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Maestri: Roberto De Simone e Pierre Lafforgue

Roberto De Simone incontra Pierre Lafforgue, fondatore e direttore dell’ospedale pediatrico “La Pomme Bleue” di Bordeaux

Questo è il racconto del loro storico incontro, nel palazzo che diede i natali a G.Battista Basile, dove “Gatta Cenerentola”, con le sue “sette sorelle”, entra nei labirinti colorati dell’ospedale.

Tra il dire ed il fare basta cominciare.

Sul finire del secolo scorso il prof, o come lui preferisce essere definito, il dott. Lafforgue, ha scritto una sorta di “sequel” del fortunatissimo studio dello psicanalista americano di origine ebraica Bruno Bettelheim “Il mondo Incantato”. (2)

In esso ha raccontato la sua ventennale esperienza di fondatore e direttore dell’ospedale pediatrico ”La Pomme Bleue”, dove ha iniziato a curare, in maniera innovativa, i bambini che, come dicono le fiabe, si “perdono nel bosco”. Ha fondato il suo ospedale nella Francia degli anni ’70, tutta intrisa della temperie di un “maggio” caratterizzato da modalità interpretative così innovative che alfine hanno coinvolto tutto l’universo della conoscenza e della cura.

Lafforgue ha seguito una intuizione: poter ritrovare nelle millenarie narrazioni “fiabesche” una possibilità terapeutica e di comunicazione sia tra le generazioni sia tra le tante culture che, convivendo nei vorticosi cambiamenti della contemporaneità, rischiano però di voler divaricare le differenze reciproche e di omologarsi perdendo le proprie radici.

Sdradicamento, divoramento potrebbe definirsi il patologico fenomeno della contemporaneità che tende a trasmettere sempre più contenuti di pensiero pret a porter, un fenomeno che molto nuoce all’infanzia e che  riguarda l’infanzia ed i popoli, o, come direbbe Vico, l’infanzia di ogni popolo.

Questa intuizione, tradotta in un’esperienza terapeutica, viene argomentata in un suo libro tradotto in Italia con il titolo “Pollicino diventerà grande” (3), dove racconta la sua ventennale storia di medico e ricercatore che inizia a curare bimbi con patologie e disagio nella comunicazione con fiabe di tradizione orale da lui stesso raccolte nel territorio della Guascogna.

Il libro è attraversato dalla profonda convinzione che la fiaba, oltre a mantenere in vita i preziosi elementi della cultura tradizionale, conservati nelle lingue materne di ogni popolo, sia un buon elemento necessario allo sviluppo della vita psichica.

La fiaba di tradizione, egli sostiene, parla alle radici profonde ed universali della psiche umana, parla delle esperienze arcaiche ed universali della nascita, dell’amore, della morte…cercando di dare voce poetica, senso e sostegno comunitario ai tanti interrogativi che questi eventi possono suscitare in ciascuno. Parlano insomma, con linguaggio universale, della condizione umana, patrimonio che ogni popolo dona alle nuove generazioni per sostenerne la fragilità del “venire” al mondo.

Narrare, egli afferma, è essenziale per la vita psichica come il cibo per la vita biologica, più che mai nella contemporaneità, tanto spesso affollata di immagini e simulacri privi di senso.

La sua esperienza nei “laboratori di narrazione” (4) gli fa sostenere che i bambini mostrano grande interesse nei confronti di fiabe anche spaventose, mentre appaiono angosciati e paralizzati all’ascolto di analoghi fatti di cronaca (ad esempio bimbi che si perdono).

Bisogna narrare ai bambini, afferma, distanziare le loro paure in un luogo ed in un tempo magico per dare loro la possibilità di abitare serenamente l’elaborazione simbolica che serve ad ognuno per sperare e desiderare di “diventare grande” ed avere, come per magia, il proprio spazio di parola.

Nel capitolo del libro che intitola “Il laboratorio fiaba, dalla pratica alla teoria” (5) parla dei tanti bambini della contemporaneità spesso incapaci di esistere come soggetti perché incapaci di uscire, senza mediazione, dal “corpo a corpo” con un disincantato mondo degli adulti che sta perdendo la capacità di pensare al futuro con le equazioni poetiche e simboliche nate dall’esperienza (6) di cui brulicano invece le fiabe popolari.

Per cominciare a comprendere il senso delle riflessioni profonde che stanno alla base del lavoro di cura da lui coraggiosamente intrapreso e portato avanti negli atelier dell’ospedaleper oltre vent’anni, può servire citare la frase di Rabelais da lui riportata nell’ exsergo del suo racconto:

Faceva talmente freddo quell’anno che le loro grida si gelavano in aria.

Fu soltanto nella primavera seguente che si comprese quello che volevano dire (7).

Il dottor Lafforgue aveva da tempo espresso il desiderio di incontrare Roberto De Simone.

