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Le promesse mancate del XXI secolo

Il secolo ventunesimo? Claudicante e con lo sguardo rivolto all’indietro

Avrebbe dovuto aprire il terzo millennio. Temporalmente anzi lo ha fatto. Senza tuttavia dare seguito alle promesse del ventesimo secolo, cosa che pure ci si sarebbe aspettato; mettere definitivamente la sordina alle sue paure e sciogliere le vele verso il futuro,  la conoscenza, la virtù, innescando la lunga stagione di un nuovo rinascimento, tutto giocato sulla  creatività, la poesia, la scienza, il dialogo intimo e serrato quanto proficuo tra individui e popoli oltre che tra umanità ed universo.

Gli orizzonti aperti dai “quanti” lasciavano intravedere una realtà variegata e molteplice, intrigante e accattivante, tale da aprire prospettive sconfinate all’azione ed al libero arbitrio dei viventi, alla loro capacità di scelta coerente con il proprio destino, quale Dante lo aveva declinato, facendo cadere finalmente secolari vincoli e barriere frutto di una visione monolitica, rigida e meccanicistica della vita dell’universo ed anche di quella degli uomini e donne nonché dei popoli che tutti li comprendevano,  solo che essi avessero rinunciato all’idea di sopraffarsi reciprocamente e distruggersi anche a vicenda.

Il vuoto creato dalle nefaste conseguenze delle  guerre, frutto avvelenato delle derive razziste che avevano negato l’unicità e la sacralità della specie umana, doveva essere colmato con  un  desiderio di amore e compassione senza limiti e senza riserve.

Le attese dovevano essere anch’esse senza limiti.

L’arte, la letteratura, la musica, rimaste al palo al tempo della  guerra, impaurite e come  folgorate dalle vette raggiunte nei primi decenni del secolo ventesimo, avrebbero ripreso il loro travaglio  ed avrebbero trasferito al nuovo tempo linguaggi, opere, creazioni tali da porre le basi perché  il millennio a venire fosse attraversato dall’Umanità nella pienezza delle proprie capacità. 

Invece il ventunesimo secolo, al termine del primo quarto del suo percorso, è ancora fermo ai blocchi di partenza. Esso mostra addirittura un volto divenuto anonimo, uno sguardo tornato smarrito, un carattere ritrovatosi senza nerbo, una fantasia incomprensibilmente spenta, preda del disincanto, dominio del bieco cinismo ovunque diffusosi, vittima del perverso incrocio dell’avidità  di chi comanda e del tornaconto di chi obbedisce. 

Cosa resta dunque allo scoccare del venticinquesimo anno del nuovo secolo?

Cosa é successo sul piano sociale, su quello politico, su quello degli equilibri di potere puntuale e complessivo, sul piano dei paradigmi economici? Sul piano artistico, letterario? Su quello scientifico anche?

L’impressione è che il secolo attuale avanzi con lo sguardo pervicacemente rivolto all’indietro, prigioniero del secolo ventesimo, o, per meglio dire, di quanti, nati e giunti alla maturità nella seconda metà  del ventesimo secolo, hanno segnato il corso del nuovo secolo sul versante politico, sociale, economico, culturale senza mostrare la benché minima volontà/capacità   di rivoluzionare la realtà o, almeno, abdicare, lasciare il compito agli eredi, e finendo per  affidare alla morte la fine del loro predominio.

D’altronde è più  che legittimo il sospetto che costoro, avendo asservito lo Stato,  o comunque avendo permesso il processo di asservimento di esso agli interessi della finanza e della speculazione,  trasformando ospedali, scuole ed università in aziende, svuotando ogni sapere e cancellando ogni dubbio in favore di prassi  e tecniche mnemoniche funzionali ai processi produttivi, tengano in  ostaggio un tempo storicamente e fisiologicamente ad essi  estraneo.

Il mondo nel primo quarto del ventunesimo secolo è stato, in realtà, largamente dominato da settantenni/ottantenni carenti di ogni slancio vitale.

Vale per lo spettacolo somministrato ad una società anch’essa vecchia e satura di nostalgie.

Vale per la politica ed il potere, dove anche gli esponenti delle nuove generazioni sono epigoni del tempo andato, incapaci di superare una realtà sociale in larga misura castrata, frustrata e privata di ogni capacità critica.

Vale per il cinema, dove il nuovo stenta ad affermarsi al di là di caste, corporazioni e becero intrattenimento.

Vale per l’arte dove non conta la dimensione creativa ma la capacità di sollecitare e solleticare il mercato.

Vale per la letteratura dove i linguaggi sembrano, addirittura, atrofizzati, rassegnati all’avvento di una sorta di esperanto babelico essendo state abbandonate le strade maestre dell’apprendimento linguistico nelle  scuole  e nelle università, sostituite da posticci recinti  di scrittura cosiddetta creativa, ovviamente privati.

Vale per la musica dove lo sperimentalismo è espressione del vuoto che la circonda, proteso a far razzia delle culture  popolari ridotte a folklore quando non è specchio di aberrazioni intrise di esibizionismo becero  e anacronistico distillato di violenza, frutto di maldestre sintesi e improvvisazioni maschiliste destinate a durare lo spazio di un mattino o di una stagione.

Ovviamente lo sguardo coglie i fenomeni generali o di massa, se si vuole, che escludono le eccezioni sicuramente presenti. D’altronde la dimensione, o, se si preferisce anche in questo caso, la grandezza di un popolo è notoriamente data dalla media dei livelli di produzione creativa, organizzazione, conoscenza, non certo dai picchi isolati che non incidono sul contesto  e ne restano comunque avulsi.

Così, a dispetto della definizione di secolo breve, assegnatagli sin dalla fine della seconda guerra mondiale, allorché fu evidente che un’epoca storica si era chiusa ed un’altra si stava  aprendo gravida di promesse, speranze ed anche certezze almeno su ciò che non sarebbe mai più dovuto accadere, il secolo ventesimo, divenuto il Novecento nel linguaggio corrente, é sopravvissuto a sé stesso invadendo gli spazi del ventunesimo secolo.

Lo ha fatto tuttavia sul piano più retrivo, continuando a disseminare, per mano delle oligarchie che lo hanno  occupato, modelli di potere sociale, politico, economico saturi di violenza, ignoranza e rassegnazione, blandendo pavidità e voglia di sopravvivere in quanti popolano il cuore del villaggio globale, generando terrorismi al di fuori di esso e perpetrando genocidi,  violenze liberticide, dittature e guerre in uno con la negazione dei diritti dei popoli e degli individui.

Così, dopo aver tradito le speranze ereditate dai decenni postbellici ed aver voltato le spalle agli orizzonti apertisi con il crollo del muro di Berlino che aveva fatto intravedere il sogno di un mondo nuovo, diverso,  capace di abbattere barriere ed esorcizzare paure in favore della solidarietà umana senza condizioni e vincoli, l’ultimo quarto del ventesimo secolo è andato a saldarsi con il primo quarto del ventunesimo in perfetta continuità, avendo rivelato, in tutta la loro paurosa portata, le derive imperialiste estranee ad ogni ideologia e preda della più  spudorata ambizione di un pugno di plutocrati determinati a dominare il mondo, in ossequio al principio del governo unico planetario ed a dispetto delle sofferenze sin lì accumulate dall’Umanità in ogni dove.

L’avvento del cerbero e la deriva distopica

Nel mondo distopico prossimo venturo riuscirà ERACLE  a catturare il CERBERO prima che il mondo  si trasformi nel regno dei morti?

A gennaio 2025 con  l’insediamento del quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti,  ha preso il via, in un mondo totalmente rovesciato, una sorta di  gara a cercare il nuovo, il rivoluzionario, il sorprendente nel magnate che immagina di essere stato acclamato  monarca d’America piuttosto che eletto presidente degli Stati Uniti d’America.

Da qualche parte addirittura gli si è dato atto  e merito di aver disvelato le ambizioni  oltre che le pratiche di dominio imperiale  degli USA.

Laddove i predecessori facevano e negavano o agivano per interposti soggetti, servizi segreti o addirittura nazioni alleate, egli rivendica il proprio diritto a fare grande l’America a dispetto e discapito degli altri.

E tuttavia il disvelamento della natura imperialista degli  USA non può essere l’aspetto più  rilevante, quasi rivoluzionario addirittura, del secolo, scintillante di venature meritorie, perfino.

É pur vero che la vocazione imperialista americana regna da vecchia data. I misfatti in Vietnam fan  parte della memoria collettiva del mondo intero. Ma anche i golpe in America Latina con il Cile ed il colpo di stato contro Salvator Allende su tutti. E poi il Medio Oriente e lo scempio di Baghdad con le bugie sulle armi chimiche e quindi l’Afghanistan…

Ma l’America, al pari di tutto il mondo occidentale che aveva vissuto la tragedia del nazismo e del fascismo, aveva sviluppato degli anticorpi potenti.

I primi contestatori del  governo americano  erano i cittadini americani.

Era in  America che nascevano le manifestazioni oceaniche che poi tracimavano  in Europa e nel mondo intero. Eravamo tutti anti americani ma tutti avevamo coscienza di avere nell’America la sponda più solida proprio quando bisognava scendere in piazza a difesa della libertà e contro le politiche imperialiste americane.

