Fine di una vocazione

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Riassunto delle puntate precedenti. Kirmiz il rosso, l’antico pescatore Domenico, catturato dai turchi, rinnegato e convertito all’islam, partecipa a un’incursione a Napoli insieme al pirata e ammiraglio ottomano Uluğ Alì, con il segreto intento di cercare Caterina, l’ancella della Marchesa del Vasto di cui era innamorato. Ma la Marchesa e l’ancella erano assenti e, dopo un drammatico incontro con il fratello Nicola, Kirmiz deve tornare frustrato a Istanbul. Caterina resta colpita dall’episodio, che le viene riferito al rientro. Quando la Marchesa del Vasto si rende conto che sta per morire, fa sì che l’orfana Caterina abbracci la vita religiosa al fine di trovare casa e protezione. La madre e il fratello di Domenico, intanto, fantasticano l’una di espiare i peccati del figlio attraverso la propria confessione, l’altro di un recupero di Domenico alla propria terra e alla Vera Fede. Caterina entra infine nel Convento di Sant’Arcangelo in Baiano, nel quartiere di Forcella. La notte della sua professione di fede, la Madre Maestra, Suor Apollonia, bussa alla porta della cella. Confondendo misticismo ed erotismo, Caterina viene iniziata ad amori saffici…

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Caterina, in una confusa mescolanza di ardori giovanili e spirito mistico, si era abituata presto agli amori saffici con le consorelle. Erano manifestazioni dell’amore universale e dell’amore di Dio, erano rivolti a donne come lei consacrate, avvenivano entro quelle mura sacre… erano in qualche modo esercizio di fede. La stessa Suor Apollonia, la Madre Maestra, diceva sempre che la biforcazione della via dalla linea dritta della santità alle due linee divaricate che corrispondono alla virtù dello spirito e alla materialità della carne, non era necessariamente da interpretarsi in univoco senso, ma anche in senso rovesciato: le due linee divergenti confluiscono nella linea dritta; l’esperienza dello spirito e quella della materialità, del peccato, confluiscono nella linea della santità, e a essa conducono. Caterina non sempre comprendeva bene quei ragionamenti. Tuttavia, la regola imponeva obbedienza alle sorelle di più alto livello; e la Madre Maestra certo lo era.

A volte dalle celle provenivano non lamenti di piacere, ma urla di dolore. Caterina ne era inquietata, e ne chiedeva spesso la ragione ad Apollonia, oppure ad altre sorelle più anziane. A dire il vero, anche le altre professe, giovani come lei, sembravano saperne qualcosa; ma, quando domandate, erano sempre evasive. Talvolta qualche suora spariva per qualche giorno dal salterio o dal mattutino, e non compariva nemmeno al refettorio. Salvo ripresentarsi dopo qualche giorno pallida e smunta.

“È, malata, è stata malata…”, commentavano le sorelle.

Che malattie, si chiedeva la giovane, quali morbi imperversavano in quel convento?

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            Caterina, intanto, era stata adibita alla cura dell’orto dei semplici, dove si coltivavano piante medicamentose ed erbe aromatiche, nella tradizione di Ildegarda di Bingen. Non solo, infatti, l’anziana Suor Clotilde aveva bisogno di un’aiutante, perché l’età e la vista calante non le consentivano più di operare da sola; ma anche perché le preziose conoscenze erboristiche, tradizione della regola benedettina, dovevano essere tramandate.

“L’achillea”, le spiegava Suor Clotilde, “è piuttosto calda e secca e ha effetti vari e sottili sulle ferite. Un uomo i cui occhi siano oscurati dal versamento delle lacrime, macini con cura l’achillea e la deponga sopra gli occhi di notte, facendo attenzione che non ne tocchi l’interno, la lasci sino a mezzanotte e poi la tolga e strofini piano le ciglia con dell’ottimo vino; così gli occhi saranno guariti. Anche il crescione è di natura calda; chi ha l’ittero o febbre ne mangi spesso al vapore in una ciotola, e sarà guarito. E chi riesce a malapena a digerire il cibo che ha mangiato, prepari anch’egli il crescione a vapore in una ciotola, perché la sua forza proviene dall’acqua. La calendula, invece, è fredda e umida; contiene molta viridità ed è efficace contro il veleno, quando strizzata e posta calda sullo stomaco”.

Clotilde mostrava e spiegava, chiarendo l’importanza, per le monache dedite alle preparazioni officinali, di riconoscere bene le singole piante, di apprendere come coltivarle, di sapere quando fosse il momento della raccolta per l’infuso, la cottura, la distillazione.

“Alcune erbe e piante sono duplici”, ammoniva l’anziana suora; “Come la celidonia. Questa è molto calda, e contiene un succo velenoso e viscido. Poiché ha un veleno così nero e amaro, non può dare salute a una persona, perché anche se da qualche parte desse salute, darebbe maggiori malattie interne da qualche altra parte. Ma colui che abbia ulcere nel corpo, prenda del grasso, aggiunga abbastanza succo di celidonia e lo sciolga in una ciotola; poi si unga spesso, e verrà guarito”.

