Intervista a Jacques Soppelsa a cura di Pierrick Hamon
Jacques Soppelsa, professore emerito di Geopolitica all’Università Parigi I – Pantheon Sorbonne, ex Presidente dell’Università, è stato uno dei redattori della Magna Charta delle Università e dei fondatori del Programma Erasmus ed è uno dei maggiori studiosi di geopolitica. Citiamo, tra le sue numerose e importanti pubblicazioni, il fondamentale testo, scritto con Alexandre Del Valle, Vers un choc global? La Mondialisation dangereuse, II edizione, L’Artilleur, Paris, 2023. Soppelsa è uno dei promotori del think tank I – Dialogos.
P.H. Come primo titolare, nel 1978, della cattedra di Geopolitica alla Sorbona, lei ha contribuito a far emergere una scuola francese di geopolitica e a formare un gran numero di geopolitici francesi. Sono quelli che vediamo oggi onnipresenti negli studi televisivi? Cos’è la geopolitica e che contributo ha portato in definitiva al dibattito e all’informazione?
J.S. Effettivamente, i tempi sono davvero cambiati dall’epoca in cui ho avuto l’onore di occupare la prima cattedra universitaria di Geopolitica alla Sorbona. Gli studi televisivi e i giornali da due decenni vedono moltiplicarsi le prestazioni di un gran numero di autoproclamati esperti, spesso ex ufficiali, talvolta giornalisti, che si presentano come “geopolitici”, o “geopolitologi”.A dire il vero, alcuni loro commenti sono pertinenti, ma gran parte mi sembra che siano affetti da errori spesso spettacolari, o da conclusioni erronee, legate ovviamente alla debolezza delle loro analisi geopolitiche.
Infatti, a differenza della geografia politica, che “descrive l’organizzazione del mondo diviso in Stati in un determinato momento”, la geopolitica ha per oggetto d’analisi i principali fattori che spiegano quest’organizzazione. Questi fattori possono essere raggruppati in “variabili contemporanee” (essenzialmente circoscritte nel tempo) e in “tendenze di lunga durata”. I nostri esperti autoproclamati privilegiano le tendenze variabili a detrimento di quelle di lunga durata, raramente trattate.
Queste tendenze di lunga durata possono essere raggruppate in due gruppi di di fattori: quelli legati alla Geografia (lo spazio) e e quelli legati alla Storia (il tempo). Prenderli in considerazione si rivela spesso indispensabile.
Un esempio: l’attuale conflitto russo-ucraino. Sul piano della Geografia, come ignorare il tema dell'”accesso al mare”, una costante nell’epopea russa e poi sovietica? Come dimenticare che uno degli obiettivi maggiori di Putin nella guerra all’Ucraina è direttamente legata all’ansia di accedere al mare, per ottenere infine la qualifica di superpotenza, sulle tracce delle ambizioni dell’Ammiraglio Gorckhov?
E sul piano della Storia, come non stupirsi che i nostri esperti spieghino che la maggior parte della popolazione del Donbass sia “filo-russa”, mentre è semplicemente “russa”, in conseguenza delle iniziative di Stalin e delle deportazioni massicce oltre l’Ural, all’indomani della grande Fame del 1933?
E si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi di questo tipo.
P.H. In occasione dell’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, dei cinque membri permanenti del consiglio di Sicurezza, solo Joe Biden era presente come capo di Stato. Si può allora parlare di un affanno delle Nazioni Unite con il continuo rafforzamento dei BRICS sotto la presidenza di Lula? Non siamo forse alla vigilia di un nuovo multilateralismo con la fine del modello dominato da un mondo occidentale che ha mostrato i suoi limiti in un mondo sempre più multipolare? Assistiamo al declino di un “Occidente” alle prese con con le sfide demografiche e climatiche? Che pensa del discorso bipolare politico-mediatico e neo-conservatore, con il mondo democratico (essenzialmente occidentale) da un lato, e dall’altro quello dei regimi autoritari, del Grande Sud?
J.S. Gli interrogativi differenti (di fatto complementari) evocati da queste due domande sottolineano di fatto un dilemma oggi fondamentale: la globalizzazione è all’apogeo o al crepuscolo?
