1. Fine della terza via. Nel pieno della crisi del sistema sovietico, il politologo americano Fukuyama proclamò la “fine della storia”[1], un’espressione che è poi rimasta famosa come esempio di profezia infondata. Era da poco caduto il Muro (9 novembre 1989), e questo avvenimento aveva rappresentato l’ultima e definitiva smentita del mito del ‘socialismo reale’, inteso come proprietà statale dei mezzi di produzione. Il grandioso esperimento sociale iniziato con la Rivoluzione russa del 1917 era sfociato in una catena irrimediabile di fallimenti. In nessuna delle sue applicazioni il sistema si era dimostrato migliore del capitalismo, in termini di produttività, di progresso scientifico e tecnologico, di maggior potere dei lavoratori, di liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e dall’alienazione. Ogni tentativo di suo rilancio si era rivelato impossibile, a meno di non volere iniettare nel sistema massicce dosi di capitalismo, come in Cina. Dal collasso dell’URSS ricevette un drammatico impulso la globalizzazione dell’economia e della società, prodotta in buona parte dalle nuove tecnologie dell’informazione.
Per un breve lasso di tempo, si pensò che questo naufragio determinasse la vittoria finale del capitalismo e della democrazia liberale, immaginata come il suo più naturale contenitore. Il capitalismo globale avrebbe prodotto una crescita continua, con effetti benefici anche per la maggioranza della popolazione, o almeno per la middle class. La ricchezza di una vasta classe di milionari sarebbe in parte “sgocciolata” verso la base. I falchi neoconservatives, sotto la presidenza di George D. Bush, non ebbero più remore nel presentare gli Stati Uniti come un impero democratico, destinato a governare e americanizzare il mondo[2].
Effettivamente una parte della profezia si è avverata, perché grandi masse di popolazione dei paesi poveri hanno conosciuto un relativo benessere. Ma già nel 2007 la crisi economico-finanziaria rese evidente che la globalizzazione portava con sé problemi strutturali come la finanziarizzazione dell’economia, la concentrazione delle ricchezze e del potere nelle mani di una ristrettissima oligarchia, la depressione dell’occupazione e dei redditi da lavoro, l’impoverimento dei ceti medi dei paesi più avanzati, la crisi del welfare state e della democrazia.
Il crollo del Muro contribuì potentemente a mettere in crisi il contratto sociale che, soprattutto dopo la II Guerra Mondiale, aveva indotto il capitale ad accettare la democrazia, e a tollerare il welfare State e il potere dei sindacati. La socialdemocrazia – a partire dal Programma di Erfurt della SPD (1891) – era stata fondata sulla prospettiva che lo sviluppo economico, se bene indirizzato dallo Stato, dal partito e dal sindacato, rendesse possibile possibile la giustizia sociale. Si aprì invece un’epoca di deregulation, che indebolì il welfare State (e lo Sto in generale), togliendo spazio e funzione alle sinistre riformiste europee. Entrò, quindi, in crisi non solo il comunismo, ma anche la socialdemocrazia, dimostratasi incapace di esercitare con efficacia il ruolo di guardiana del Welfare State e dell’occupazione. La ‘terza via’, proposta dai laburisti di Tony Blair e adottata da gran parte delle socialdemocrazie europee (compreso il PD) si risolse nell’abbandono della base sociale tradizionale, rappresentata dai lavoratori subalterni. La socialdemocrazia divenne un sedicente liberismo sociale. Il Jobs Act fu un esempio di questa politica anti-sindacale, volta ad assecondare la precarizzazione del lavoro e il potere dei datori di lavoro di licenziare e di spostare manodopera e aziende. Renzi disse un giorno che tra gli operai della Fiat e il manager Marchionne, sceglieva Marchionne. E i lavoratori presero nota.
2. Mercanti dello spazio. Ci sarebbe stato bisogno di fare un grande lavoro teorico (economico, sociologico, filosofico) per elaborare una strategia che facesse superare le crisi simultanee del comunismo e della socialdemocrazia, e quindi un nuovo progetto di liberazione e di progresso, basato sulla democrazia economica. Ma questo non è finora avvenuto: anzi, partiti e sindacati hanno rinunciato a produrre un progetto di società alternativa.