Una stessa cosa, pensava Caterina, usata in un modo faceva male, usata in un altro modo faceva bene. Come gli atti che ella stessa compiva con le consorelle, i quali atti, compiuti a scopo di libidine sono cattivi e peccaminosi, compiuti nell’amore di Dio sono salutari… Le successive spiegazioni di Clotilde la distolsero da quelle riflessioni:

“L’assenzio è molto caldo e pieno di forza, ed è il rimedio più importante contro tutti i languori. Versa abbastanza succo nel vino caldo e con esso inumidisci completamente la testa dolente fino agli occhi, alle orecchie e alla nuca. Lo devi fare di sera, quando vai a dormire e copri il capo con un berretto di lana fino al mattino. Ciò reprimerà il dolore della testa gonfia e il dolore dovuto a gotta, e soggiogherà anche il dolore interno alla testa. Versa il succo dell’assenzio in olio di oliva, riscaldalo al sole, e se qualcuno soffre di un dolore al petto che lo fa tossire, spalmi l’olio sul petto. E se gli fanno male i fianchi, metta l’olio anche lì; guarirà dentro e fuori. L’assenzio placa inoltre le debolezze ai reni e la melanconia, schiarisce gli occhi, rinforza il cuore, e impedisce che il polmone si ammali”.

Una alla volta, la vecchia monaca illustrò a Caterina le virtù e le proprietà di ciascuna delle preziose piante. La giovane apprese quindi come la galanga curi i dolori alla schiena, l’aquilegia purifichi dal muco, il piretro aumenti il sangue buono e rischiari l’intelletto, la lavanda allontani i pidocchi, la polmonaria aiuti e sostenga il respiro, la linfa della vite schiarisca la vista, come del resto la viola, che unita alla piantaggine e al pepe cura la terzana, e come la polvere di scolopendrio calmi diversi dolori. Lo zenzero, invece, cura chi sia troppo asciutto nel corpo, ma quando sia guarito non ne dovrà più mangiare. Assuma invece l’artemisia, chi abbia bisogno di espellere il marciume di troppo abbondanti libagioni. E, ancora, Caterina apprese delle proprietà del basilico, della menta, del prezzemolo, dell’ortica…

“Ildegarda”, spiegava Clotilde, “era una devota e pure una studiosa. Quando morì, apparvero due luminosi archi di diverso colore che si allungarono verso i quattro punti cardinali della terra; e dove si incontravano brillava una luce chiara a forma di luna, che splendeva in lontananza e dissipava le tenebre notturne dal letto di morte. In tale luce si vedeva una croce scarlatta e splendente attorniata da cerchi di vari colori, che si allungava e si chinava sulla casa in cui la buona donna giaceva, oramai tra le braccia di Nostro Signore”.

Suor Clotilde, che aveva fatto propria la missione della venerabile benedettina, dovette fermarsi e asciugare lacrime di commozione. Poi continuò.

“Nelle piante e nel loro colore verde, Ildegarda ha trovato la viridità, una forma sconosciuta di energia spirituale. Ella ha pure inventato una lingua ignota, fatta di segni non altrimenti noti, grazie alla quale parlava direttamente con Dio, il quale le mandava le divine ispirazioni attraverso una musica inaudita. Nella vita ebbe molte visioni, visioni di angeli; e qualche volta esorcizzava persone indemoniate”.

Entrambe le monache si segnarono.

“Ildegarda affermava che l’uomo racchiude tutti gli elementi del mondo, perché l’universo intero si riassume in lui, che è formato della materia stessa della creazione. Perciò egli può entrare in rapporto con Dio in modo consapevole. Ciò accade non per una visione diretta, ma attraverso l’azione totale di tutti i sensi esterni e interni”.

Anche da quelle affermazioni, a Caterina parve aver conferma che tutti i sensi portano a Dio; le vampe di fuoco di cui aveva letto nella Bibbia insieme ad Apollonia.

“Suor Clotilde, che piante sono quelle dietro il muro?”, chiese Caterina, e intanto si spostò verso un angolo recondito e separato del giardino.

Clotilde chinò il capo, e un velo di tristezza le trasparì dallo sguardo.

“Quelle non sono piante di Ildegarda”, disse; “sono piante di belladonna, aconito, iperico, sambuco, mandragola, verbena, stramonio, giusquiamo…”

Caterina si accigliò. Di quelle piante aveva sentito parlare nei commenti al processo a Bellezza Orsini, i cui echi erano giunti anni prima anche a Napoli, e di cui ancora talvolta si parlava. Bellezza aveva descritto i sabba al noce di Benevento e parlato delle erbe delle streghe: appunto belladonna, aconito, iperico, sambuco, mandragola, verbena, stramonio, giusquiamo…

“Andiamo!”, ordinò severa la vecchia Clotilde, stroncando sul nascere la curiosità che stava emergendo sul volto di Caterina circa la presenza di quelle piante nel convento.

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          Fu in seguito Apollonia a illuminarla.

“Quelle piante”, le spiegò una notte dopo uno dei ricorrenti amplessi, “servono a sciogliere i sensi, a liberare l’anima. Alcune di quelle piante inducono il sonno, altre sono veleni mortali. Non è Clotilde a occuparsene. Si devono raccogliere la notte di San Giovanni, che è una notte magica in cui le forze della natura conferiscono vigoria e virtù alle erbe bagnate dalla rugiada e baciate dai raggi della luna. Con esse erbe si preparano poi medicamenti, unguenti, impiastri, e balsami. Anche qui ne usiamo. Ricordi? Anche noi due ne abbiamo bevuto i decotti, qualche volta, o ne abbiamo unto le carni per meglio sentire le vampe di fuoco… Ma qui, in questo convento…”

Apollonia esitò, a dispetto della sua stessa impudenza.