Per i seguaci di una visione idealista della politica mondiale, la globalizzazione mercatista e liberale condurrebbe ineluttabilmente alla fine degli egoismi nazionali e all’avvento della pace universale. non potrebbe che rafforzare in modo lineare il processo di democratizzazione e di unificazione del pianeta a profitto di un multilateralismo pacifico, o di un governo mondiale!
Noi contestiamo radicalmente quest’analisi!
In effetti essa è rimessa largamente in questione dal fatto che i conflitti ad alta intensità (si veda la guerra in Ucraina) sono lungi dall’essere scomparsi, che la povertà e le ineguaglianze avanzano e che delle intere zone del pianeta restano escluse dalla crescita e a maggior ragione dallo sviluppo. Questa ideologia della “globalizzazione felice” è sostenuta da pensatori liberali come Alain Minc o Thomas Friedman.
Noi pensiamo al contrario che la globalizzazione, teatro di grandi rivalità e contenziosi tra Stati nazione, possa favorire l’espansione di potenze egemoniche, sovranità e anche neo-imperiali, mentre è in crisi un’ideologia che si scontra in pieno con la realtà, i cui protagonisti sono sempre più contestati dalle nazioni e i popoli che chiedono la “deglobalizzazione”, soprattutto nel “Sud globale”.
E noi siamo, in questo contesto, inclini a immaginare un futuro prossimo nel quale vedremo il pianeta fortemente coinvolto in quello che chiameremo volentieri il “ballo degli Imperi”, nel quale il ruolo principale sarà sempre mantenuto dagli Stati Uniti, che non sono affatto decadenti, contrariamente a quello che finora si legge, archetipo della “democrazia imperiale” e fiera del suo motto “libertà, uguaglianza, religiosità”; da una Russia che si rimette in piedi dalle sue metamorfosi, progressivamente risolvendo i sui problemi strettamente geopolitici interni; e una potenza egemonica cinese più desiderosa che mai di essere onnipresente sulla scala dell’Asia-Pacifico.
Poi c’è una troika di imperi potenziali che vorrebbero raggiungere qualcuno dei pretendenti: l’Unione indiana, gigante demografico dai piedi di argilla; l’Iran, ossessionato dal ricordo dell’Impero Persiano e capace di dotarsi ben presto dell’arma nucleare; e la Turchia, ossessionata da quello dell’Impero Ottomano, con un Recip Erdogan serio candidato allo status regionale di “Padrone degli orologi”.
Degli imperi reali o potenziali che contribuiscono, per il fatto stesso di affrontare delle organizzazioni non statali sempre più presenti, a farci riflettere sul fatto che il “Terzo Mondo”, territorio privilegiato delle brame, sarebbe sempre in una cattiva situazione … e che l’Unione Europea resterebbe uno zimbello!
P.H. Nel suo libro – scritto con Alexandre Del Valle – “Vers un choc global. La mondialisation dangereuse”, lei sostiene, tra l’altro, che l’Europa è davvero uno “zimbello”. È il frutto di un neoconservatorismo che avrebbe investito i diplomatici europei e quelli a Bruxelles, o la conseguenza di una sorta di liberalismo tipico delle istituzioni dell’Unione Europea? L’UE ha saputo reagire con forza e unità all’aggressione russa in Ucraina, o al contrario ha mostrato le sue debolezze con una politica sempre più a rimorchio della NATO e della diplomazia americana? È il risultatod’èn allargamento mal controllato che sarebbe all’origine delle incoerenze della politica internazionale europea?
J.S. L’Europa uno zimbello?
Non credo proprio al “declino dell’Occidente”, tenendo conto del perenne dinamismo americano, mentre l’Unione Europea mi sembra invece più che mai in declino. Istupidita dalla sua interpretazione utopistica della globalizzazione, ha rivelato per i tre decenni scorsi delle gravissime vulnerabilità. Ormai “ventre molle dell’Occidente”, si ritrova per colpa della sua apertura quasi senza limiti, esposta a un’impressionante serie di sfide, che affronta con maggiore difficoltàdelle altre grandi potenze: pandemia, disoccupazione endemica, crisi economiche e finanziarie ricorrenti, spopolamento delle campagne, invecchiamento, fuga dei cervelli (soprattutto verso gli Stati Uniti), brocratizzazione, debolezza imprenditoriale, delocalizzazioni industriali, dumping sociale, concorrenza sleale della Cina, islamismo in pieno slancio, immigrazione mal controllata, terrorismo, traffico id droga, criminalità organizzata, rivalità energetiche, minacce idriche!