La Costituzione  Americana,  che nella sua formulazione aveva accolto il pensiero del giurista napoletano Gaetano Filangieri sul dovere degli Stati di fissare quale loro obiettivo la felicità dei propri cittadini, era uno scudo potente, invincibile come quello di Achille contro ogni deriva liberticida mentre l’animo dei giovani americani era intriso della compassione universale di Ettore.

Quindi la arrogante decisione del presidente/monarca di affermare “apertis  verbis” la sua volontà di fare esercizio di violenta persuasione o di guerresca rapina tout-court contro quanti si troveranno di traverso sulla sua strada non merita l’onore del riconoscimento di una qualche meritoria “sincerità”. Essa non annullerà il baratro delle responsabilità liberticide né concederà ai popoli interessati qualche possibilità di sottrarvisi o di proteggersi e tanto meno indurrà alla ragione il magnate o sovrano che l’ha formulata rivendicando a sé il diritto divino ad annettere, comprare, occupare, conquistare tutto quel che gli viene in mente, esattamente  come nella scena del mappamondo del Grande Dittatore di Charlie Chaplin.

Se mai è un avvertimento. L’avvertimento del potente che piega la forza dello Stato che ha conquistato, lo Stato più potente del mondo, alle sue pulsioni offrendo ai malcapitati l’alternativa di piegarsi al suo volere onde evitare di assaggiare le randellate del suo  bastone.

Quel che caratterizza il  nuovo  tempo occidentale è l’assenza  degli anticorpi nel popolo che  acclama i suoi governanti allo stesso modo in cui gli israeliti acclamavano Barabba. Il fatto, questo, si, straordinario,  è che il Paese campione dell’Occidente contemporaneo, il Paese che ha sconfitto il nazi-fascismo, possa  sfidare il mondo, la storia, il pianeta e  l’Umanità, affermando impunemente, per bocca del suo imperterrito presidente-magnate-oligarca-monarca che dio é dalla sua parte anche quando promette di prendersi Panama, il Canada e la Groenlandia, rinominare  il golfo del Messico in Golfo d’America, e annuncia le deportazioni di milioni di malcapitati stranieri, irregolari, migranti, perseguitati, sfruttati e morti di fame. E tutto ciò senza che si sollevi la marea  della coscienza civile dell’America e non si manifesti la reazione del mondo intero.

Perché la coscienza del mondo, che include quella americana, da molto tempo ormai è stata tacitata, rimossa.

Il mondo resta  immobile davanti all’arroganza di un neopresidente inutilmente gravato, come i signori medievali,  di una condanna penale.  Tende l’orecchio a cogliere l’ossequio  rivolto al  gotha degli oligarchi che lo attorniano, osserva curioso, forse entusiasta,  il saluto romano o nazional-fascista  del suo oligarca più  influente, e, inconsciamente, contempla sé stesso ridotto ad un corpo orbo di ogni spirito ribelle.

Dal canto loro gli altri vertici della triade mondiale  che  promette, novello Cerbero,  di addomesticare il mondo, attendono frementi. Tutte le guerre saranno chiuse perché ciascuno combatta impunemente le sue.

Poi i dazi commerciali faranno il resto. I dazi selettivi che premieranno qualcuno e puniranno qualche altro.  Le  quotazioni speculative delle  materie prime energetiche e non che arricchiranno alcuni e impoveriranno tutti gli altri. Gli scudi stellari che copriranno le nazioni amiche e  potranno essere accesi e spenti in ossequio ai superiori interessi della triade ed in ottemperanza alla decisione di abbattere i recalcitranti e mantenere l’ordine mondiale. Senza  che gli anticorpi accendano la protesta e innalzino, come la luna piena,  la marea oceanica a cui pure l’America e l’Occidente avevano abituato il mondo. O magari succederà il contrario, finalmente… come sperano gli ultimi resistenti e quanti fanno ancora tifo per l’Umanità.

Su tutto alla fine del primo quarto del secolo ventunesimo, primo del terzo millennio della nuova storia, regna la volontà di un  monarca, il primo della storia americana, eletto dal popolo oltre la democrazia.

Egli ha consacrato, con gli oligarchi che lo attorniano, gli USA quale testa del digrignante Cerbero iper capitalista che domina il pianeta.

Le altre due teste essendo quelle che fan capo alla Russia di un autocrate sopravvissuto all’ex KGB Sovietico ed alla Cina, residuale epigono del comunismo anch’esso convertito all’ipercapitalismo. 

Nella ex URSS si  guarderà con tranquilla pazienza all’Est Europeo ed alle sponde  del Mar Baltico, in Cina al  Mar Cinese Meridionale ed a Taiwan oltre che alla normalizzazione delle aspirazioni indipendentiste che fremono dentro ed ai margini dei suoi confini

Le tre teste del Cerbero, insieme, imporranno il loro potere al mondo,  libere di aggredire con l’unica condizione di non azzannarsi a vicenda, pur coltivando in fondo all’animo una grande voglia  di sopraffarsi reciprocamente inseguendo il sogno di rimanere da soli a comandare.

Perché la metastasi  dell’iper capitalismo oggi segna il mondo, dovunque. Essa non solo ha distrutto il capitalismo, un tempo motore del progresso dei popoli, ma ha diffuso le sue terribili degenerazioni anche in quel che resta del mondo comunista, in Cina, avendo già impregnato di sé i  regimi  dittatoriali-sovranisti, Russia in testa.

E tuttavia vi è una differenza abissale quanto paradossale tra USA, CINA  e RUSSIA. E tutta a sfavore degli USA

Gli autocrati russo e cinese controllano i loro oligarchi i quali si configurano comunque come escrescenze, sia pure aberranti,  dello stato e creature devote  dell’indiscusso capo al quale devono cieca obbedienza.

Il monarca americano, al contrario, non controlla i suoi oligarchi ma ne è controllato.

In un contesto siffatto  l’Europa, priva di un’identità  statuale federata, si trova alla mercé di chi, tra le teste del cerbero,  rovistando di qua e di là, se ne vorrà impadronire, magari adescando i governi nazionali pronti a scegliere in funzione delle proprie simpatie o interessi  personali o del gruppo di potere, essendo scomparsa ogni ambizione di rappresentare lo Stato e perseguire  la felicità dei popoli che lo sostanziano.

Si tratta del vortice di un mondo distopico che ha preso a vorticare senza freni e che promette di non fermarsi più mettendo fine all’ormai inutile rituale delle elezioni democratiche.

Ma tale asserzione avrà bisogno di essere sostenuta con altri probanti ragionamenti.

En passant basta osservare, in questo momento, quel che si sta muovendo nel mondo per farsene un’idea. Una triste idea. Sperando che gli anticorpi si siano solo nascosti e che prima o poi la marea della ribellione torni a montare magari annullando ogni idea triste.

Le speranze del ventesimo secolo

L’Umanità l’aveva scampata bella nel secolo scorso.

La deriva nazi-fascista era stata lì lì per sopraffare il mondo e ci erano voluti più o meno vent’anni di  clandestina opposizione/resistenza/presa di coscienza, sei  anni di guerra conclamata, intere nazioni distrutte, decine e decine di milioni di  morti, l’orrore della guerra nucleare, per venirne a capo. 

Poi negli anni cinquanta, messasi alle spalle la paura, il Novecento era stato protagonista della esplosione  di una nuova incontenibile voglia di riscattarsi, di correre verso lo sviluppo, la ricchezza, la felicità, la conoscenza e la cultura. La libertà in una parola. Di modo che  il secolo ventesimo sembrò addirittura anzi tempo destinato a finire suo malgrado per lasciare spazio al corso o alla corsa del secolo a venire, scevro degli orrori e degli errori che avevano segnato quello che era ancora in cammino.

L’attesa del ventunesimo secolo divenne spasmodica tanto da ingenerare l’idea di anticiparne l’avvento con il ripudio delle dittature, dei regimi, delle guerre, con l’affermazione della solidarietà tra i popoli e gli individui e la costruzione di nuovi equilibri mondiali.

I grandi raduni dei giovani negavano ogni deriva violenta in qualsiasi parte della Terra.

I ragazzi e le ragazze la facevano da padrone, nelle scuole e nelle università, i lavoratori e le lavoratrici presidiavano  piazze e  fabbriche e tutti  si dichiaravano fratelli e sorelle ovunque ed a prescindere. A prescindere dalla cultura, dalla religione, dal sesso, dal colore della pelle, dalla storia, dalla geografia, dai regimi politici, dalla democrazia, dal comunismo e dal capitalismo. L’internazionalismo della musica, della poesia e della letteratura, della fratellanza e della sorellanza aveva preso ad attraversare il mondo. Addirittura la povertà sembrava destinata a scomparire, sconfitta dalla solidarietà, dalla corsa allo sviluppo ovunque innescata contro la fame e per l’inclusione di popoli ed individui dispersi sin nelle regioni più estreme della terra.