“Ma qui, in questo convento, le preparazioni e le distillazioni le facciamo con l’acqua della Fistole, il corso che scorre rasente alle mura e che alimenta la fontana della Medusa. Le sue acque sono pregne di energie sottratte al suolo minerale e vulcanico di questa nostra terra…”

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Avite purtato ‘o ppane?”, chiese la giovane suora da una piccola grata.

Pane e pagnotte, farina e farenella”, rispose una voce dall’altro lato.

La suora aprì la porta che metteva in comunicazione un tratto marginale delle cantine del convento col sottoscala di una casa di Forcella, e fece entrare i due uomini. Si affacciò istintivamente all’uscio per assicurarsi che non vi fossero altri. Poi richiuse e sprangò.

“Non vi preoccupate, sorella”, disse uno dei due uomini; “Siamo stati prudenti, come sempre”.

Il gruppo si avviò lungo stretti e oscuri corridoi, lungo uno dei quali si apriva un pozzo profondo, cui la suora rivolse uno sguardo indecifrabile. Presto si giunse a un anfratto riparato del chiostro, presso la fontana della Medusa, dove attendeva un’altra suora…

“Fate attenzione”, raccomandò Suor Agata; “Molte di noi hanno già dovuto abortire”.

Poi, fu l’orgia.

Attirata dai pur sommessi rumori di quel raduno, Caterina si affacciò alla finestra della sua cella, che dava proprio in quell’angolo del chiostro. Vide perciò i due uomini allontanarsi furtivamente accompagnati da Suor Laura, fra gli abbracci e i baci di Suor Agata.

Non passò molto tempo perché Caterina comprendesse perfettamente che cosa avveniva nel convento. Le visite maschili erano frequenti, gli amplessi spesso collettivi. Le suore rimaste incinte dovevano abortire, per evitare lo scandalo, e i feti venivano buttati in un pozzo nelle cantine. Ebbe notizia di un terribile agguato appena fuori un’uscita secondaria del monastero, in cui parenti di monache disonorate avevano aggredito e ucciso due dei loro corruttori. A seguito della rissa mortale gli eventi del monastero erano stati conosciuti fuori, nel quartiere, nella città. Giulia Caracciolo e Livia Pignatelli, esponenti di importanti e nobili famiglie napoletane, garantivano al convento una certa protezione; ma fino a quando? Vi sarebbero stati processi. Le suore sarebbero state interrogate, torturate, castigate. Caterina percepiva la stessa preoccupazione nelle consorelle. L’atmosfera del monastero si faceva plumbea, e tuttavia gli intrighi e gli incontri continuavano. L’inquietudine crebbe quando Costanza, la Madre Badessa, morì avvelenata, e la suora che le successe come superiora, Elena Marchese, che aveva sorpreso in intimità suor Zenobia e l’amante Paolo, duca di Nardo, fu da entrambi pugnalata a morte. I due assassini erano scappati coperti da altre suore, che si occuparono anche di sopprimere consorelle complici o scomode testimoni. Erano state così uccise Chiara Sanfelice, a pugnalate, e suor Camilla Origlia, buttata giù da una finestra. Queste morti erano state denunciate come suicidi. Ma a Caterina fu chiaro che l’inquisizione di quei fatti si avvicinava, e che tutte sarebbero state coinvolte. Anche lei, che pure ancora non aveva toccato uomo.

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          Uno dei notturni frequentatori del Convento, un commerciante di nome Tommaso, l’aveva più volte guardata nelle occasioni in cui Caterina si avvicinava ai luoghi orgiastici, fingendo di volersi abbandonare anche a quei peccati, che invece in realtà abborriva, perché compiuti non con consorelle ma con uomini, per giunta nemmeno consacrati. Alludendo e guardando, comparendo e assentandosi, ammiccando e ignorando, fece immaginare a Tommaso la possibilità di una tresca. In una notte di luna nuova comparve in uno dei luoghi del peccato, dove Tommaso indulgeva con due monache, e si fece trovare alla fine, quando, esausti, i tre cominciavano a ricomporsi.

“Che fai qui?”, le chiese sospettosa Suor Lucrezia?

“Non temere, sorella”, rispose Caterina; “Non sarò tra le delatrici che abbondano tra noi. Voglio anch’io avvicinarmi a… a queste cose”.

“Sappiate, sorella”, intervenne Tommaso, “che se volete avvicinarvi a queste cose sarò felice di esservi compagno e guida”.

A queste parole, Lucrezia ebbe un moto di gelosia, mentre l’altra suora scoppiò a ridere.

“Per il momento mi limiterò ad accompagnarvi all’uscita”, fece Caterina. Poi, rivolta a Lucrezia:

“Dammi la chiave…”

Giunti al consueto uscio, Tommaso afferrò la ragazza e la baciò con prepotenza.

“Non qui, non così”, fece Caterina districandosi dal lascivo abbraccio; “Sarò tua, sì, ma non fra queste sordide mura, dove presto saranno tutte inquisite e forse incarcerate. Portami via, piuttosto, via da questo luogo dove la mia giovinezza non è mai davvero fiorita. Chiudiamo la porta dietro di noi e fuggiamo. No, non a casa tua, non ancora. Troviamo una locanda. Tolto il velo e aggiustata la tonaca non sarò riconoscibile come monaca; tutt’al più come una pia e devota bizoca. Lì, lì, tutti i baci che vorrai, gli abbracci; lì, tua, come vorrai…”

Leggermente stordito dall’inattesa virulenza con la quale gli si rivolgeva Caterina, che fino ad allora era apparsa più reticente e civettuola che realmente vogliosa, ma ancor più eccitato dalle delizie che quelle parole gli prospettavano, Tommaso accondiscese.