Uno degli effetti secondari e piuttosto curiosi di questo processo è che gli Europei sembrano i soli al mondo a rigettare di fatto la propria identità , mentre le altre nazioni si sviluppano in reazione all’universalismo occidentale e utilizzano la globalizzazione come un vero volano della potenza della loro nazione, o della loro civiltà.
Si può sfumare questa constatazione, indubbiamente pessimista?
Certo, il PIL globale dei paesi membri dell’Unione Europea rappresenta il 25% della ricchezza mondiale. Certo, l’UE resta un partner economico fondamentale per il resto del mondo. Il suo settore secondario non è totalmente scomparso, anche se le delocalizzazioni hanno inferto un duro colpo a degli interi settori della propria economia. Con la maggior parte dei criteri di potenza che possiede (grandezza del mercato, moneta unica, manodopera altamente qualificata, governi democratici relativamente stabili), l’Unione Europea potrebbe acquisire (ritrovare?) un peso sulla scena internazionale. Inoltre, dovrebbe rallentare il processo di invecchiamento della popolazione e proteggersi contro la concorrenza sleale in materia di commercio internazionale. E poi voltare le spalle al buonismo per non essere uno zimbello!
P.H. Il titolo stesso del libro di Maurice Gourdant Montagne, “Les altre ne pensent pas comme nous” potrebbe spiegare questo abbaglio di molti politici e media europei, incapaci di pensare la complessità, come sottolinea regolarmente Edgar Morin. Non è forse proprio questa nostra incapacità di ascoltare gli altri, di dialogare, a rendere questa globalizzazione sempre più pericolosa? In questo senso, lei è stato, con due colleghi, uno italiano uno spagnolo, all’origine della creazione del programma Erasmus. Perché non fare un Erasmus dei giornalisti e dei politici?
J.S. Sì, condivido senza riserve l’osservazione di Maurioce Gourdant Montagne, e a maggior ragione la dimostrazione del nostro amico Edgar Morin. Anche se il nostro mondo occidentale non ha assolutamente l’esclusiva della cattiva conoscenza o dell’ignoranza della specificità degli altri.
Non credo affatto all’interesse di un programma del genere dell’Erasmus concernente il mondo politico in senso stretto, data la sua complessità. Al contrario, un programma Erasmus applicato all’ambiente giornalistico (il cui ruolo, si tratti della stampa, della radio o della televisione, non smette di crescere) mi sembrai linea di principio intrigante, soprattutto se riguardasse prioritariamente i giovani giornalisti. un soggiorno di lunga durata all’estero (magari sotto forma di scambio di giovani professionisti tra due organismi di stampa o due reti televisive) permetterebbe senza dubbio ai beneficiari del programma di arricchire la loro maniera di trattare i diversi fatti, soprattutto sociali.
E, per fare solo qualche esempio ormai classico, credo di poter dire, senza rischiare molto, che un soggiorno di durata abbastanza lunga di un giovane giornalista francese del Figaro o di Le Monde nella redazione del Guardian o del Times gli permetterebbe di capire meglio il senso di quello che dichiarava Winsotn Churchill: “ogni volta che dovremo scegliere tra l’Europa e il mare aperto, saremo sempre per il mare aperto”.
Un Erasmus dei giornalisti? Utopia?
Di fatto, quando – ormai un terzo di secolo fa – con i nostri colleghi Fabio Roversi Monaco di Bologna e Ricardo Bricall, Rettore di Barcellona, mettemmo in piedi, tramite la redazione della Magna Charta delle Università, il futuro programma Erasmus, eravamo lontani dall’immaginare un tale successo per questo programma.
Allora, perché non un “Programma Gutenberg” o “Théofraste Renaudot”?
Tradotto dal web site del think tank I-Dialogos ( https://www.i-dialogos.com/
In copertina: dettaglio della copertina del sopracitato libro di J. Soppelsa, A. Del Valle, Vers un choc global? La Mondialisation dangereuse