L’incontro fu da più parti tanto desiderato che si rese alfine necessario realizzarlo.

Fu così che, per prepararlo, tre rappresentanti dell’associazione “Lupus in fabula” (8) si recarono a casa del maestro.

Il testimone è San Gennaro

Davanti alla severa porta di uno splendido palazzo di via Foria, un neuropsichiatra infantile, una psicoterapeuta ed una “narratrice” (9) sostavano e confabulavano, sentendo l’avvicinarsi lento di passi.

Erano emozionati per l’incontro con “il maestro”.

Qualcuno disse: “Perché maestro?”

“In musica si usa, ma c’è dell’altro…” fu risposto, perché non si osava dire “maestro di pensiero”.

Comparve finalmente Roberto De Simone, che ci accolse con sguardo e sorriso di fanciullo, e ci introdusse in quello che apparve subito come una sorta di “Vittoriale” napoletanoma quanto diverso nello stile!

Un accogliente calore emanavano le icone alle pareti, la disposizione di arcaici strumenti e manifatture, le scene scolpite all’interno delle grotte e dei templi dei presepi presenti ovunque nelle stanze.

Ogni angolo respirava e diceva che non si trattava della dimora di uno scaramantico collezionista, ogni oggetto comunicava un pensiero profondo che immediatamente sentivi tuo…

I tre erano entrati nel “mondo incantato”!

Erano entrati nel teatro in cui le sante dipinte o scolpite con i loro sguardi trasmettevano visioni, racconti.  Splendidi quadri alle pareti mostravano corpi di santi colpiti da frecce, cuori trafitti da sette spade, volti di “madonne nere” violentate da un sasso, fanciulle diafane e straziate costrette a trattenere furtive lacrime… immagini oggetto di devozione pietosa, non simulacri…

Il maestro ci fece accomodare intorno ad un pianoforte a coda e fu subito…racconto.

Raccontava la sua vita, lui figlio di un tipografo con la bottega in piazza del Gesù.

Ed ecco la scena madre… così come ricordo ci fu raccontata…

“Avanzavano i nazisti che avevano già distrutto Santa Chiara, la nostra Cattedrale Gotica.

Avanzavano armati e con l’intento di penetrare nel decumano.

Dal Duomo veniva loro incontro una processione di donne che, stringendosi in una falange all’ingresso della strettoia che porta alla piazza, sollevavano il pesante busto di “faccia ingialluta” che solo gli sciocchi credono dorata.

Avanzano i due eserciti… e ora sono solo a pochi passi… Il giallo e terribile volto viene issato…ed i giovani soldati tedeschi sono impietriti, sgomenti, spaventati…indietreggiano, si sparpagliano…scappano per la via nova verso il ponte della sanità!

Vanno via ed il decumano è salvo, è salvo San Lorenzo…è salvo il Duomo.

Napoli passa in mano agli americani.”

“Maestro, dunque lei crede a San Gennaro?” Chiese qualcuno di noi.

“Io sarò forse il più grande devoto di San Gennaro, dopo quello che ho visto da Piazza del Gesù all’età di dieci anni, davanti alla tipografia del mio papà” rispose.

La testimone è una Gatta.

In un cinquecentesco palazzo di un paese della periferia est di Napoli che di chiama Giugliano c’è un palazzo affrescato con splendide grottesche che nascondono fiabeschi racconti.

Lì, nel seicento, nacque lo scrittore e narratore Giovan Battista Basile, che con i cunti ascoltati nelle veglie intorno al fuoco acceso dagli illetterati contadini del sud Italia, allietava e consolava principesche corti, terminando ogni narrazione con una massima, con suoni e con danze.

Lì De Simone ha parlato con Lafforgue della sua “Gatta Cenerentola”, alla presenza di terapeuti ed antropologi, e gli erano intorno narratori di molti paesi, ognuno di loro presentava la propria versione di “Cenerentola “.

La fiaba di Cenerentola infatti, come struttura, è narrata da popoli tra loro lontanissimi (si tratta dell’agnizione di una misera donna riconosciuta alfine dalla comunità come buona bella e saggia)

Erano presenti, con la “loro” cenerentola, una “cunta storie” napoletana, una narratrice rom, un griot africano, una donna di cultura ebraica ed un intellettuale palestinese che, volendo raccontare in arabo, sornione alfine disse “oggi io narro e il maestro De Simone farà il palestinese.” (10).

L’esegesi in una “sacra” rappresentazione.

In quell’occasione De Simone ci ha donato un racconto che si è svolto come una vera e propria “mise en scene”. 

Avendo assistito, la   riporto, si intende con mie parole, e brevi considerazioni in corsivo.