Chiusa a grandi mandate la porta dietro di sé, Caterina buttò la chiave in una saittella, e prese per mano l’uomo, allettandolo con sguardi dolci e sensuali. Ben prima dell’alba, i due furono in una locanda, dove date quattro monete a una vecchia sdentata, e ottenuta una giara di vino, poterono accedere a una sordida stanza.

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Il giorno dopo, in una mattinata piovosa, il ricco mercante di nome Tommaso si svegliò mezzo nudo nella sordida stamberga di Forcella. Era stordito, più stordito di quanto giustificasse il vino bevuto la sera prima. Gli doleva il capo, sentiva ancora un torpore strano.

“Suor Ioanna”, invocava nella nebbia della mente; “Caterina… dove sei? Che mi ha fatto bere stanotte… sto male, mi sento la bocca amara… dove sei?”

Nel barcollare incerto per la stanza, e più che mai malfermo sulle gambe, Tommaso incespicò in  una tonaca benedettina abbandonata scomposta sul pavimento e in un velo gettato in terra come un inutile straccio.

Un saltimbanco 

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“Ecqueme qua, per lo vostro sollazzo!

Sono il filosofo, il poeta, il pazzo!

Tengo la capa vacante, già ‘o saccio:

son saltimbanco, so’ ‘nu pagliaccio…

 

Co’ putipù e cu ‘nu scetavaiasse

faccio ‘o buffone e l’arruffamatasse;

vaco giranno pe piazze e contrade,

vaco p’e strade de questa cittade.

 

Quanne me sento la panza vacante

nun c’è rimedio, e sedutastante

piglia e ve faccio ‘nu spettaculille:

pirite, lazzi, pepé, frizze e trille.

 

Cu la trumbetta ve sono ‘a canzone,

voilà, m’inchino, e po’ a belle e buono

faccio ‘a capriola e cammino cu ‘e mane,

ve faccio ridere fino a dimane!

 

Sona ‘o tamburo: scetate, figliole,

ve porto rose, garofane e viole;

scennite gente, sto’ ca, iamme belle,

ca tengo strummule, corde e pazzielle!

 

Quanne arrivate, con parlar forbito,

accolgo subito il pubblico inclito

cu contentezza e cu bona maniera,

fosse matina, cuntrora o de sera.

 

Dei Paladini vi conto la storia,

degli spagnoli canterò la gloria.

Po’, all’intrasatta, ‘nu zumpo e ‘nu strillo,

‘na ncquacquariata e ‘nu sparaquadrillo!

 

A’, quanta cose ca io saccio fare…

‘ncoppe ‘a ‘na fune potrò cammenare;

faccio abballa’ cu ‘sti ddete ‘o bastone,

parlo cu ‘e pirite, faccio ‘o buffone.

 

Venite, gente; vulite ‘o cuncerto?

d’ogne strumento ca esiste so’ esperto:

trumbone, liuto, viulino e curnetto;

chitarra, nacchere e lu flagioletto.

 

Ve canto ‘e frottole e le villanelle,

strambotti, liriche e cchiu riturnelle.

Faccio vula’ sette palle pe l’aria,

me magne ‘o ffuoco; e ‘na spada carnaria

 

me pozzo ‘nghiottere senza timore…

Comme me chiammo? Chiammateme Tore,

lo schiavo vostro, lo vostro zimbello,

lo saltimbanco, lo bello zitello”.

“Ma c’aspettate? Venite a vedere li prodige de lo servitore vostro, miracule ca nun se po’ credere. Veniteve a ‘ncanta’ cu la magia de ‘sti mmane, ca fanne apparire e fanno scumparire cuniglie, palomme, fazzulette e mazzarelle. Vulite ‘e guarattelle? Le tengo tutte quante: ‘o nobile, ‘o capitano, il paladino Orlando e Sacripante, ‘o ricco e ‘o puveriello, l’angelo e ‘o diavulo, la speranza e la morte… Aggio mise li bandiere pe me fa’ vede’. Che aspettate, che aspettate, accurrite a chesta piazza; ciarlatane comm’a me nun s’e sonna manco ‘o Re! Uh, quanta cose tengo dinte ‘a chistu sacco! Maschere e trumpulette, moccature de tutte li colure pe fa’ l’arcobaleno pe l’aria, trampule pe fa’ ‘o gigante, spade, spadune e spatelle, l’acciarino, ‘a stoppa e ll’uoglio pe fa’ ‘o mangiafuoco…

Vulissive sape’ ‘o destino vuosto? Venite ‘cca, ca tengo ‘e carte pronte; so’ carte de fortuna, non sanno dicere che cose bone! ‘E capriole ca faccio io pe terra, lo core vuosto le farrà pe la felicità. Figliole belle, si vulite ammore, tengo ‘nu bello elisir pe vuie, ca si ‘o facite bevere ‘o nnammurato vuosto, nun ve scurdarrà cchiu! Venite gente, nun ve mettite appaura, nun ve mettite scuorno. Ve donco ‘n’ora de felicità!

