“La paga del sabato. Gli anni d’oro del Premio Suzzara (1948-1958)” e il realismo nell’arte, di Adrian Botan ed Erika Vecchietti
L’idea de La paga del sabato. Gli anni d’oro del Premio Suzzara (1948-1958), curata da chi scrive, è nata dalla volontà di dare profondità storica al 51° Premio Suzzara il cui titolo: “Materia instabile. Il nuovo volto del lavoro nell’arte” richiama esplicitamente le prime edizioni del Premio, quelle degli anni d’oro, appunto, in cui gli artisti erano chiamati a esprimersi sul tema “Lavoro e lavoratori nell’arte”.
Il Premio Suzzara nacque – da un’idea del pubblicitario Dino Villani e dello scrittore, poeta e cineasta Cesare Zavattini, con il sostegno dell’allora Sindaco di Suzzara Tebe Mignoni – nel 1948, e promosse fin dalle prime edizioni il linguaggio del neorealismo. L’arte doveva restituire autenticamente la realtà sociale, economica e politica dell’Italia del tempo, un’Italia che usciva da un’occupazione e da una guerra civile, che ne pagava le drammatiche conseguenze ma che allo stesso tempo cercava riscatto, rinascita, e una nuova identità. La scelta del realismo, impegnato e militante, era anche una direttiva di partito, come indicava Palmiro Togliatti dalle pagine di “Rinascita” sempre nel 1948, in cui bollava come “esposizione di orrori e di scemenze” le opere di un gruppo di astrattisti alla “Prima mostra nazionale di arte contemporanea” a Bologna. Una posizione granitica, che riaccendeva il dibattito tra astratto e concreto e criticava una certa esterofilia in voga tra gli artisti, che negli anni Quaranta guardavano a Parigi e all’ingombrante presenza di Picasso (lo stesso Aldo Borgonzoni, che al 1° Premio Suzzara vinse 30 chili di salumi assortiti, candidò due Mondine decisamente postcubiste).
Proprio dal 1948 parte l’idea de La paga del sabato. Gli anni d’oro del Premio Suzzara (1948-1958), una mostra, o meglio una selezione di circa 140 delle quasi 900 opere della collezione del Museo Galleria del Premio Suzzara, che vuole ripercorrere il periodo neorealista del Premio, quando, attraverso un linguaggio figurativo diretto, spesso crudo, gli artisti raccontavano la vita quotidiana e il lavoro delle persone comuni, denunciandone al contempo contraddizioni e ingiustizie.
Già dal titolo, che ricalca quello di un romanzo di Beppe Fenoglio scritto alla fine degli anni Quaranta (pubblicato nel 1969), La paga del sabato vuole raccontare di quei “lavoratori nell’arte” protagonisti di una storia minore, attori senza nome la cui unica possibilità di lasciare traccia di sé non poteva essere in forma individuale, bensì collettiva. Portavoce di questa moltitudine anonima sono proprio gli artisti, come testimonia il pittore Giulio Ruffini (che al 5° Premio Suzzara nel 1952 vinse il puledro con Pietà per il bracciante assassinato, 1950-1952, olio su tela): “sono nato in un paese della bassa ravennate dove a fatica ammutoliva. Per me fare l’artista non è stata solo una vocazione ma anche un riscatto. Un riscatto non solamente mio ma anche dei miei antenati e dei miei amici del paese. Volevo dar voce a gente che voce non l’ha mai avuta”.
Un impegno politico, sociale e civile significativo, quello dei pittori del Premio, che hanno restituito un volto ai lavoratori ma anche denunciato la povertà, l’ingiustizia sociale, la fatica e i rischi quotidiani. Nelle varie sezioni tematiche, in cui compaiono – tra gli altri – Armando Pizzinato, Renato Guttuso, Giuseppe Zigaina, Renato Birolli, Domenico Cantatore, Giulio Turcato e Franco Francese, si nota netta la svolta del realismo esistenziale, di cui è manifesto, nella mostra, il Minatore morto di Liberio Reggiani (1957, olio su tavola, al 12° Premio Suzzara nel 1959 vinse 50.000 lire e un mobile portafornello), compianto laico sulla vittima di un incidente in miniera (è del 1956 il disastro di Marcinelle in Belgio), individuo anonimo – ancora una volta – ma che rappresenta, nel suo rimando al Cristo morto del Mantegna, l’espiazione dei peccati di una società che mette il profitto davanti alla vita. Gli artisti del realismo esistenziale pongono al centro dell’opera la raffigurazione del soggetto come accorata testimonianza del dramma umano, mettendo al contempo fortemente in discussione il loro impegno militante, soprattutto dopo due eventi storici che, nel 1956, scossero la cultura della sinistra: il “Rapporto segreto” di Chruščëv sui crimini di Stalin e la primavera ungherese.