Menestrelli, aedi e poeti, musicisti e viaggiatori, imprenditori, tecnici e operai si muovevano ovunque a loro agio, lasciavano i loro luoghi di origine per percorrere il mondo e seminare ovunque idee di bellezza, di integrazione e di crescita.

La parola d’ordine era “felicità” per tutta intera l’umanità. Le idee di Gaetano Filangieri sull’azione  degli Stati rivolta a ricercare la felicità dei propri cittadini da Napoli avevano illustrato l’illuminismo europeo sino ad ispirare lo stesso  Benjamin Franklin  nella  stesura della Costituzione degli Stati Uniti d’America.

L’idea della felicità individuale e collettiva aveva pervaso la coscienza collettiva di tutta intera l’Umanità, o almeno della parte più sensibile ed evoluta di essa, al di là di ogni barriera.

Laddove il comunismo aveva rivelato il  suo lato oscuro si attendeva come necessario il suo crollo. Gorbachev era diventato il profeta della saldatura dell’URSS con l’Occidente ed i giovani,  i dissidenti ed intellettuali sovietici erano pronti a correre incontro ai loro simili che giungevano d’oltre cortina.

Laddove il capitalismo aveva dato vita a degenerazioni neocoloniali o addirittura liberticide, si ergeva la condanna unanime dei giovani e meno giovani che scendevano in piazza sino a costringere l’America a lasciare la presa sul Vietnam ed ovunque la libertà era  stata violata, dal Sud America all’Europa, all’Africa, al Vicino e Medio Oriente.

I ragazzi e le ragazze nate dopo la guerra, frutto dell’eruzione demografica conseguenza della straordinaria voglia di vivere dei loro padri e madri che avevano dovuto attraversare gli orrori di una guerra nefasta e  subire le violenze, le tragedie, le privazioni che quella guerra aveva reso inevitabili, avevano preso a correre con il vento ed i fiori  tra i capelli, a studiare, a crescere, lavorare, ad amare senza limiti. Da San Francisco a Woodstock, da Firenze  all’isola di Wight.

Vi era la certezza che gli orrori buttati dietro alle spalle dai loro genitori non sarebbero stati  mai più ricreati.

Il cinema, il teatro, la letteratura, la musica, l’arte, la scienza ne evocavano la portata e la dimensione catartica. 

Sembrava che ogni traguardo fosse alla  portata dell’umanità scampata al pericolo del nazi-fascismo. I traguardi di liberazione dagli stereotipi, dai conformismi, dalle sopraffazioni, erano alla portata di ogni popolo  e di tutti gli individui.

Anche i muri, sia quelli fisici che avevano diviso in due Berlino, che  quelli metaforici che avevano separato Occidente ed Oriente, Nord e Sud, libertà e prevaricazione, venivano considerati accidenti  temporanei destinati a crollare, svanire.

E gli studenti e gli operai, le studentesse e le operaie,  erano comunque pronte a sfidare ogni potere ed  a combattere ogni aberrazione.

L’invasione sovietica dell’Ungheria e poi quella della Cecoslovacchia avevano suscitato un sacro furore ovunque e la certezza che anche da quelle parti la libertà avrebbe trionfato.

A Praga, dopo il rogo di Jan Palach, i ragazzi, sull’isola di Kampa a due passi dal Ponte Carlo, avevano preso a dipingere il Muro di John Lennon riempiendolo di graffiti, di colori, di immagini e di messaggi tutti protesi in quella direzione.

Milan Kundera aveva portato in Europa le sofferenze e le attese di quei ragazzi.

Bohumil Hrabal era rimasto  a tenere accesa la protesta e la ribellione di quegli stessi ragazzi e di tutto intero il popolo cecoslovacco in casa propria ed ovunque.

Dall’Ungheria alla Germania est, dalla (allora) Cecoslovacchia alla Russia quei ragazzi avevano preso a tessere la loro libertà in vista della liberazione universale.

In Asia, dalla Cina al Vietnam, cresceva un fermento irrefrenabile verso il riscatto.

Le ultime roccaforti fasciste in Europa crollavano con la rivoluzione dei garofani in Portogallo e con un paziente lavoro di intarsio tra libertà e democrazia in Spagna.

Anche le dittature sudamericane, frutti tardivi ed avvelenati di un capitalismo affetto da devianze  degenerate, ottuse e retrograde, vivevano in uno stato di totale isolamento nell’opinione dei popoli di tutto il  mondo.

La corsa verso il futuro appariva sempre più inarrestabile.

Anche la  lotta alla fame nel mondo non conosceva quartiere.

La musica popolare, dal canto suo, abbatteva ogni frontiera.

La poesia e la letteratura d’avanguardia non conoscevano limiti, sulla strada e nelle metropoli, al centro e nella periferia.

Dall’America Latina agli  USA, dalla Russia all’Europa era una fioritura impetuosa.

Essa si manifestava come una primavera planetaria che non poteva essere fermata mentre il volto truce di dittature sopravvissute  o redivive continuava a manifestarsi come residuo nefasto  di una peste condannata dalla stessa storia.

La metastasi finanziaria dell’Ipercapitalismo

Ma i magnati della finanza mondiale, affermatasi intanto come metastasi del capitalismo deviato, tessevano in silenzio la loro tela.

Da lì in avanti e sino ai giorni nostri la  speculazione prese ad usare le materie prime energetiche come esplosivo e le guerre, e persino il terrorismo, come detonatori per incendiare il mondo ed accumulare ricchezze esorbitanti, ingrassate  anche dai proventi degli oligopoli sulle tecnologie, le reti, le connessioni e gli algoritmi che oggi avvolgono il mondo intero  in una melassa dolciastra e  soporifera che accoglie come verità ogni falsità e condiziona o compromette il confronto oltre che l’azione sul destino dei popoli e delle nazioni.

La speculazione aveva fissato nel controllo delle risorse planetarie  e nel potere finanziario che ne scaturiva  ad onta di ogni confine statuale, geografico, ideologico, il suo incontestabile punto di forza. Il gotha dei plutocrati non solo competeva con gli Stati, anche i più potenti, in termini di ricchezza e di forza, ma si poneva  come contraltare se non addirittura come patron sia nei confronti degli stati minori che di quelli di rilievo continentale. I debiti sovrani trasformati in macigni insostenibili per gli Stati  e per il mondo intero  erano diventati la corda al collo stretta dall’ipercapitalismo di marca mondiale. La faccenda non riguardava poche eccezioni, come l’Italia arrivata ad accumulare un debito che tuttora la schiaccia.  L’intera Europa, Germania e Francia comprese , sono diventate o sono destinate a diventare preda del carico oneroso immaginato a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso  dalla finanza internazionale che controllava flussi, tassi di interesse e massa monetaria avendone sottratto la titolarità naturale agli Stati e Nazioni, naturali aggregazioni dei popoli.

Fu facile profeta Keynes nel preconizzare questa deriva allorché proprio gli USA imposero a Breton Woods, a guerra ancora aperta, il dollaro come moneta di regolazione degli scambi internazionali rigettando la proposta dello stesso Keynes di una moneta neutra e terza (il Bancor) controllata dagli Organismi internazionali che pure furono creati (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) assoggettandoli tuttavia al potere del dollaro. Quel che nemmeno i Governanti Americani avevano immaginato e che si sarebbe manifestato come un vero e proprio contrappasso della nemesi storica o divina, fu la progressiva concentrazione del potere finanziario in mani private con la conseguente deriva speculativa che, oggi,  tiene sotto scacco il mondo intero gravato da un debito di oltre 300 mila miliardi di dollari ( 440 mila miliardi nel 2050, secondo il Global Debt Monitor dell’Institute of International  Finance).

L’imperialismo con le sue scelte scellerate di potenza globale ripiegata su sé stessa, aveva generato l’ircocervo incontrollabile, l’ipercapitalismo, ossia il contro potere privato, imperialista e globale anch’esso ma privo di patria e ideologia che avrebbe dissolto le speranze e distrutto i sogni del secondo Novecento. Esso oggi più  che mai usa la leva del debito come fonte della sua potenza e come minaccia verso il mondo intero o i singoli Stati laddove l’uno e gli altri diventino recalcitranti/indisciplinati/scialacquatori/cicale o semplicemente rivendichino la loro autonomia. Esempi di tale corto circuito ve ne sono a volontà e più o meno eclatanti a cominciare dalle vicende vissute negli anni più recenti dai cosiddetti Paesi  PIGS, Portogallo-Italia-Grecia-Spagna a cui furono aggiunti Irlanda e Gran Bretagna  con la Grecia divenuta, solo qualche anno addietro, destinataria di una “punizione/trattamento”  esemplare con l’Italia assurta alla condizione di costante osservata speciale. Le privatizzazioni e le facili acquisizioni degli assi industriali, tecnologici, logistici e patrimoniali nazionali ne erano il corollario obbligato quanto naturale.

Il divorzio delle Banche Centrali  dalle Autorità  Governative e la nascita dei debiti sovrani

Alla base dell’offensiva dello strapotere della finanza plutocratica ed iper capitalistica vi fu la separazione delle Banche Centrali dai governi degli Stati di appartenenza.