Al momento, la vittoria di Trump sembra autorizzare le previsioni più fosche. Che ne sarà dello Stato e della democrazia, se i padroni di Internet sono più potenti delle istituzioni politiche e sono in grado di sapere e determinare cosa votiamo e chi siamo? Le multinazionali sono delle concentrazioni così imponenti di ricchezza, da potere conquistare degli Stati, manipolando gli strumenti della democrazia, o anche con l’uso della forza e l’intervento dei mercenari, come in molte zone dell’Africa. Nel prossimo futuro sarà anche possibile che un’azienda lanci delle navi spaziali per sfruttare e colonizzare altri pianeti. Questi “mercanti dello spazio” (per parafrasare il titolo di un famoso libro di fantascienza)[3], saranno certamente in grado di contendere agli Stati la sovranità politica. Il futuro sembra assumere sempre di più il volto inquietante di Elon Musk, il “Grande Fratello” del XXI secolo, che appare a fianco di Trump senza che si possa finora capire chi comandi realmente tra i due.
Bisogna pur dire che, indipendentemente dalle scelte politiche, contro le socialdemocrazie giocano anche le conseguenze che lo sviluppo tecnologico applicato al sistema produttivo stanno avendo sull’occupazione e sulla qualità del lavoro. È un problema di fondo, previsto da Marx nel quasi fantascientifico “Frammento sulle macchine“, un appunto manoscritto che precedeva la Critica dell’economia politica[4] e la prima edizione del libro I del Capitale (1867). In esso Marx profetizzava quello che sarebbe accaduto quando l’automazione avrebbe assorbito in larga misura il lavoro umano. Il lavoro improduttivo (come quello nei servizi, che di per sé non aumenta il valore delle merci), poteva forse continuare ad esistere. Ma quello produttivo sarebbe diventato superfluo. E a quel punto, la teoria del valore-lavoro sarebbe stata praticamente inapplicabile. Il fattore decisivo della produzione, infatti, sarebbe diventata la tecnologia (quindi la ricerca scientifica applicata, cioè incorporata nelle macchine), e non più il lavoro. È come dire che l’automazione integrale della produzione avrebbe prodotto la fine del capitalismo. Come potrebbe funzionare un’economia automatizzata (e gestita dall’intelligenza artificiale), nella quale le merci non avrebbero quindi, un valore determinato dal lavoro umano? E come avverrebbe la transizione dalla centralità dei mezzi di produzione a quella dei “mezzi di ideazione”? Forse conosceremo un ritorno al dispotismo sovietico, o a una forma nuova di servaggio, ma la società futura non somiglierebbe mai al capitalismo, che comunque presuppone un mercato del lavoro salariato. Si tratta di una prospettiva lontana ai tempi di Marx, ma oggi molto più vicina.
3. Knowledge workers. Ci troviamo in una società in misura notevole post-industriale[5], nella quale prevale il settore terziario (in Italia oltre il 70% degli occupati) e le ore lavorate incidono sempre meno sul valore. In questo tipo di società, le merci non sono più solo beni fisici, ma soprattutto “oggetti” informatici e servizi, o comunque beni immateriali, prodotti non dal lavoro fisico, ma da quello intellettuale. La robotizzazione nell’industria e l’uso di programmi informatici stanno determinando una convergenza tra il lavoro dei colletti bianchi (gli impiegati di prima categoria che controllano le macchine mediante il software, i programmatori eccetera) e quello delle tute blu[6]. Ormai solo una minoranza della forza lavoro dei paesi più avanzati svolge mansioni manuali. Molti sono gli impiegati esecutivi, in via di sostituzione da parte dei robot e dell’intelligenza artificiale e gli operatori che svolgono attività di tipo creativo[7]. Questo non ha determinato in realtà la scomparsa dell’alienazione del lavoratore, né del suo sfruttamento, né delle classi sociali. Si sta invece consolidando il potere economico e politico nelle mani di una ristretta oligarchia, nelle cui mani si concentra la gestione della produzione, la circolazione delle merci, la conoscenza e la politica. Alla fine di questo processo sociale potrebbero produrre una società polarizzata tra un’élite di possessori del capitale e della conoscenza e una massa di “ex lavoratori”, sorvegliati dalle macchine[8].
