, come un’urgenza che si fa luce, ci invitano a cercare le linee di forza di un’interpretazione coerente che vale come un appello, senza dubbio un appello alla contemplazione, ma forse anche all’azione.

I tre sfondi mitologici evocati in precedenza, che sottendono la visibilità di Venezia e che danno un senso molto impoverito alla visione che generalmente ne abbiamo, possono fungere da interpretanti? Ci si rende immediatamente conto che il primo (l’amore romantico) e il secondo (la festa carnevalesca) non possono guidarci a comprendere il significato di questa magistrale opera fotografica. Al contrario il terzo, che evoca l’affondamento della città nella laguna, la frequenza delle alte acque e delle inondazioni, il tutto messo in risonanza con il tema del cambiamento climatico e i suoi danni al pianeta ci permetterebbe senza dubbio di collegare il lavoro di Fabrizio Uliana ad un’ermeneutica dell’inabissamento: l’insieme di queste vedute di Venezia illustrerebbero, come per una metafora visiva esacerbata, i rischi corsi da questa città, destinata allo sgretolamento e al degrado sotto gli assalti del vento e dell’aria marina, nonché le ripetute inondazioni. Di fronte a una relativa impotenza umana, come dimostra l’incuria amministrativa che ha accompagnato l’attuazione dei molteplici progetti e piani di salvataggio della città, Fabrizio Uliana sarebbe un segnalatore visivo che ci dà da vedere in anticipo, grazie alle deformazioni che crea, il rischio di distruzione che corre Venezia.

È vero che questa interpretazione «apocalittica» è incoraggiata da molte delle immagini-visioni che ci vengono proposte, specialmente quando si rappresenta un insieme architettonico che viene spezzato o deformato, trascinato in una vortice liquido che lo porta verso un abisso senza fondo. I termini utilizzati per descrivere queste immagini – collasso, crepa, torsione, vortice, caduta, inabissamento – conferiscono una certa credibilità a questa visione apocalittica di una Venezia destinata a scomparire. Tuttavia, a differenza dell’estetica delle rovine di Roma praticata dai pittori del Rinascimento, che esprimevano solo malinconia di fronte alla fine di una civiltà, la rappresentazione visiva della distruzione di Venezia contribuirebbe a farci prendere coscienza dell’urgenza dell’azione che sarebbe necessaria per salvarla.

… o un’ermeneutica della redenzione creatrice di Venezia?

E’ forse vero, e perché non riconoscere la validità di questa interpretazione che ha per sé l’immediatezza di ciò che si può provare di fronte ad alcune di queste fotografie? Eppure, il lavoro di Fabrizio Uliana non può essere ridotto all’illustrazione della parola d’ordine abusata sulla necessità di «salvare Venezia», così come bisogna salvare i panda o il pianeta! Certamente, il tema dell’inghiottimento non è più un mito, ma un dato scientifico oggettivo. Tuttavia, conserva ancora le connotazioni e il tono apocalittico, quello di una fine del mondo annunciata. Ma sarebbe come confondere distruzione e decostruzione. In effetti, non è la distruzione di Venezia che ci viene mostrata attraverso queste metamorfosi ottiche, ma piuttosto un’immagine visiva concreta della sua decostruzione. Ora, decostruire significa distruggere metodicamente i significati cristallizzati, ridare loro mobilità mostrando come i pezzi che li costituiscono si organizzano dinamicamente. Non è esattamente quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi? Proprio disfacendo la sostanza, lo spessore dei muri, la consistenza delle acque, è introducendo la metafora dell’implosione liquida e dell’esplosione architettonica nel cuore del visibile che Fabrizio Uliana ne fa vedere la plasticità, una condizione della sua trasformazione virtuale.