Un cameo, all’interno della sezione dedicata ai lavoratori, è dedicata al “mestiere dell’artista”, dove compaiono un Alberto Sughi che riutilizzò – rigirandola – una tela con su dipinto un pittore che ritrae una modella per realizzare il Viaggio di notte (1956, olio su tela, al 9° Premio Suzzara vinse un fusto di vernice, una forma di formaggio grana, un ciclo per bambini e 20.000 lire) e un piccolo olio su tavola di quel Luigi Bartolini (Il lavoro del pittore, 1958, all’11° Premio Suzzara vinse una forma di formaggio grana, una mortadella da 20 chili, due cassette di vini e liquori assortiti) che, oltre a essere un grandissimo incisore e pittore, è anche autore del romanzo Ladri di biciclette (1946) che, con un soggetto originale scritto – e qui torniamo ai fondatori del Premio Suzzara – da Cesare Zavattini, divenne sotto la regia di Vittorio De Sica il manifesto del cinema neorealista italiano. Ricorrente è in mostra l’immagine della bicicletta, imbracciata da un operaio de Le Reggiane di Vittorio Cavicchioni (1951, olio su tela, al 4° Premio Suzzara vinse un apparecchio radio), poggiata allo steccato in attesa che il proprietario finisca di far erba per i conigli (Giuseppe Zigaina, Bracciante, 1950, vinse al 3° Premio Suzzara una barca a remi), portata a mano negli Operai che escono dalla fabbrica sempre di Zigaina (1956, olio su tela, al 9° Premio Suzzara vinse una forma di formaggio grana, una cassetta di Cinzano, una parure di penna e matita, mille mattoni e 30.000 lire), in procinto di essere impegnata nel Monte di pietà di Mario Cimara (1957, olio su tela, vinse il vitello e due forme di formaggio grana al 12° Premio Suzzara del 1959), e di cui ancora Zigaina scrive: “La bicicletta, io so quello che è per voi […]. Con la bicicletta voi andate a lavorare nelle paludi, andate a prendere il pane, a chiamare il medico; la domenica i giovani portano la fidanzata a ballare. Per questo vi fracassano le biciclette: perché sono parte di voi, perché hanno salvato nella fuga le staffette partigiane, perché il Primo Maggio le bianche strade della Bassa diventano rosse di bandiere tese al vento” (Lettera di un pittore ai contadini del Cormor, “Rinascita”, gennaio 1951).
La vocazione agricola, oltre che industriale, dell’Italia e del dopoguerra viene espressa nella sezione dedicata al “Lavoro nei campi”, in cui è presente una delle pochissime opere di Antonio Ligabue conservata in una collezione pubblica, Cavalli all’aratro (olio su tavola, 1956, al 9° Premio Suzzara vinse 150 metri quadri di legno compensato e una forma di formaggio grana). Un soggetto ricorrente nell’autore, quello dei lavori agricoli, qui declinato in senso fortemente emotivo e drammatico, in cui l’idillio del mondo contadino viene stravolto da una tempesta improvvisa, che terrorizza i cavalli attaccati all’aratro e fa presagire la tragedia. Un senso di catastrofe sempre incombente, espressione del tumulto interiore di uno dei grandi interpreti dell’inquietudine novecentesca.
Chiude la mostra, e anche questo contributo, la sezione delle “Donne al lavoro”, nella quale sono stati giustapposti due nuclei di soggetti ricorrenti nella pittura degli anni Quaranta e Cinquanta – le sarte e le mondine – che rappresentano due universi opposti nel percorso di autoconsapevolezza della donna come lavoratrice. Se infatti da una parte il mestiere della sarta – diffuso perché per lo più a domicilio, quindi funzionale a conciliare un’entrata extra con la vita domestica – era svolto in casa, spessissimo in modo irregolare, quello della mondina era all’aperto, lontano o lontanissimo dal luogo di residenza, e in un contesto di (quasi) sole donne. In questo ambito sono maturate idee, iniziative di emancipazione e soprattutto un’autocoscienza della donna lavoratrice che si manifestò, oltre che nelle lotte sindacali, nei famosi canti che rivendicavano paghe migliori (Sciur padrun da li beli braghi bianchi) e turni di lavoro sostenibili (Se otto ore vi sembran poche), non a caso riproposti discograficamente da una cantante folk dei dintorni di Suzzara, Giovanna Daffini, originaria di Villa Saviola di Motteggiana.