Non si può continuare a rimuovere l’esigenza di un reale empowerment dei lavoratori, cioè di riforme di struttura che determinino un mutamento dei rapporti di forza sociali, a partire da dove la ricchezza viene prodotta. Prima di arrivare a realizzare l’incubo orwelliano della società del controllo, o dell’intelligenza artificiale che elimina gli umani dal posto di comando, il capitalismo potrebbe avere difficoltà a adeguarsi allo sviluppo delle forze produttive che lo stesso progresso tecnologico suscita. Già adesso, in alcuni settori l’estrazione del valore è determinata per i capitalisti soprattutto dai limiti, anche giuridici, che essi sono riusciti ad imporre allo sviluppo delle forze produttive. La ricchezza si determina sempre più mediante l’acquisizione dei brevetti (si pensi alla vicenda della pandemia), o attraverso il controllo oligopolistico delle piattaforme informatiche[9]. C’è da chiedersi se questa contraddizione tra monopolio e sviluppo delle forze produttive non potrebbe determinare un passaggio accelerato verso una società non più – o almeno non più solo – capitalistica. Potremmo, cioè, essere già all’interno di una transizione verso possibili nuovi modi di produzione. Certo l’umanità vive meglio e più a lungo che ai tempi di Marx. Ma vale la pena di chiedersi se il capitalismo sia in grado di ottenere un indefinito sviluppo, i cui benefici potrebbe essere redistribuiti alle masse; oppure se presenta delle contraddizioni insanabili, in grado di metterlo in crisi.
Forse non sarà dalla vecchia classe operaia o dai supersfruttati lavoratori immigrati che potrà venire un’alternativa al capitalismo predatorio. Neanche all’epoca della fabbrica fordista, il proletariato industriale ha dimostrato di avere la capacità di gestire le fabbriche e l’intera società, tranne in alcuni effimeri episodi (la Comune di Parigi, i soviet all’inizio della Rivoluzione russa, le comunità anarcosindacaliste nella Spagna del 1936), dai quali comunque c’è da imparare.
Il capitalismo della conoscenza, nel quale il lavoro incide sempre meno nei costi produzione, ha generato una nuova classe di lavoratori, molto numerosa ma ancora estremamente frammentata e in cerca di rappresentanza politica[10]. I “knowledge workers”(informatici, liberi professionisti, creativi, scienziati, insegnanti, lavoratori del no profit…), molto spesso precari e solo teoricamente autonomi, permettono al capitalismo globale di funzionare, ma ne sono anche vittime. Sotto certi aspetti, i lavoratori della conoscenza sembrano un ritorno passato: dall’operaio massa della rivoluzione industriale si retrocede all’antico operaio di mestiere delle manifatture, se non all’artigiano. Ma paradossalmente, questa potrebbe essere la classe capace di porre all’ordine del giorno questioni come la democrazia economica, il controllo democratico delle reti e dei beni comuni, la sostenibilità ecologica. Non i lavoratori esecutivi, come gli operai o gli impiegati, ma quelli creativi… almeno finché l’intelligenza artificiale non sarà in grado di sostituire anche loro. Dai lavoratori della conoscenza sta nascendo anche un altro tipo di intellettuale di sinistra, più legato all’economia (come Piketty) che al giornalismo o al professionismo politico.
- Un laburismo di tipo nuovo. Ci sarebbe bisogno di una forza politica ‘laburista’ in senso nuovo, capace di decifrare la società in cui viviamo, proponendo un programma che interpreti gli interessi e le idealità anche dei lavoratori della conoscenza. Di sicuro la prospettiva di questi lavoratori, soprattutto giovani, non può essere il liberismo, che li schiavizza, né il collettivismo di Stato che ostacola il progresso scientifico e tecnologico. Insomma, il problema potrebbe essere non quello di gettare via la globalizzazione, ma di superare progressivamente il capitalismo[11].