Priesto gente, priesto oilà; mo’ venite, ca sto cca, e si lo sole già se ne sta’ scennenno, ce benedice ‘a luna, ca è amica de l’artiste e de l’annammurate… Cu li tammure ve sto chiammanne, priesto, gente, priesto a me…”

A quel frastuono presto si radunò una cinquantina di persone. Popolani e popolane, ma anche qualche signore. Un paio di dame fecero fermare la carrozza per ammirare lo spettacolo da lontano. Scugnizzi e ragazzini, che subito presero a motteggiare il saltimbanco per le vesti misere e variopinte e il berretto a sonagli. Due guardie di ronda si fermarono benevole a osservare e ad assicurarsi che nessun ladruncolo si approfittasse della calca. Quando ebbe concluso che più di tanti non sarebbero arrivati, il saltimbanco ripose il tamburo e riprese.

“Ah, c’avventure cu li turchi quanne venetteno a Chiaia!!! Ieveno truvanno a figliole belle pe fa’ ‘e suzzuse e a giuvane de bona salute pe ne fa’ schiavi. E io, ca ringrazianno a Dio de bona salute ne tengo fino a sempe, sarria stato certamente acchiappato, ‘ncatenato, miso ‘ncoppe ‘a na galera a rema’. O addirittura – ca Dio ne scansi e liberi, ca Dio ne scansi e liberi, ca Dio ne scansi e liberi! – o addirittura… Ueh, ma che ve site mise ‘ncapa, bona gente?!?! Vulevo dicere: o addirittura a servire come servitore del Sultano…”

L’allusione a possibili destini boccacceschi aveva provocato la maliziosa ilarità del pubblico. Il saltimbanco capì che li aveva in mano.

“Comunque, cari signuri e deliziose dame, Salvatore ‘o saltimbanco, servitore vostro devoto, piglia’, nun se fa piglia’. Quanne vedette la mala parata, me ne vulette ire a nasconnere dint’a ‘na chiesa. Ma ‘a chiesa steva chiusa, steve chiena ‘e femmene ca nun me vulevano arapì. ‘Vattenne’, dicevano, ‘vattenne, tanto a te nun te fanno niente’. Comme nun me fanno niente!!! Vulesse vede’ a vuie ‘ncatenate a vuga’ dint’a ‘na galera puzzulente. O addirittura – ca Dio ne scansi e liberi, ca Dio ne scansi e liberi, ca Dio ne scansi e liberi! – o addirittura…”

Il pubblico proruppe ancora una volta in grasse risate.

“Ueh, ma site overamente maliziuse!” continuò il saltimbanco; “Vulevo dicere, o addirittura a faticare schiavo dint’a ‘na fraveca e prete… ‘Nsomma, me ne iette da la chiesa e tinche tinche senza me fa’ vedere, me ne iette  dinte ‘a ‘nu purtone ca steva apierto. Me credeve de sta sicuro là dinte. Invece… ‘Piglia ‘a chillo, dalle ‘ncuollo, dalle ‘ncuollo! È ‘nu sarracino. No, dicevo io, nun sonco ‘nu sarracino… Forze m’avevano viste vestuto malamente e s’o credevano. Ah, Maronna mia, quanta lignate ca me dettero, ca me fanno ancora male ossa e pilossa!!!”

Al racconto di quelle disgrazie, il pubblico rise ancor più fragorosamente. Nulla fa ridere di più delle vicende sconce e delle altrui disgrazie. Il saltimbanco si mise ad armeggiare nel sacco, poi continuò con aria più lirica.

“Signuri eccellentissimi, e assai leggiadre dame: a Salvatore vuosto nun ‘o pigliano manco diecimila giannizzeri. ‘A vedite chesta fune c’aggio attaccate ‘ntra n’albero e ‘nu muro? Buono, pigliaie pure allora ‘na fune, ‘nu poco cchiu longa, e l’attaccaie de Pusilleche ‘o Castiello, e me mettette a cammena’ ‘ncopp’a fune comme sto facenno mo’…”

Nel dir questo, montò sulla fune che aveva teso e, fra gridolini ed esclamazioni di ammirazione della gente, si mise a camminare. E mentre andava avanti e indietro, bilanciandosi con un lungo bastone, cantava filastrocche ingiuriose, allusive e sfottenti verso i saraceni, i turchi, gli ottomani, i giannizzeri e il Sultano, entusiasmando il pubblico con movenze femminee che tornavano ad alludere alle sconcezze che aveva in precedenza fatto immaginare.

‘O sarracino e ‘o turco so’ fetiente:

uommene e femmene, ‘un fa’ differenza;

e cose turche, e turpe, e malamente,

fanno ‘a cca e ‘a là con gravida indecenza!

Nun c’è rimedio a chesta fellunia;

nisciune scampa si nun tene ciorte.

E si nun fuie de presse… arrassusia!!!

Annascunnete priesto, e statte accorte.

Alla corte del grande Solimano

non hanno scampo le belle zitelle!

Ma tuttavia, nell’Impero Ottomano

ce sta’ ‘nu cuofano de femmenielle!

Nel Gran Serraglio, ‘o Sultano fetente

femmene belle tene a centenare;

ogne nuttata, quell’incontinente,

ne piglia ‘a una, e se fa deliziare.

Po’, pe fa’ a guardia a chistu Gran Serraglio,

tanti guardiani pigliare ha dovuto;

prima però ci fe’ fare un bel taglio,

pe’ nun rischia’ de trovarse curnuto!