Il maestro comincia ribadendo che la figura del narratore Giovan Battista Basile ha rivestito un carattere tutto particolare perché, con il suo lavoro di “raccoglitore”, un nucleo di racconti di tradizione orale sono venuti per la prima volta a far parte di un assetto letterario che per questo è stato chiamato “Lo cunto de li cunti” (“racconto dei racconti”)

La lingua della raccolta è il napoletano, un dialetto plebeo che si modella verso la lingua italiana conservando nella forma popolare le frasi idiomatiche, le battute salaci, le riflessioni, le considerazioni ed i pensieri che la narrazione genera.

Questa è un’operazione linguisticamente altissima, dice De Simone, celebrata nei riti e nei racconti che parlano della festa popolare, con cui la cultura della piazza reagisce alla censura ed al tragico clima di anatemi e caccia alle streghe messo in atto della Controriforma, allora imperversante. Con lo stesso intento, Rabelais in Francia scrive la sua favola di Gargantuà e Pantagruele. Non è un caso dunque, dice De Simone, che la raccolta cominci narrando di una festa che si svolge nel palazzo del Re, dove la principessa è malata di malinconia, la malinconia essendo uno dei grandi temi della magia cinquecentesca. Da questa tematica, ricorda, non può prescindere nemmeno Seakespere, a partire dalla stessa tragedia dell’eroe Amleto.

Ugualmente la principessa della fiaba ha bisogno di essere guarita dalla malinconia, uno dei temi principali dunque della nuova interpretazione del mondo nel cinquecento europeo.

Poiché la malinconia investe tutto “Lo cunto delli cunti” secondo De Simone ne è consapevole il potere trasgressivo della cultura popolare, che rovescia i canoni della morale, i termini del quotidiano e lo stesso linguaggio.

Egli ricorda che la fiaba di Zezzolla (chiamata nell’opera da lui composta “Gatta Cenerentola”) comincia presentando una serie di “saltinbanchi” che si muovono intorno alla principessa malata di malinconia, senza però riuscire a guarirla.

A questo fine varrà solo il gesto di un’anziana donna che, recatasi ad attingere dell’olio da una fontana di un mondo alla rovescia, nel mostrare i suoi genitali, provocherà il riso liberatorio della principessa.”

(A questo punto De Simone fa alcune osservazioni sul nome della Gatta):

Sottolinea che si chiama Zoza o Zeza, diminutivo di Lucrezia, che vuol dire portatrice di luce.

Perciò Zeza è colei che risplende, in un gioco di verità in cui il femminile guarda a sé stesso ed il maschile guarda a sé stesso.

(Così il maestro guarda alla fiaba popolare come portatrice di un discorso iniziatico che accompagna l’accoglienza nella comunità)

All’inizio di ogni racconto e nella sua “Cenerentola” in particolare, si metaforizza un atto che sembra crudele, ma è la metafora di una necessaria separazione: l’assassinio della “matrigna”.   Questa crudeltà gli pare metafora del taglio del cordone ombelicale, necessario per una sana crescita nel mondo, ma non solo.

Questa metafora, dice, consente l’affido ad un altro personaggio, fondamentale nei racconti di tradizione: il maestro o la maestra che insegna un mestiere.

In “Zezolla-Gatta Cenerentola” è la maestra di cucito.

La cultura popolare, afferma De Simone, capovolge così il mito delle Parche che ordiscono il destino senza che gli uomini ne siano consapevoli.

Anche se il detto dice “pazzo è colui che contrasta con le stelle” il racconto raccomanda che è indispensabile imparare a cucire, consapevolmente.

Ora non è un caso, egli dichiara, che nella fiaba si impari a cucire nel giorno della festa, omettendo il luogo in cui la festa si svolge.

Ovviamente per lui questo luogo è la chiesa, luogo di esposizione da parte delle ragazze allo sguardo maschile: ma l’andare via prima che la festa si concluda è un elemento che la tradizione popolare ribadisce.

De Simone ricorda le parole della fata che dice a Zezolla “tu devi uscire dalla chiesa prima che finisca la messa di mezzogiorno” (nella fiaba diventa, per mascheramento della trasgressione, prima di mezzanotte.) Poi precisa che in chiesa, luogo frequentato da tutta la comunità, va anche il re, ma in chiesa Zezzolla si è velata, rendendo ininfluente lo stigma ed il marchio della sua povertà,è divenuta una persona anche se irriconoscibile, e le è stato donato dalla fata una pianta di dattero…

(A questo punto De Simone si chiede: “Perché il dattero?”)

Una trasgressione ed un sogno che non conosce confini.

(Per rispondere racconta una fiaba da lui raccolta in Calabria, una fiaba che ha molta relazione con il mondo arabo -palestinese ed ebraico e che ha addirittura per protagonista sant’Anna, la madre di Maria).