Non è moderando le proprie pretese e mettendosi al servizio del capitale che le sinistre faranno i loro interessi. Le socialdemocrazie, in quanto partiti popolari che hanno nella loro agenda la giustizia sociale e il progresso, dovrebbero proporsi di rappresentare non solo gli operai, i disoccupati, i lavoratori del pubblico impiego con posto fisso, ma anche questo tipo di lavoratori, per lo più lavoratori atipici o pseudo-indipendenti.
Le difficoltà sono notevoli, perché i lavoratori della conoscenza non sono – o almeno non si percepiscono – come delle nuove ‘tute blu’, con il computer al posto del tornio. Non hanno la ‘spontanea’ disciplina derivata dal taylorismo e della leva militare. Quando anche si sottraggono all’individualismo e si impegnano nei conflitti sociali, non si conformano all’etica militante della sinistra tradizionale si matrice comunista. A loro le strategie politiche e l’immaginario industrialista non hanno più molto da dire. Molti scelgono di non votare, o sono attratti dal populismo xenofobo della destra reazionaria, dagli antagonisti di ultra-sinistra e dal populismo ei Cinque Stelle. Ma anche queste sono manifestazioni di una tendenza al rifiuto delle élites, che non dovrebbero sconcertare una forza politica di sinistra. Queste spinte, a loro modo egualitarie, potrebbero ritrovare nei valori del riformismo progressista e un loro sbocco più naturale.
Comunque, se il mondo non finirà prima, ci saranno nuove forme di pluralismo economico e politico da sperimentare, emergeranno nuove idee: è un futuro ancora tutto da scrivere. Un’economia mista, basata sulla cogestione dei lavoratori e degli stakeholders del Comune e della Regione, e con un forte settore cooperativo, potrebbe ancora chiamarsi ‘socialismo’, ma non avrebbe nulla a che vedere col collettivismo di Stato e piuttosto riprenderebbe i temi del cattolico ‘Codice di Camaldoli’ e del socialismo liberale di Giustizia e Libertà[12].
In copertina: Paris di Fabrizio Uliana, © Fabrizio Uliana
[1] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, Penguin, London 1992
[2] Cfr. Giuseppe Giliberti, Ideologie imperiali, in A. Palma (cur.), Civitas e civilitas. Studi in onore di Francesco Guizzi, t. I, Giappichelli, Torino 2013, pp. 400 ss.
[3] Frederik Pohl, C.M. Kornbluth, Mercanti dello spazio(1952), trad. it. Mondadori, Milano 1962.
[4] Il Frammento fu pubblicato per la prima volta in Italia nel numero 4 (1964) dei «Quaderni rossi», a cura di Renato Solmi. Potrebbe essere successivo ai Grundrisse del 1857-58, pubblicati per la prima volta dall’Institut für Marxismus-Leninismus di Mosca tra il 1939 e il 1941.
[5] Cfr. Alain Touraine, La società post-industriale, il Mulino, Bologna, trad. it. 1970.
[6] Cfr. Domenico De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Einaudi, Torino, 2018, pp. 574-578.
[7] Domenico De Masi, Lavoro 2025: il futuro dell’occupazione (e della disoccupazione), Marsilio, 2017.
[8] Cfr. Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2017.
[9] Cfr. Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza Bari-Roma 2018, pp. 218-238.
[10] Cfr. Enrico Grazzini, Manifesto per la democrazia economica, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 39 ss.
[11] Cfr. Paul Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (2015), trad. it. l Saggiatore, Milano 2016, pp. 11 ss.
[12] Cfr. Giuseppe Giliberti, Dossetti e la Costituzione personalista, in D. Ferrari, G.Gilberti (cur.), Le orme di Dossetti, Edizioni Intra, Pesaro, 2024, pp. 66 ss.