E po’ ‘e giannizzeri… che ne sapite!

Fanne paura cu ‘e spate e ‘e spatune;

ma so’ ‘na maneca de sodomite:

so’ pederaste, suzzuse e ricchiune!!!

Il pubblico, a quei licenziosi motteggi pronunciati ai danni dei temuti ottomani, a quelle movenze ambigue e allusive compiute mentre si cimentava con gran destrezza sulla fune, a quelle giravolte improvvise, alle capriole che non lo facevano cadere, alle comiche imprecazioni quando fingeva di perdere il bastone, recuperandolo poi con simulata goffaggine, si sganasciava dalle risate. Sceso dalla fune con un agile balzo, il saltimbanco prese a giocolare con palle e clave, ingoiò spade e stocchi, inscenò un breve spettacolo di burattini e lesse i tarocchi a un paio di ragazze vogliose d’amore.

“Si l’ammore cercate, allora add’ascire ‘na carta cu nu bellu giovane… vedimme ‘nu poco, ia’… ‘A vi’ ccanne, ‘a vi’! Lu Carro! Chist’è nu guagglione bello comme ‘o sole, è asciute pe vuie. Però nun sapimme che fa, addo’ sta… addo’ va… tiramme ‘nata carta… ‘A Rota d’a Furtuna. Significa ca forse site furtunata, ma po significa’ ca stu bellu guaglione vuosto mo’ stace viaggianno pe nave. ‘O vedite ‘o mare ca sta sotto ‘a rota? E pe’ mare, se sape, nun ce stanno taverne…Tiramme n’ata carta… Uh, Gesù! È asciuta sotto e ‘ncoppe, cheste nun è buono… Lu Diavulo! Lu Diavolo ca tene a ddoie persone ‘ncatenate. Vedimme ‘nu poco… ‘o giovane c’aspettate stace pe mare… forse è ‘nu marenare, oppure ‘nu piscatore. Forse è uno ca stace ‘ncatenato a ‘na galera? Figliola mia, ‘o mare avvicina e alluntana; a Rota d’a Furtuna gira ‘a cca e gira ‘a là… Avimme sulo vade’ comme avimma fa’ p’adderezza’ ‘stu Diavulo… Tiramme l’urdema carta…’O Magaro! Chesta è ‘na carta bona, figliola mia! Sentite a me, nun ‘o pensate cchiu ‘ o marenaro. Avviateve pe ‘n’ata strata. Guardateve attuorno, ca forse ce sta quacche d’uno ca ve pensa, forse è uno ca face ‘nu mestiere, che saccio, ‘o faligname, ‘o solachianelle… Gurdateve attuorno quanne ascite d’a casa, quanne iate a piglia’ l’acqua ‘o puzzo, quanne pazziate cu li cumpagnelle voste belle comm’a vuie… Forse atturno a vuie ce sta quacche d’uno ca ve pensa, e vuie nun ve ne site accorta. L’ammore vola, ma l’avite da acchiappare. Forse pur’isse sta aspettanno a vuie… E si m’avrete buono regalato, più priesto truverete ‘o nnammutato; si me trattate cu generosità, l’ammore nun se farà chhiu aspetta’!”

La giovane oggetto di quel vaticino se ne andò ridendo con le amiche, dopo aver dato al saltimbanco due tarì e una piccola cesta di uova. Anche il resto del pubblico si dileguò, chi lasciando qualche carlino, chi qualche derrata. Nel raccogliere le proprie mercanzie, Salvatore si accorse di un esile ragazzo biondo che era rimasto a guardarlo. Questi, osservando il saltimbanco alla fine dello spettacolo, si era reso conto che aveva il volto bello e triste.

“Leggetemi le carte”, disse il giovane.

“Che volete sapere?”, chiese Salvatore.

“Voglio sapere dove si trova una persona”.

Il saltimbanco fu un po’ stupito. Di solito erano le donne a farsi leggere le carte. E se qualche volta fosse stato un uomo ad accedere alle sue profezie, questi voleva sempre sapere di fortuna, ricchezza, potere, successo, gloria… mai un uomo gli si era avvicinato con domande d’amore. Quel ragazzo invece voleva sapere di una persona. Un innamorata perduta? Una passata passione? Una maliarda che l’aveva sedotto? E poi… una persona può essere anche un uomo. Era forse quel ragazzo un sodomita sulle tracce di un antico amante?

Il saltimbanco dispose di nuovo lo scannetto che aveva cominciato a riporre e invitò il giovane a mescolare le carte. Per motivi che non gli erano chiari, ebbe qualche attimo di esitazione nei preparativi. Come se non desiderasse che uscissero segni brutti, figure negative. Poi si fece coraggio, e presto tutto fu pronto. Il giovane sedette. Mescolò con cura e attenzione, scambiando ogni tanto qualche sguardo con il saltimbanco. Capì che questi lo stava studiando.

“Ecco”, disse il saltimbanco quando il ragazzo ebbe finito di mescolare; “Tirate la prima carta”.

Il giovane cominciò a trarre le carte coperte dal mazzo disteso sul tavolo, e a rivolgerle per far apparire le figure.