Ricorda che si parla molto di Sant’Anna nei Vangeli Apocrifi, una fonte straordinaria di fiabe riguardanti il cristianesimo popolare. In essi si dice spesso che Sant’Anna si doleva moltissimo di non poter avere figli perché era già molto anziana ed il marito, Zaccaria, era più anziano di lei.

De Simone rileva che alle donne senza figli era negato l’ingresso al tempio essendo ritenuta da tutta la comunità ebraica una maledizione.

Sant’ Anna, dunque, se ne lamentava sempre nelle sue orazioni dicendo:” Perché non posso avere figli, quale è la mia colpa? Che peccato ho fatto?”

Il musicologo rileva che questo “versetto” è il così detto “recito salmodiante” che si canta in Campania e racconta il dolore di non avere figli con queste parole:” Tutti gli uccelli hanno uccellini, ed io che son donna non li posso avere!” E il racconto continua…

Vergine e madre? Il perdurare di un credo davvero bizzarro.

Sant’Anna, prosegue il racconto, aveva una serva che le consigliò: “Signora, se tu vuoi avere dei figli vai alla festa delle Palme che si svolge (e dice il luogo).

Il maestro spiega che, poiché questa festa non era riportata nell’ortodossia religiosa dell’ebraismo, Sant’Anna deve reagire con le parole

“Ma io sono la moglie del Grande Sacerdote, come posso andare a compiere un rituale che contraddice la religione ufficiale mia e del mio sposo?”

 A questo la serva risponde:

“Eppure, se vuoi avere un figlio devi andare a questa festa e dovrai dire il tuo desiderio sotto un albero di datteri, cioè sotto una palma.”. 

Sant’Anna, guidata dalla serva, si reca alla festa e prega sotto una palma…ed a questo punto dall’alto della palma, ricorda la tradizione popolare, scende un giovane bellissimo che le dona un dattero e le dice:

“Se vuoi avere un figlio mangia questo dattero”.

Sant’Anna si addormenta e …si sveglia nel letto della sua casa, ma…vede che si   è adornata per la festa!

La serva le svela:

“Se non ricordi come sei tornata a casa è perché alla festa sei stata in sogno e nel sogno hai mangiato il dattero, ma da questo frutto avrai una figlia, la vergine Maria”

Così De Simone interpreta il dattero come un elemento arcaico di tipo fecondante. La cultura rinascimentale di Giovan Battista Basile, conclude De Simone, si è impegnata a sostituire all’idea di magia, vista come qualcosa di diabolico che però storicamente produsse l’orrore della caccia alle streghe, una nuova idea da cui non dovrà mai più prescindere il pensiero, di “magia illuminante”, non più peccaminosa, ma benevola, che naturalmente induce l’incontro tra popoli che le religioni ufficiali volevano e vorrebbero incompatibili.

Come dovrebbe risultare chiaro a questo punto, al di là di ogni differenza di lingua, cultura e storia, questi due maestri hanno parlato ed operato per attuare, nella barbara babele contemporanea, un ‘universale orizzonte comunicativo tra i popoli ed il futuro delle loro generazioni.

Note.

  1. In copertina: foto da scena “Memoria e profezia di un popolo alla ricerca del Sacro” in “Mostra d’arte Presepiale”- Chiesa di Santa Marta,25 aprile 2025, per gentile concessione dell’allestitore Enzo Nicolella – Foto di Rino Vellecco.
  2. B.Bettelheim “il mondo incantato” Milano-Feltrinelli-1977.
  3. Pierre Lafforgue “ Pollicino diventerà grande-Racconti che fanno crescere” Ma.Gi.srl 2005-Edizioni scientifiche- Roma. (titolo originale “Petit Poucet deviendra grand” Edizioni Mollat 1995- Bordeaux- France.
  4. Ibid pag. 69
  5. Pierre Lafforgue, neurpsichiatra e psicanalista, vive a Bordeaux dove a lungo ha diretto il centro specializzato nella cura di bambini anche con sindrome autistica. L’ospedale fu da lui fondato nel 1975.
  6. Ibid ,pag 69 -107.
  7. Ibid. pag 15.
  8. L’edizione italiana del volume “Pollicino ecc.” fu curata da Serenella Adamo, Susanna Messeca, Fiorella Pascale, Flavia Portanova (psicoterapeute infantili e socie dell’Aippi)-Annamaria Di Stefano (sociologa cuntastorie)- Rosanna Gentile (psicoterapeuta infantile- socia Is.Te.Ba)- Aldo Parrella-Luisa Russo (neuropsichiatri infantili). Tutti facenti parte dell’associazione Lupus in Fabula.
  9. La delegazione era composta da Susanna Messeca, Annamaria Di Stefano, Aldo Parrella
  10. La conferenza fu organizzata dall’associazione Lupus in Fabula, con il contributo del comune di Giugliano in Campania. nel marzo 2009.
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