Risale fondamentalmente a quella decisione compiutasi negli anni ottanta del ventesimo secolo  l’origine degli indebitamenti abnormi degli Stati. In quegli anni venne teorizzata e praticata l’autonomia/indipendenza ( il cosiddetto divorzio)  delle Banche Centrali dai Governi Nazionali. Per controllare l’inflazione galoppante, ovviamente, fu la motivazione. Gli Stati acconsentirono e, di conseguenza, si videro costretti ad approvvigionarsi, per il fabbisogno necessario agli investimenti strutturali non coperti dalle entrate tributarie, sul “mercato” che era per definizione privato, non potendo essi ormai disporre del controllo sulla massa monetaria attraverso l’emissione dei titoli del debito pubblico che, prima del divorzio, erano acquisiti dalla banca centrale per finanziare il fabbisogno statale.

Il controllo del mercato finanziario da parte di un ristretto numero di potentati fece il resto. Essi presero a distribuire pagelle e dare i voti agli Stati fissando regole e politiche da seguire per rientrare negli standard voluti. Gli interessi sul debito ( e la  vendita del patrimonio delle nazioni indebitate) andarono ad affiancare ed ingrassare  la speculazione finanziaria che già controllava le materie prime del mondo ed i servizi tecnologici, a partire da quelli per le connessioni planetarie,  nel frattempo impostesi come le nuove  frontiere del dominio del mondo anche dal punto di vista militare.

Il controllo dei debiti sovrani e la salvaguardia della fonte finanziaria dell’iper capitalismo impone  ovviamente anche la necessità di mettere in condizione gli Stati di onorare i propri impegni mantenendoli al di qua di pericolose derive fallimentari.

Tutto si scaricava sulla popolazione che dai traguardi di progresso sarebbe stata gradualmente traghettata sulla spiaggia della indigenza e della  sopravvivenza. La necessità di mettere in atto delle politiche di alleggerimento del debito pubblico attraverso l’inflazione che ne riduce il peso reale lasciando immutata la consistenza nominale, era la strada maestra con evidenti ripercussioni negative sui singoli cittadini e sui popoli nella loro interezza.

Il rapporto percentuale con il PIL avrebbe fatto meno paura. Ma bisognava sterilizzare l’inflazione per favorire l’alleggerimento dei conti pubblici provocando nel contempo un’erosione evidente e consistente dei redditi dei cittadini onde evitare la spirale “perversa” dell’inseguimento tra prezzi, salari e stipendi. L’aumento dei tassi di interesse, dei prezzi e tariffe spinti all’insù dalla speculazione interna ed internazionale rispondevano alla bisogna.

Si aveva in questo modo, da una parte la dilatazione della ricchezza finanziaria e dall’altro l’impoverimento dei cittadini gravati della progressiva inarrestabile decurtazione del loro  potere di acquisto. I debiti cosiddetti sovrani, in quanto pubblici, avrebbero conosciuto un alleggerimento  in assenza di risorse da destinate al ripristino del potere d’acquisto dei cittadini e, di conseguenza, sarebbero risultati  più sostenibili e meglio gestibili dal “mercato”.

La fonte di implementazione della plutocrazia mondiale era così blindata grazie ai flussi degli interessi sui debiti pubblici che continueranno a  gonfiare i super profitti di azionisti ed oligarchi in uno con gli aumenti delle tariffe, dei mutui e dei prezzi di ogni servizio e  bene di consumo. Il paradigma è tuttora  funzionale  e destinato ad essere perfettamente declinato nel futuro.

La deriva sociale

Si sono dilatati così a dismisura i confini della povertà e, con essa, l’esigenza di gestire il disagio dei popoli, come sta avvenendo esemplarmente nel caso  Italiano. La risposta tuttavia non è un nuovo Stato Sociale ma la creazione di un  sistema assistenzialistico centrato su bonus, prebende, complicità sulle evasioni fiscali se non addirittura sulla loro incentivazione  sino al muto incoraggiamento del lavoro nero che aumenta i redditi personali senza negare il diritto all’ assistenzialismo.

Intanto cresce a vista d’occhio la platea dei nuovi poveri che si adattano a questa nuova situazione in cui deresponsabilizzazione e diritto ad essere assistiti fanno tutt’uno.

Chi soffrirà sono i percettori di redditi più o meno ancora consistenti ( quelli che un tempo si identificavano con la classe operaia e il ceto medio e medio-alto) divenuti oggetto di prelievo per alimentare le nuove politiche speculative (in Italia il  30% dei cittadini paga il 70% dell’IRPEF al netto ovviamente di ogni agevolazione ad essi negata). È facilmente ipotizzabile che quelle andranno  avanti finché le riserve del salvadanaio dello stato assistenziale ( la risicata percentuale di chi paga le tasse) non saranno prosciugate ed i redditi degli “abbienti” saranno divenuti anch’essi deficitari grazie all’inflazione nascosta e non compensata.

Le negative e talora violente derive sociali che stiamo vivendo, le Rappresentanze Politiche raffazzonate, l’impoverimento culturale, la devastazione della responsabilità civica e civile, l’astensionismo elettorale, la prevaricazione dell’ignoranza assurta a demiurgo della nuova dimensione distopica sono tutte lì. Con buona pace di quanti pensano che da un giorno all’altro le cose torneranno a posto.

Il governo unico del mondo

Il Club Bilderbeg che in passato aveva riunito in segreto i potenti del mondo che teorizzavano nel chiuso di spazi esclusivi ed inaccessibili il governo unico del mondo, prese a declinare i suoi decaloghi sulle montagne svizzere, a Davos, coram populo.

Preparava così quel governo unico del mondo al di fuori dei consessi istituzionali internazionali, in ossequio alla  potenza della ricchezza privata assurta a contraltare dei pubblico potere.

Avanzava, parallelamente,  l’idea del  villaggio globale contrabbandato presso i popoli e le genti della terra come frutto della consapevolezza che l’Umanità fosse una e indivisibile ovunque essa vivesse prima che rivelasse la sua natura avvelenata, sapientemente costruita dai pianificatori di Bilderbeg in  conseguenza della   privatizzazione delle  funzioni pubbliche  ormai proclamata in ogni dove come la panacea di tutti i mali. Tramontavano così le pratiche della programmazione e  la scienza di politica economica, insegnata da John Mainard  Keynes e da John Kenneth Galbraith nel mondo anglosassone  e da Federico Caffè  in Italia, scompariva,  mentre i bilanci dello stato finivano di essere l’atto supremo di assunzione degli obiettivi e delle responsabilità delle nazioni per diventare asettico documento contabile funzionale agli interessi dei governanti più che degli stessi governi mentre i Parlamenti venivano totalmente ignorati ed emarginati.

Cadevano anche, una ad una, tra il disinteresse generale e quasi come un fatto necessario, le remore  alla privatizzazione ed all’abbattimento delle frontiere nazionali o continentali.

L’ONU che era rinato sulle ceneri della defunta Società delle Nazioni a garanzia della pace mondiale e dello sviluppo dei popoli dimenticati, rivelò  la sua intrinseca natura di Ente privo di ogni autonoma capacità decisionale oltre che operativa.

Gli Organismi internazionali  anch’essi moltiplicatisi  per combattere la povertà, le malattie e l’ignoranza caddero vittime dello strapotere della finanza e della speculazione che ridussero alla propria mercé  anche le attività filantropiche e benefiche di valenza mondiale. Anche gli organismi giudiziari internazionali avrebbero preso a sperimentare lo stesso fenomeno tra le prove di forza e il disconoscimento dei potenti che, impunemente, si macchiavano di reati e genocidi contro i popoli e tutta intera l’Umanità.

In Europa dove era nata la prima Comunità degli Stati Europei con l’ambizione di portare all’integrazione e quindi all’unità politica, economica, sociale, il vecchio continente, il processo sembrava essersi fermato bloccato sui miopi, egoistici interessi nazionali e sui vecchi paradigmi produttivi ormai superati dalle tecnologie e dalla storia. Altrove si mettevano a punto le tecnologie cibernetiche e di sicurezza (o dominio ) dello spazio, qui si continuava a ragionare di automobili. L’ identità culturale europea che aveva da sempre contraddistinto il vecchio continente grazie alla civiltà ereditata direttamente da Roma  e dalla Grecia e che era stata intelligentemente filtrata dal cristianesimo che quell’unità  aveva lasciato sedimentare ovunque, ad Oriente e ad Occidente, a Sud ed a Nord, per l’opera del monachesimo, sembrava appannata se non del tutto compromessa. La capacità  di disseminare progresso, fede e voglia di riscatto manifestatasi in un crescendo che non aveva mai conosciuto soste, sembrava esaurita, sopraffatta dalla corsa verso il nulla come se il tempo stesse  nuovamente correndo, come nell’alto Medo Evo,  verso il compimento di un nuovo millennio apocalittico proteso verso la fine del mondo ma, questa volta, senza alcuna attesa del  ritorno in terra del Giudice Supremo per il Giudizio Universale il quale era stato, inesorabilmente quanto spudoratamente, sostituito dai demiurgi dell’iper capitalismo finanziario calato sul mondo intero come una cappa al di là di ogni ideologia e regime politico-istituzionale.