“Le carte escono strane, poco chiare. E io, che sono qui davanti a questo saltimbanco dal volto triste, non capisco che vogliano dire. Alcune carte sono belle… la Stella, l’Imperatrice, la Forza… altre inquietano: il Matto, la Papessa, la Luna. Altre fanno paura: il Diavolo, la Morte… Ma questo è niente. Quello che più mi turba è che il saltimbanco, così gradasso nei suoi giochi, così sicuro quando leggeva le carte a qualche ragazza del pubblico, adesso mi appare incerto, inquieto; a volte confuso. Esita nello spiegare le figure che escono. Trema con la voce quando mi chiede, quando cerca di farmi capire il significato delle lame. Lame che mi fa tirare in continuazione senza costrutto. Tace pensieroso per lunghi momenti, come se non me stesse indagando, non il mio destino, ma come se volesse leggere dentro di sé. Mi guarda stranamente, come se qualcosa lo attraesse e qualcosa lo respingesse. Che sta capendo di me, della mia sorte, del mio futuro in questa città fulgida e disperata? E dopotutto, anche io… sono su queste carte per cercare una persona, per averne notizie, per sapere se la rivedrò. Ma è veramente questo quello che cerco, quello che desidero? O forse questa futile domanda cela interrogativi che ho dentro e non ho il coraggio di formulare? Le carte contengono un potere misterioso e conturbante. A volte ci dicono ciò che non vorremmo sapere, che non vorremmo vedere”.

“Non riesco a trovare una logica in queste stese, io, il più gande indovino e cartaro, il meglio saltimbanco di Napoli. Perché non esce alcun filo intellegibile? È tutto confuso, non mi sento tranquillo. Mi pare che le carte non parlino di questo giovane che ho davanti, ma parlino di me. Che cosa vuol dire la figura della Morte, che continua a uscire a ogni nuova lettura? Forse uno di noi due sta per incontrare la Nera Signora? O forse siamo prossimi a qualche cambiamento drastico, radicale, forse tremendo? E questo per chi, per chi di noi due? Perché è chiaro che le carte stanno creando un filo che mi unisce a questo giovane che nemmeno avevo notato prima di finire lo spettacolo. Qualcosa in questo giovane mi attrae come se fosse un immagine di me allo specchio. Ha qualcosa dentro che mi parla, Che cos’è? Io non ho mai avuto tresche con uomini. Che mi sta succedendo? È forse questo il cambiamento che le carte mi stanno annunciando? Potrò forse amare un altro uomo?”

“Non è uscito niente di significativo, dalle carte. Niente. Nessuna indicazione di me, di ciò che mi aspetta, di quello che cerco. Almeno il saltimbanco non mi ha saputo dire niente. Anzi, quello che mi ha detto aumenta la mia incertezza. Mi ha detto che non è importante ciò che cerchiamo, ma ciò che ci cerca. Non importa ciò che crediamo di desiderare, ma ciò che abbiamo veramente nell’anima. Mi ha chiesto se ho mai amato un uomo. Gli ho risposto che non ho mai avuto commercio di alcun tipo con uomini, ma sento che questo avverrà. Ho scorto una piccola strana luce brillare negli occhi del saltimbanco. Ora lo vedo assorto raccattare le carte dallo scanno e riporle nel sacco. Mi guarda con gli occhi tristi”.

Il saltimbanco si mise a sedere sullo scanno, restando in silenzio e guardando nel vuoto. Il pallore mesto del volto contrastava vividamente con l’abito variopinto da pagliaccio. Poi esordì.

“La carta che più ha parlato”, disse, “è quella della Morte. È uscita sempre. La morte aspetta uno di noi, e io, non so perché, vorrei che non stesse aspettando voi. Però la carta della Morte non è detto che significhi morire. Forse indica un cambiamento, una morte non della persona ma di qualcosa che abbiamo dentro. Una morte che stravolge le cose come le abbiamo finora vissute e apre nuove strade… La fine di una situazione e l’imbocco di nuove vie”.

“Prendetemi con voi”, disse il ragazzo; “Non so dove andare, e ho visto che talvolta siete in difficoltà con il vostro sacco e con tutte le cianfrusaglie che contiene. Io vi potrei spalleggiare, assistere, porgervi gli attrezzi che vi servono, aiutarvi a tendere la fune…”

Il saltimbanco non avrebbe mai considerato una possibilità del genere. Ma del resto, perché no? Una compagnia nella sua vita nascosta e solitaria, mestamente allietata ogni tanto solo da qualche puttana o da qualche giara di vino, sempre che avesse in tasca le monete necessarie. Era dal momento del fattaccio che non si univa a nessuno. La solitudine, indispensabile e necessaria compagna, era la sua sola garanzia. Ma quel giovane biondo… sembrava più solo e disperato di lui; non avrebbe rappresentato alcun pericolo. Avrebbero curato insieme il materiale per gli spettacoli e avrebbero potuto condividere i momenti di solitudine. Nel rimuginare questo, il saltimbanco ebbe un brivido: condividere… condividere che cosa, fino a che punto?

S’era fatta sera. I due si incamminarono lentamente, alternandosi nel portare a spalla il sacco degli attrezzi.

“Abito qua, in questo tugurio”, disse Salvatore, introducendo il giovane in un umido e maleodorante alloggio nel quartiere del Pendino; poco più che un sottoscala seminterrato; “Fatevi un giaciglio con quegli stracci”.

Il giovane si sistemò alla meglio. D’altra parte, non aveva nulla con sé. Il saltimbanco lo osservava mentre si ricavava con certa grazia un minimo angolo a sé riservato.

“Il cantero lo sistemiamo tra i due letti”, suggerì Salvatore, “così lo possiamo utilizzare tutti e due”.