Il processo di decomposizione dinamica mostra la città in movimento che si sviluppa in una modalità di configurazione spaziale e temporale inedita. È un modo per creare una nuova visibilità del mondo come una nuova leggibilità di ciò che gli conferisce significato. Certamente le architetture e le colate d’acqua si riversano come in un abisso senza fondo che le inghiotte, ma questa imminente sommersione è solo un momento di un perpetuo movimento di rinascita in un continuo movimento di ricominciamento che si traduce qui nella dominanza della luce, nei grandi fondali blu, nel forte colorismo che anima gli scatti. Questo progetto dà grande importanza al corpo mobile del fotografo che stabilisce il punto spaziale da cui il movimento delle forme è materialmente garantito, come punto di singolarità conferendo a questi scatti l’entusiasmo di uno stile e di un’estetica immediatamente riconoscibile. Egli pone anche l’importanza del tempo che registra fluidità e flussi in un ciclo cosmico. Il fotografo ci invita a rinunciare ad una visione lineare di un progresso continuo in cui l’ubris prometeica si farebbe forte di «salvare Venezia» contro se stessa, come testimoniano le dighe e le paratie del progetto così mal denominato MO.S.E.[4] che permette di chiudere la laguna in caso di alte maree. Ma ci chiede anche di non cedere alla visione decadente della grande rinuncia che accondisce alla fine dei tempi e al crollo dei mondi. Fabrizio Uliana sceglie una via meno frontale, più indiretta, più vicina al Tao secondo Lao Tzu che sembra descrivere esattamente la visione di Venezia portata dalle sue fotografie:

Tutti considerano il bello per il bello,

In questo risiede la sua bruttezza.

Tutti tengono il bene per il bene,

In questo sta il suo male

Perché l’essere e il nulla si generano.

 

Il facile e il difficile si perfezionano.

Lungo e corto si formano a vicenda

La parte superiore e inferiore si toccano

Voce e suono si armonizzano

Il prima e il dopo si susseguono

 

Per questo il santo adotta la tattica del non agire,

E pratica l’insegnamento senza parole.

Tutte le cose del mondo sorgono senza che ne sia l’autore.

Si esibisce senza appropriarsi, agisce senza aspettare nulla,

Se il lavoro è compiuto, non vi si attacca,

E poiché non vi si attacca, la sua opera resterà[5].

Questo non agire e l’umiltà di questo «insegnamento senza parola» è ben illustrato qui dal carattere minimo di un gesto i cui effetti di rovesciamento sono tuttavia considerevolmente amplificati. Fabrizio Uliana non ci dà nessuna lezione, non formula alcuno slogan perché mobilita solo la nostra immaginazione proponendo una metamorfosi di Venezia di cui riconfigura gli elementi percettivi e visivi.

Si può dunque affermare, a proposito di questo progetto fotografico magnificamente condotto alla sua realizzazione, che esso è frutto di un’anamorfosi ma si tratta di un’anamorfosi inversa. Infatti, proprio come lo specchio che capovolge la rappresentazione mostruosa o insolita del quadro, ridonandogli forma, le fotografie di Fabrizio Uliana, attraverso il gioco della deformazione, ci rivelano la verità di un’apparenza illusoria di cui la mostruosità ci è abitualmente mascherata, quella della Venezia sfigurata dalle visioni statiche, mitiche e mistificanti che conserviamo. È questo il prezzo per accedere a una certa verità su Venezia di confrontarci con audaci deformazioni visive che spostano i quadri ottici. Le dissociazioni aeree, i voli lirici del monumentale strappato allo statico dalla sua condizione materiale, le duplicazioni di forme che levitano nell’orizzonte visivo esorcizzano la tentazione dell’inghiottimento a vantaggio di una bellezza sublimata.

[1]  Canaletto, « Il Canal Grande visto dal palazzo Balbi fino al ponte di Rialto », Ca’ Rezzonico, Venezia, Immagine n°2

[2] I suoi lavori sono visibili sul sito: www.ziobrafi.it

[3] Come Eugenio Montale in questi versi: «La gondola che scivola in un forte / bagliore di catrame e di papaveri …» (Le occasioni, 1939).

[4] Modulo sperimentale elettromeccanico

[5] Lao Tzu, Tao te Ching, edizione illustrata, Armenia, 2011

L'autore

Frédéric Cossutta

Professore associato di filosofia.
Ex allievo della Scuola Normale Superiore di Saint-Cloud.
Ex direttore di Programma al Collège International de Philosophie.
Direttore delle collane «Le discours philosophique» e «Philosophie et langage», edizioni Lambert-Lucas