La fine dell’effervescenza creativa e sociale del ventesimo secolo

Gli anni sessanta e gli anni settanta del ventesimo secolo erano stati gli anni della ricostruzione e della ritrovata libertà: la libertà dalla miseria e dall’ignoranza, dall’oppressione e dall’odio.

La letteratura celebrava quella stagione producendo capolavori e moltiplicando i grandi scrittori che come giganti si innalzavano nel cielo  del pianeta. Accanto ad Ernest Hemingway, giungevano Gabriel Garcia Marquez,  Italo Calvino, Elsa Morante, Irene Nemiroski, Virginia Wolf, José Saramago, José Louis Borges, Pablo Neruda, Milan Kundera, Bohumil Hrabal e una schiera di scrittori e scrittrici di prima grandezza ovunque affermatisi.

La musica inanellava  generi e creava musicisti che fondevano l’anima popolare con l’anima colta, la prosa dialogava con la poesia. Morricone, Bob Dylan e Joan Baez mostravano territori sin lì inimmaginabili.

Il teatro si immergeva nella tragedia greca per uscirne con proposte rivoluzionarie che la comprendevano superandola tuttavia e dando all’umanità intera chiavi di interpretazione e di lettura su se stessa intense e strabilianti, legate al dramma della vita, alla scoperta dell’anima, alla dimensione sociale, alla condanna delle aberrazioni del potere comunque ed ovunque quello fosse declinato. Dai drammaturghi rivoluzionari dell’URSS a quelli dell’Est Europa, ai drammaturghi europei ed occidentali, era un ribollire impressionante per estensione e grandezza.

Il cinema a sua volta aveva mostrato al mondo la vita reale, il sogno, il desiderio e le aspirazione di popoli che avevano subito l’oltraggio del massacro, del genocidio, della negazione della stessa vita, uscendone fuori, suturando ferite ed aprendo spazi al sogno ed alla futura irrinunciabile consapevolezza di sé.

Nulla sembrava impossibile all’alba della nuova umanità decisa a percorrere la strada della solidarietà e della compassione fino a creare un mondo senza limiti, confini e barriere dove la fame sarebbe stata bandita insieme alla violenza, alla povertà, all’ignoranza, alla malattia, all’intolleranza.

In America intellettuali e politici indicavano la nuova frontiera come traguardo.

Il Mediterraneo univa  Europa, Africa e Vicino/Medio Oriente mettendo in crisi le sette sorelle del gas e del petrolio in vista di un comune destino di cooperazione, di pace e progresso.

L’Asia sperimentava un suo irrinunciabile percorso di rinnovamento.

La Cina aveva intrapreso la grande marcia e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche mostrava, pur tra  le rigidità del regime, conati di libertà di portata rivoluzionaria affidati ad intellettuali, drammaturghi, musicisti, e giovani che entusiasmavano quanti in Occidente avevano ancora ben presente la fatica di liberarsi delle dittature.

Ancora alla vigilia dell’ultimo quarto di secolo, il novecento sembrava correre con impeto rivoluzionario e sacro furore verso il secolo ventunesimo. Le profezie bibliche sembravano tornare attuali laddove un tempo, avevano indicato l’arrivo di una stagione in cui latte e miele sarebbero tornati a scorrere come fiumi tra gli uomini e la libertà  avrebbe ovunque trionfato.

Raduni oceanici celebravano questa speranza del mondo e nel mondo. L’alleanza tra lavoratori e intellettuali che i sociologi ed i politici più  avveduti codificarono come avvento dei ceti produttivi,  era la piattaforma su cui l’umanità cercava il riscatto e la liberazione, allargando progressivamente gli spazi di partecipazione.

Il miraggio di una società priva di classi contrapposte, coesa e capace di solidarietà sembrava essere lì pronto a concretizzarsi.

La società civile, come prese ad essere definito il nuovo mix delle variegate realtà sociali occidentali che si proponevano come modello al mondo e come prospettiva ai popoli ancora prigionieri di dittature, marciava compatta verso la conquista di nuove libertà che negassero definitivamente tutte le schiavitù materiali e spirituali cui l’Umanità aveva dovuto sottostare nella sua storia antica e recente.

Lo sviluppo economico correva a grandi falcate.

Popoli e nazioni sin lì escluse venivano coinvolte sempre di più.

Il decadimento  della memoria

I consumi crescevano ed il benessere anche, con la diffusione della civiltà industriale.

I popoli erano entusiasti. Quanti, da ragazzi, avevano raggiunto i lontani  luoghi di raduni in autostop o con mezzi di fortuna, avevano preso a viaggiare in auto, in treno ed in aereo. La povertà, gli stenti erano un ricordo da smaltire in discarica onde esorcizzarne una volta per tutte  le gratuite sofferenze per i propri  figli e le nuove generazioni.

Le vecchie generazioni che avevano sognato l’abbattimento dei muri, un’umanità unica, la fratellanza e la sorellanza universali, si ritrovarono, quasi inconsapevolmente, prigionieri del consumismo.

Avevano portato con sé picconi e badili per abbattere il muro di Berlino.

A Firenze avevano portato amore e dedizione per liberarla dalla terribile alluvione che l’aveva ricoperta di fango.

Negli anni della dittatura cilena avevano ospitato gli Inti Illimani ed avevano ballato il sirtaki contro i colonnelli greci.

Avevano pianto e cantato con le madri di Plaza de Maio a Buenos Aires ed avevano invaso Pietroburgo e Berlino, Praga e Budapest per affermare la nuova umanità.

Ma poi, passo dopo passo, avevano finito per sposare il benessere fatto di consumismo senza limiti e misura ed avevano preso a difendere il loro piccoli o grandi privilegi come una  conquista irrinunciabile.

E presero a guardare con diffidenza quanti erano rimasti indietro.

Il ricordo del nazismo, del fascismo, dei campi di concentramento prese a sbiadire, affidato a qualche riquadro nei nuovi libri di storia che intanto registravano amnesie e revisioni sempre più  azzardate. Anche i racconti di superstiti con il passare del tempo divennero  sempre più radi.

Negli anni sessanta in piena corsa verso il progresso, John Kennet Galbraith scrisse un libro, “la Società Opulenta”. Metteva in evidenza i rischi che quella società, preda del desiderio di ricchezza, ormai stava correndo. Il Consumismo l’avrebbe uccisa, aveva avvertito.

Ancor prima, sul limitare della vittoria alleata nella seconda guerra mondiale, John Maynard Keynes  mise in guardia i vincitori contro la volontà  di  dominio e prevaricazione  e raccomandò solidarietà e coesione come binari per il progresso di tutti i popoli e non di una sola parte di essi ed in essi. Propose anche dei meccanismi tecnici, in particolare una moneta internazionale neutra che difendesse l’umanità dalla speculazione. Federico Caffè ammoniva i governanti a guardare gli ultimi e ad adoperarsi per la Felicità del popolo minuto.

I potenti non ascoltarono Keynes. I popoli non ascoltarono Galbraith. I governi ignorarono Caffè.

La profezia di Albert Camus che a ridosso della fine della guerra, nel suo “L’homme révolté”, aveva indicato nel senso del limite e della misura radicati nella cultura greca ereditata dal Mediterraneo, l’antidoto contro la frenesia da sviluppo della Germania e del Nord Europa, rimase irrealizzata.

Il tramonto del  Mediterraneo ed il trionfo dell’Ipercapitalismo

Il Mediterraneo venne ridotto a mare residuale buono a controllare i tre continenti che su di esso si affacciavano mentre i suoi popoli vennero abbandonati ad un destino di arretratezza e di endemico sottosviluppo e costretti a scappare incappando nella tagliola delle traversate desertiche prima di affrontare il pietoso Mare trasformatosi da epicentro della civiltà in sudario dell’Umanità errante.

Nel contempo il Capitalismo che nella guerra senza quartiere contro il nazi-fascismo aveva mostrato il suo volto migliore, venne sopraffatto dall’arroganza della  speculazione e dall’aggressività della finanza che puntava ad accumulare  ricchezza per pochi privilegiati ed a diffondere povertà per tutti gli altri.

L’Iper capitalismo, metastasi degenerativa del capitalismo teorizzato e descritto da Smith, e da Ricardo, che  qualcuno aveva ironicamente o speranzosamente denominato turbo capitalismo, aveva vinto su tutta la linea.

Aveva predicato il sogno del benessere e rese gli uomini schiavi del consumismo, trasformandoli in suoi complici e  cancellando le culture dei popoli in favore di un conformismo dilagante ed uniforme che avrebbe invaso in tempi rapidi l’intero pianeta senza distinzione di popoli e nazioni e instillando nei suoi adepti la paura di perdere i propri  privilegi fino a farli schierare, essi che avevano manifestato e gioito per l’abbattimento delle cortine di ferro della guerra fredda, contro coloro che tentavano di forzare i nuovi muri per trovare riparo dalla fame, dalle guerre, dalle violenze, dalle malattie.

I  migranti erano divenuti i nuovi nemici del mondo più o meno ricco.

L’Iper capitalismo aveva compiuto il suo capolavoro.