Accomodata la stanza, il ragazzo si sedette sul giaciglio di stracci, e si mise a osservare l’uomo, a sua volta seduto sul proprio letto.

“Fate il saltimbanco di mestiere”, disse; “Ma appena finite di fare il pagliaccio, un’ombra scende sul vostro volto”.

Salvatore si rabbuiò. Non gli piaceva che qualcuno lo notasse.

“E che vi importa”, rispose stizzito; “Non sempre quello che abbiamo dentro coincide con quello che si vede fuori. Voi, piuttosto: sembrate solo e sperduto, vagabondo più di me; eppure, i vostri abiti sono eleganti, fini. Li avete rubati?”

“Siamo entrambi fuggitivi”, rispose il ragazzo; “Io so da che cosa fuggo; non so da che cosa fuggite voi. Ma forse, se ce lo diciamo, ci sentiremo più liberi. Forse la carta della Morte ci ha voluto dire proprio questo, che dobbiamo tagliare via da noi le nostre angosce, con un colpo di falce; proprio come fa la Grande Mietitrice”.

Salvatore rimase impietrito nell’ascoltare quelle parole. Come poteva, quel giovane uomo venuto da chissà dove, avere una così semplice e lineare sensibilità, una tale capacità di leggere nelle più recondite profondità dell’anima?

Il ragazzo si dispose sul misero giaciglio in una posizione più rilassata. L’ora era tarda, e l’appetito incombeva.

“Non mangio da ieri”, disse; “avete qualcosa?”

Il saltimbanco sollevò il coperchio di un baule, e ne trasse una pagnotta sereticcia e una giara di vino rosso. Spezzò il pane e versò il vino in una ciotola; poi depose il tutto su una panca che collocò fra sé e il giovane.

“È tutto quello che ho”, disse; “Il pane è duro, ma lo possiamo bagnare nel vino”.

Entrambi si accinsero a mangiare senza scambiarsi alcuna parola. Gravava sulla grama cena l’aspettativa del ragazzo di sapere e il bisogno del saltimbanco di raccontare.

Io stevo a Panecuocolo”, disse infine Salvatore, vinto dalla necessità di metter fuori di sé l’angoscia che lo perseguitava; “Le cose che mi avete visto fare, la fune, le acrobazie con le palle e i bastoni, le magie… le facevo da ragazzo con i compagni di gioco, in mezzo ai vicoli. Così, per divertimento mio e degli altri. Quando mi feci grande, mi feci fornaio, nel forno di mio padre. Panecuocolo è dove ci sono i migliori forni e dove si fa il pane migliore. Lavoravo e impastavo di notte, insieme ai miei fratelli, per vendere il pane la mattina. Mia sorella Marianna aveva sedici anni. Veniva la mattina con le ceste per caricare le pagnotte e portarle al mercato. Una sera, tornando dal mercato, si imbatté in un gruppo di soldati spagnoli ubriachi. Quando arrivò a casa, lacera e piangente, sembrava mezzo morta. Insieme ai fratelli andammo alla caserma, l’indomani, a chiedere giustizia. Uscì un ufficiale, che alle nostre rimostranze disse che i soldati è logico che si divertano, e che le ragazze bisognerebbe sorvegliarle e tenerle in casa. Ne nacque un alterco. Cavai di tasca un coltello e lo ammazzai. I miei fratelli mi nascosero, poi fecero credere che ero fuggito allontanandomi dal Vicereame. Io riparai a Napoli, dove si trova tutto e nessuno si trova. Mi misi a fare il pagliaccio per poter vivere. Non volevo tornare ai forni, perché prima o poi, nel commercio del pane, sarebbero riusciti a risalire al mio passato e al mio delitto. Mi celo in questi abiti variopinti e visibili; mi nascondo presentandomi nelle piazze, in mezzo alla gente. Non so se ancora mi cercano altrove, o se hanno smesso di cercarmi. Ho tagliato i ponti col passato, con la famiglia…”

Salvatore cadde in un lungo accorato silenzio.

“Queste cose non le ho mai raccontate a nessuno”, disse poi; “E non so perché ve le sto raccontando a voi”.

Giunse la notte; ma nessuno dei due aveva sonno. Da una risicata finestrella si affacciava una luna scintillante e lugubre.

“Anche io celo un segreto”, disse il giovane biondo guardando negli occhi il saltimbanco.

Si alzò in piedi e si levò la ricca giubba, mettendo allo scoperto due seni acerbi e ancora non toccati da maschie mani che puntavano davanti; come in una sfida; come in una richiesta.

Dalla finestrella, la luna assistette a lunghe ore di amore e di piacere, di abbracci e di racconti, di liberazione e sogno.

 

Cari lettori, sospendiamo qui questa prima fase del romanzo “Il turbolento mare del sabir”. Diciamo che si è trattato di un assaggio, di un prologo; perché le rocambolesche avventure di Caterina, di Domenico, di Nicola, di Apollonia e di tanti altri personaggi continueranno a percorrere le tormentate acque del Mediterraneo cinquecentesco, nell’auspicio che divertano e che aiutino a comprendere la Storia vera del Mediterraneo cinquecentesco, con cui regolarmente s’intrecciano.

Il romanzo completo verrà presto pubblicato integralmente in un e-book, di cui vi daremo notizia.

Grazie a tutti coloro che seguono e che seguiranno questa narrazione!

 

In copertina: foto di Anne Drerup

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.