Aveva trasformato in complici quanti in passato avevano lottato contro ogni discriminazione con l’assurdo contrappasso di renderli poveri, anch’essi.

Non restava che la partenza delle nuove generazioni, ormai prive di memoria, verso le megalopoli e le metropoli dove si concentrava l’umanità asserragliata a difesa dell’iper capitalismo divenuto, nel frattempo, la nuova religione universale.

L’ultimo quarto del secolo ventesimo vide  così il trionfo  di un  internazionalismo del denaro  che nulla aveva a che vedere con quello in cui gli uomini avevano creduto prima della loro conversione.

L’internazionalismo  iper capitalistica figlio della speculazione finanziaria, della concentrazione del potere e della manipolazione di popoli ed individui aveva compiuto anche un altro miracolo annullando le barriere ideologiche e di regime politico in favore di un gotha espresso da oligarchi e magnati senza patria e ideologia espressione del vertice della piramide economica e sociale, che controllava il mondo.

Avvenne così che il secolo ventesimo dopo aver sancito il trionfo dell’iper capitalismo esondò nel ventunesimo secolo. Questo, che avrebbe dovuto dare concretezza all’anelito di nuova umanità lasciato in eredità dal primo e secondo novecento, è divenuto la proiezione del  vecchio secolo, essendo stato addomesticato dalle chimere del falso benessere sfociate nella paura di perdere quanto conquistato, accumulato, ereditato, per il proprio benessere, nel tempo andato.

Sono nate  così  le nuove barriere costruite nella testa della gente questa volta, prima che ai confini degli Stati. Esse hanno azzerato ogni anelito e prospettiva di umanesimo e rinascimento spingendo il mondo verso l’inferno di un pericolo di disfacimento inarrestabile.

Il villaggio globale è divenuto un  violento caravanserraglio.

La solidarietà e la coesione sono state barattate con un patto sociale che include quanti sono disposti a vivere ai margini del potere iper capitalistico beneficiando dello sgocciolamento che il sovraccarico di ricchezza lascia qua e là  scivolare in termini di sussidi, elemosine e regalie  più o meno camuffate.

Gli eretici salveranno il mondo?

Da questo patto fortunatamente sono rimasti tagliati fuori quanti erano stati esclusi  per una questione storica o geografica e quanti vi si erano sottratti per una precisa scelta culturale.

A costoro è affidato oggi  il compito difficile  di mantenere accesa la scintilla per la sopravvivenza  dell’Umanità. Ma il successo di un tale, difficile, compito dovrà necessariamente passare dalla capacità di innescare una qualche nuova  scintilla che provochi un nuovo incendio che, a sua volta, inneschi un nuovo processo creativo che finalmente spezzi la negativa spirale che tutto sembra poter ingoiare e distruggere.

Le conseguenze della lunga involuzione postasi a cavallo della fine e dell’inizio dei  due ultimi millenni non potevano  che riflettersi sull’inaridimento delle fonti creative dell’Umanità tutta intera.

I maestri del primo e secondo novecento, dal canto loro non hanno avuto né tempo né modo di lasciare scuole o discepoli. Sono rimaste le loro opere per chi avrà la ventura di scoprirle o riscoprirle e la volontà di coltivarle.

Il primo quarto del ventunesimo secolo  è così scivolato anch’esso senza lasciare traccia di sé, perso nel degrado della vita culturale, nella affermazione del nuovo credo esistenziale legato al desiderio ed alla possibilità  di consumare che ha elevato il mercato speculativo a nuovo Leviatano, assumendo la spirale produttiva quale religione, le borse  e le loro  quotazioni come luoghi e  riti rispettivamente del sacrificio e del premio o della condanna finale.

Per il resto la letteratura langue sopraffatta da mix ruffiani che blandiscono  e tranquillizzano la nuova umanità privata della stessa sua lingua e della capacità di intendere e usare il logos come strumento di comunicazione oltre che di creazione sulla scia dell’esempio divino.

L’arte muore  sopraffatta anch’essa da un mercato esibizionista preoccupato di mostrare la sua potenza piuttosto che di capire, esaltare e spingere la pulsione creativa.

La stessa scienza sembra sempre più costretta in enclave più o meno protette, essendo affidato alla tecnica ed ai miracoli tecnologici ormai incomprensibili per l’umanità asservita alla religione iper capitalistica, l’effetto fideistico  che sorprende ed incanta, tranquillizza e deresponsabilizza.

Nel ventesimo secolo il primo quarto fu un crogiolo di arte, fantasia e creatività in ogni campo. Proust aveva sollevato il velo che aveva sin lì nascosto il volto più  intimo dell’umanità  svelandone i più reconditi segreti.

Kandinsky e Picasso avevano rivoluzionato l’arte ed il BAUHAUS aveva riscritto la  stessa concezione di essa. L’espressionismo  ed il futurismo avrebbero informato di sé ogni successiva sperimentazione.

La musica assecondava le spinte rivoluzionarie con nuovi linguaggi e nuovi interpreti, mentre il teatro assurgeva a tempio impareggiabile dei grovigli dell’animo umano come ai tempi dei Greci, e la la psicanalisi approdava all’ interpretazione del vissuto andando oltre Freud.

Il primo quarto del ventunesimo secolo ahimè è rimasto, dal canto suo, fermo al palo, tuttora paralizzato dal trionfo dell’iper capitalismo.

Così  oggi non resta che attendere per capire se il groviglio di aberrazioni e di sconfitte che ha nuovamente avvolto l’Umanità  lascerà  sedimentare nelle coscienze  un nuovo bisogno di liberazione.

La risposta non può  che venire da quanti credono ancora nella memoria della civiltà e nella  cultura in essa sedimentata.

Gli artisti, che affidano al riscatto dei quartieri bronx la loro arte ed affidano alle chiese dismesse e diroccate i loro musei; i musicisti, che si mettono in ascolto delle sonorità di un mondo in sfacelo che tuttavia non rinuncia all’armonia dell’Universo; gli  scrittori ed i poeti  che non si stancano di esplorare gli anfratti più riposti dell’anima e di evocare  la bellezza sopravvissuta a dispetto delle violenze e delle ferite. Gli scienziati che rincorrono i dubbi delle scoperte ignorando il fascino miracolistico  della tecnica. Gli economisti che credono ancora che la felicità  sia lo scopo di tutte le attività  umane.

Insomma la speranza di questo secolo sembra affidata a visionari che, come gli antichi profeti, avendo il doloroso  privilegio di vedere  le derive  della società, fanno leva sulla  sensibilità propria ed altrui  per liberare il tempo presente dall’ipoteca del consumismo e dal ricatto del mercato  mostrando all’Umanità il baratro in cui va a sprofondare  ed,  evocando, magari, anche  la forza e la volontà di venirne fuori abbattendo finalmente, come gli Ebrei nel deserto, il vitello d’oro scambiato per Dio onnipotente.

La capacità visionaria contro le derive distopiche

In una società percorsa da evidenti derive distopiche, la capacità visionaria di quanti ne intuiscono i pericoli diventa così la sponda più preziosa. I visionari mantengono forte il legame con la memoria, potente antidoto contro una società che ripudia i valori per sostituirli con credenze miracolistiche legate alla potenza tecnologica che, a sua volta, alimenta i miti della ricchezza, della conquista spaziale e della intelligenza artificiale che suggestiona le menti prive di ogni ancoraggio critico incatenandole all’idea di costruirsi una fidanzata su misura, come dichiarato da uno dei massimi profeti nonché oligarca americano dell’iper capitalismo, non certo l’intelligenza artificiale che aiuta a dare risposte ai dubbi ed ad amplificare le potenzialità umane.

I visionari sono oggi gli unici che riescano a sottrarsi al fascino della Fata Morgana evocata dai miracoli tecnologici, essendo i soli che han conservato il contatto con l’Universo, i miti antichi e quelli contemporanei, in una visione  che mantiene  ben saldo il legame dell’Umanità con la dimensione primordiale. Essi conservano i valori della civiltà mediterranea che presuppongono il senso del limite e della misura legati al rispetto per la terra, i tempi della natura, i bisogni dell’uomo  per un verso e al rispetto verso la divinità ed il trascendente in genere per l’altro. Si tratta di valori sconosciuti nella cultura/civiltà anglosassone che ha prodotto il capitalismo. Quest’ultimo che pure, nella declinazione classica, veniva percepito come motore di progresso, con il tempo si è avviluppato su se stesso producendo il consumismo da un lato e la speculazione dall’altro.

I valori della civiltà mediterranea, essendo stata questa emarginata fino alla negazione dal colonialismo e dall’imperialismo oltre che dal paradigma economico-produttivo centrato sulla direttrice Atlantico-Mare del Nord, non han funzionato da mitigatori e tanto meno da  da antidoto.

Con i visionari nella dimensione creativa saranno gli outsider, gli emarginati e gli esclusi dalla dimensione operativa,  ad arginare la deriva distopica della società contemporanea.

Il sistema costruito intorno al dio del mercato ed alla religione del consumismo coopta quadri, dirigenti e manager ai vertici della piramide produttivistica  escludendo, per definizione, quanti per senso di libertà, intelligenza, sapere ed acume critico vengono classificati come inaffidabili o pericolosi.

Sono costoro, gli outsider, gli  esclusi da ogni possibilità di affermazione in un sistema chiuso e  claustrofobico tenuto insieme da vincoli di appartenenza/dipendenza ben coltivati nei santuari del sapere addomesticato, a possedere la chiave per aprire il caravanserraglio in cui è  rinchiusa l’Umanità ed  il grimaldello per disarticolarlo e mandarlo in frantumi.

Si tratta di una strada necessariamente ardua e lunga che passa dal recupero della memoria, e dalla riappropriazione della dimensione primordiale, ovviamente  contestualizzata in senso storico. Spetterà a visionari, poeti, intellettuali, artisti e quanti sono in grado di contrapporre ai miracoli della religione consumistica il miracolo della creazione che si rinnova giorno dopo giorno a dover fornire motivazioni e argomenti agli outsider. Costoro, a loro volta, dovranno declinano il sapere a  servizio dell’uomo.

Ai visionari  è affidata la missione di mostrare al mondo il senso del limite e della misura depositato nella cultura greca ereditata dal Mediterraneo e dai popoli che  su di esso tuttora si affacciano e vivono. Agli outsider  è affidata la pratica dell’indipendenza operativa e pragmatica in grado di vanificare il veleno della sudditanza  praticata dall’ipercapitalismo.

Nel tempo dei re la rivoluzione era emanazione della capacità della ragione di comprendere ed interpretare la storia restituendo  ai popoli la dignità loro sottratta. 

Nella società divisa tra padroni e servi, tra capitalisti ed operai, tra proprietari dei mezzi di produzione e detentori del lavoro, la rivoluzione rappresentò il riscatto di quanti si trovavano ad essere sfruttati.

Nei tempi attuali la rivoluzione ha davanti a sé un percorso assai più arduo. Nel mondo monopolizzato dall’ipercapitalismo che è  riuscito nell’impresa di trasformare il pianeta in un suo  dominio, l’umanità in un’aggregazione di suoi adepti, la tecnologia in un cemento per rendere inscalfibile il suo potere, la rivoluzione potrà maturare solo con la presa di coscienza della fine prossima ventura.

Si tratta di un processo che solo gli  artisti e gli  outsider possono innescare. Sono essi  infatti gli unici ad essere rimasti fuori dal caravanserraglio e pertanto i soli  in grado di rimetterne in discussione le leggi.

La metastasi  iper capitalista all’alba del nuovo millennio

Ma appare assai difficile  immaginare come ed in quanto tempo tutto questo  potrà accadere… e se accadrà.

Alla base della degenerazione iper capitalista vi è la sostituzione della felicità dei popoli con il profitto/rendita dei detentori-creatori delle finanze .

Keynes e Galbraith nel mondo anglosassone e Caffè in Italia,  come Marx in sia pure con presupposti e forme  diverse, teorizzavano l’intervento dello Stato in funzione del perseguimento della felicità dei popoli. 

Il potere di battere moneta, il potere calmieratore sul mercato, il presidio della ricerca più  avanzata e del  crinale tecnologico, la presenza dello Stato  nei gangli vitali dell’economia, rispondeva a tale obiettivo che, a sua volta , presupponeva una adeguata redistribuzione della ricchezza complessiva a vantaggio del popolo che conosceva e praticava il senso del limite e della misura a salvaguardia dei valori etici e morali fondati sulla responsabilità e sulla solidarietà.

Venuto meno il fine della felicità dei popoli,  la frana non ha più trovato ostacoli. Il consumismo ha prodotto l’ubriacatura che ha fatto digerire ai popoli anche la loro schiavitù fino a farla addirittura apprezzare da essi…

La questione di fondo in questo avvio del terzo millennio verte dunque sugli orizzonti lungo i quali la nostra società si sta muovendo. Certo non da oggi, ma oggi con velocità e rischi sicuramente più accentuati rispetto a ieri. Ne deriva una irrinunciabile responsabilità collettiva, ma prima di tutto individuale, ad opporsi a tale deriva.

É sotto  attacco la capacità di ciascun individuo, dei popoli e dell’umanità nel suo  complesso, di seguire, per dirla con Dante, “Virtute e Canoscenenza” secondo principi di responsabilità, autonomia, solidarietà, cooperazione e compassione unanimemente riconosciuti, per continuare parafrasando Leopardi.

Si sono progressivamente ristretti gli spazi  di libertà individuale e collettiva al punto che la cloroformizzazione della società é un dato inoppugnabile mentre si diffonde e prevale il cosiddetto pensiero unico  che omogenizza giudizi e comportamenti al riparo da ogni visione critica.

Lo stato in cui versa la scuola, trasformata in azienda che disconosce il cosiddetto sapere inutile, l’acquiescenza di fronte ai fenomeni di  recrudescenza della violenza, la confusione stessa che rende labili i confini della libertà e della costrizione, ne sono  altrettante cartine di tornasole.

L’assoluta acquiescenza, quasi si tratti di un fenomeno giusto, scontato e necessario,  ai processi di privatizzazione dei servizi, tutti i servizi, dalla sanità alla sicurezza collettiva, alla formazione delle professionalità necessarie a far funzionare  le contemporanee società ( quelle che un tempo davano vita alle classi dirigenti) ne sono altrettanti specchi in cui riflettersi.

Su tutto si staglia  il processo di castrazione dei popoli e delle nazioni attraverso la progressiva sterilizzazione delle coscienze, la negazione della società aperta, l’eliminazione del lavoro, della scuola e dell’università come ascensori sociali, l’ impoverimento della passione civile e del senso civico, l’annullamento di ogni approccio critico, con la conseguente cancellazione di ogni capacità/volontà di ribellarsi.

Il degrado culturale, dal canto suo, avanza  con  la compressione del lessico disponibile e lo svuotamento della lingua in favore di un linguaggio primitivo e  gergale spesso sopraffatto da simboli e  segni che sostituiscono le parole. Sono tutti altrettanti passaggi  messi in atto, in uno con la reiterata, raffazzonata visione  edonistica, cinica e relativistico-egoista della vita, per cancellare la cultura dell’impegno individuale e collettivo che avrebbe potuto e dovuto aprire la strada ad una visione del mondo condivisa, al riparo da sopraffazioni, dominazioni, appropriazioni/distruzioni delle ricchezze della terra e dell’umanità che pure sembrava alla portata del mondo appena qualche decennio addietro.

Il governo unico del mondo, prima teorizzato e poi realizzato dalla speculazione finanziaria,  metastasi del capitalismo ma anche del comunismo, é oggi una realtà. Si è aperta la strada predicando la bontà prima e la necessità dopo delle privatizzazioni ( tutte ed in tutti i campi). Ha proseguito imponendo il divorzio delle banche centrali dalle autorità politiche ed istituzionali. Ha compromesso ogni futuro praticando ed alimentando il debito sovrano fino a controllarlo a suo piacimento, usandolo come cappio per strozzare gli Stati ed i popoli o come arma di ricatto per appropriarsi delle ricchezze degli stessi. Infine ha condotto nella propria disponibilità il destino del mondo. In tale processo si sono consumate le differenze di regime politico, di appartenenza continentale e di alleanze storiche oltre che di comune civiltà.

Il capitalismo, così come declinato da Smith, Ricardo, Schumpeter, i classici ed anche Marx prima e da Keynes e  Galbraith ( ed il nostro Caffé ) dopo, é scomparso. Ha smesso di essere motore di sviluppo, progresso ed integrazione dei popoli e delle nazioni. La speculazione ipercapitalistica ne è stata la metastasi inarrestabile che ha attaccato anche il comunismo. Oggi il governo unico del mondo è nelle mani degli oligarchi che, privi di ogni radicamento, geografico, politico o di regime, dispongono della vita e della morte dei popoli, governano le guerre e controllano il Pianeta a dispetto delle finte e transeunti  contrapposizioni.

Ne consegue un inevitabile, triste epilogo  essendo il destino del mondo sottratto alla disponibilità  dell’Umanità.

Nei tempi recenti, ahimè, tale processo ha subito una drastica, inarrestabile accelerazione. La rimozione generale della memoria delle sofferenze passate, delle guerre scatenate dalla barbarie razzista,  la confusione di pensiero su libertà  e schiavitù, tra genocidio e autodifesa, tra protezione dei propri confini e aggressione,  con la riesumazione indolore  di ideologie fasciste e naziste sdoganate come innocue e nascoste dietro l’affermazione che non vi è alcun pericolo per la libertà, che tutto é depurato ed indolore oltre che incolore, é il capolavoro del governo unico mondiale che oggi si accinge a sperimentare l’ultimo stadio. Quello che mette insieme finanza e tecnologia, nelle loro estreme espressioni e capacità, tutte, peraltro,  in mano ai potentati privati che ora controllano ed in prospettiva domineranno gli Stati. La convergenza degli oligarchi di ogni regime e continente va oltre  i contingenti dissidi e addirittura oltre le guerre. In questa precisa fase storica va, addirittura, materializzandosi la convergenza degli interessi neoimperialisti delle maggiori potenze mondiali i cui capi giocano con il mondo esattamente come giocava il dittatore di Chaplin. Contestualizzando l’affermazione ciascuno di essi ha da regolare conti antichi e recenti. In Cina con Taiwan ed il Mar Cinese Meridionale, in Russia con l’Est Europeo ed i Paesi Baltici, negli USA con l’intero continente americano che considera di sua  esclusiva pertinenza.

In questo scenario l’Europa è annichilita. Al suo interno é in atto  da tempo la corsa ad accreditarsi/legarsi ad una  piuttosto che all’altra testa del Cerbero in funzione dello strabismo della rispettiva visione politica.

Piuttosto che ragionare delle nuove frontiere, tecnologia, spazio, sicurezza digitale e planetaria, povertà, sviluppo, sanità, pace, rimuovendo gli ostacoli che le rendono impossibili, prendendo le distanze  dallo strapotere dei potentati privati e della speculazione finanziaria, si insegue l’industria manifatturiera sul versante vecchio delle auto, dell’acciaio, del carbone, degli idrocarburi, dei beni di consumi, e si gareggia a chi sta con Musk o con Xi Jinping senza rendersi conto che si sta pericolosamente compromettendo  il proprio futuro. Per sempre.

Da quanto sopra ne discende che anche le politiche verso  il Sud, se non inquadrate  nella prospettiva Mediterranea e nel recupero della dimensione europea, non hanno alcuna possibilità di sortire effetti diversi da quelli neocoloniali con la obbligata destinazione di esso, una volta completata la desertificazione  nelle terre di mezzo, ad hub energetico europeo. Con buona pace di tutti quanti disquisiscono sul futuro del Mo do e sul conflitto Nord-Sud.

Tutto cambierebbe se l’Europa, costituendosi in Stato Federale, decidesse di muoversi sullo scacchiere mondiale. Intanto il ruolo degli oligarchi-magnati ipercapitalisti è ancora irrilevante se non fosse per la presenza ottundente di quelli esterni i quali, peraltro, con un regime fiscale adeguato, verrebbero verosimilmente, messi in riga o comunque ridotti alla ragione.

Essendo l’Europa un gigante economico, non sarebbe difficile per essa varare misure con effetti rapidi per colmare i ritardi che si sono accumulati nelle tecnologie di frontiera, nel controllo delle connessioni spaziali, nell’energia, nei settori economici strategici. Certo andrebbe soprattutto colmato il vuoto nello scacchiere geopolitico. In questo campo, tornare a presidiare il Mediterraneo varando politiche di cooperazione tra i Paesi dei tre continenti che vi si affacciano, avrebbe un valore dirompente  e costringerebbe il mondo intero, e la triade del Cerbero prima di tutti, a rivedere i rapporti di forza spezzando finalmente le catene che lo strangolano. Ma l’idea degli Stati Uniti d’Europa è tuttora lettera morta, un sogno rimasto nella mente dei padri fondatori della prima Comunità Europea e negli ideatori del Manifesto di Ventotene. Addirittura tradita dalla corsa innescata da molti Europei verso il governo unico del mondo che, guarda caso, escludeva proprio l’Europa.

Scaturisce da questa visione la necessità di non indulgere al compromesso di pensiero prima che di schieramento e l’obbligo, per quanti conservano capacità critica, a riprendere in mano il proprio futuro rifuggendo da ogni facile appiattimento sulla base di ragionamenti di comodo che non sortiranno alcun beneficio di valenza pragmatica ma sanciranno  solo scelte di rassegnazione e acquiescenza condite di tornaconto personale. L’assenza dello Stato Federato d’Europa mai come adesso si rivela esiziale.

Abbiamo tutti il  dovere, visionari, outsider, don Chisciotte e ribelli,  di indicare una prospettiva e testimoniarne il valore perché quanti stanno arrivando, tra le nuove generazioni, si sentano incoraggiati ad osare e  magari riescano a liberarsi dal condizionamento del potere e finalmente si scoprano capace di ribellarsi. Abbiamo bisogno di ritrovare la forza  spregiudicata e gioiosa della civiltà e cultura mediterranea per riscoprire l’antidoto che può salvare il mondo dal dio del mercato e dalla religione del consumismo, riportando il capitalismo o il collettivismo, secondo le scelte di ciascun popolo, al loro originario stadio di leve del progresso delle nazioni e la Felici dei popoli.

Abbiamo dalla nostra una grande fortuna. L’antidoto necessario è parte della nostra cultura e della nostra civiltà Mediterranea e si sostanzia nel senso irrinunciabile del limite e della misura praticato dai Greci e da tutti i popoli del “Mare Nostrum”. Esso potrà proiettarci, in una interpretazione contemporanea dei   processi Vichiani dei corsi e ricorsi storici, verso  la dimensione primordiale che, sola, può salvarci.

Una conclusione che riapre il discorso

La deriva iper capitalista illumina di luce sinistra il paradosso contemporaneo dell’azione economica finalizzata a produrre ricchezza seminando povertà e ad  accumulare  profitti deprimendo salari e stipendi. Il lavoro che, nell’accezione capitalista classica, alimentava, in uno con le macchine, il profitto assicurando a sé la giusta remunerazione, è negato. Al suo posto l’anonima, intercambiabile prestazione d’opera destinata ad una progressiva rarefazione con l’aumento della popolazione di robot e, in prospettiva, di androidi che, ahimè, saranno anche programmati per sognare e magari non solo pecore elettriche, come immaginava Philip K. Dick autore del romanzo che ispirò  Blade Runner, il film cult degli anni ‘80 del secolo ventesimo sulla realtà distopica della società a venire.

Agli uomini ormai senza ruolo e diritti verrà  riconosciuta la medievale opportunità di sopravvivere secondo il modello rivisitato in chiave iper capitalista della servitù della gleba?

Di sicuro il lavoro diviene fonte allo stesso tempo  di ricchezza per chi accumula profitti e rendite  e di povertà  per chi lo pratica mentre il sistema economico e produttivo cessa di essere leva del progresso umano per trasformarsi in strumento di distopica barbarie.

Si tratta di due cortocircuiti dalle funeste conseguenze connesse alla  mutazione dei paradigmi economico-produttivi-finanziari che non sono più finalizzati a declinare  i processi di formazione della ricchezza delle nazioni ( quella descritta da Smith, Ricardo e dagli economisti classici) ma a sancire l’accumulo di potere da parte dei magnati-oligarchi che dominano le nazioni ed il mondo.

È evidente l’arricchimento senza limiti dei pochi che controllano la finanza (che ha sostituito  i mezzi di produzione) e l’impoverimento, anche questo senza limiti, di chi detiene una merce ormai senza valore: il lavoro.

Corollario di tali paradossi è la scomparsa della vecchia società caratterizzata dalla prevalenza della classe proletaria e dei ceti medi produttivi che si elevavano  con il lavoro e la conoscenza che assolveva alla funzione di ascensore sociale sino a raggiungere i vertici più elevati delle professioni, della amministrazione pubblica e della rappresentanza politica nelle istituzioni. 

Di conseguenza la piramide sociale prima armoniosamente costruita e ben integrata al proprio interno si  è appiattita fino a identificarsi con una base larghissima ed una cuspide minuscola affilata e tagliente. 

Tutto ruota ormai intorno ad un sistema tecnologicamente e tecnicamente autosufficiente che  produce la società assistita dell’Ipercapitalismo e che si perpetua attraverso l’opera di chi governa su mandato del gotha finanziario.

Il controllo del debito, la vendita degli asset pubblici delle nazioni e  la  privatizzazione delle funzioni statali,  rappresentano le leve della tenaglia che tiene sotto scacco l’umanità che intanto, grazie alla riscrittura della storia attraverso la somministrazione di false notizie e la diffusione di modelli edonistici basati sul tornaconto personale, impara ad amare le sue catene ed a perpetuare la sua schiavitù.

Si tratta di un processo che negli ultimi 40 anni ha attraversato tutti i sistemi politici.

Responsabile l’ipercapitalismo, metastasi del capitalismo.

Esso, dopo aver alterato i connotati delle democrazie occidentali sino al loro stravolgimento, ha finito per aggredire il comunismo (Cina)  e segnare le dittature post sovietiche (Russia) in cui si è  affermato il potere  degli oligarchi di stato che hanno affiancato i magnati occidentali nel gotha finanziario-speculativo che oggi  controlla il mondo esattamente allo stesso modo in cui il  Cerbero mitologico dalle tre teste controllava il regno dei morti.

Venuto meno il fine della felicità dei popoli quale fulcro dell’azione dei governi, la frana non ha più trovato ostacoli. Il consumismo ha prodotto l’ubriacatura che ha fatto digerire ai popoli anche la loro schiavitù fino al punto di farla addirittura apprezzare da essi…Bisognerà ricominciare da qui per rimettere in piedi un mondo che oggi marcia a testa in giù. E non si potrà fare a meno, ancora una volta, del Mediterraneo, per rimetterlo in piedi. Ripartendo dalla cultura e dalla civiltà in esso sedimentata e che attende di essere riscoperta.

Le promesse mancate del XXI secolo | Lab Politiche e Culture