In generale, l’evoluzione del processo di integrazione in ambito europeo in materia di sicurezza e difesa non ha seguito un disegno unitario, ma costituisce piuttosto il frutto delle diverse circostanze storiche e geopolitiche alle quali l’Europa si è trovata confrontata dal secondo dopoguerra ad oggi.

In tale processo evolutivo, possiamo identificare tre trappe con il nome del modello che è stato via via costituito: la CED (Comunità europea di difesa); la UEO (Unione dell’Europa Occidentale) e la PESC-PSDC (Politica estera e di sicurezza comune – Politica di scurezza e difesa comune).

La CED rappresenta probabilmente per molti il punto di arrivo al quale tendere oggi. La sua costituzione è stata resa possibile dallo spirito esistente subito dopo la Seconda Guerra mondiale molto favorevole al processo di integrazione in seguito allo choc determinato dagli eventi collegati alla guerra.

La CED prevedeva l’unificazione degli eserciti dei Paesi membri allo scopo di provvedere alla difesa territoriale della Comunità, ma lasciava sopravvivere gli eserciti nazionali per la conduzione delle operazioni fuori area (la Francia avrebbe continuato ad avere il suo esercito nelle colonie). A tale livello di integrazione si accompagnava una forte governance sovranazionale, ispirata al modello dell’allora CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). In particolare, questo modello assegnava un ruolo importante all’Assemblea parlamentare della CED per il controllo democratico della politica in esame.

La CED era il risultato di un compromesso tra Stati uniti e Europa sul riarmo tedesco, con i primi favorevoli e la Francia disposta ad accettarlo solo in un contesto fortemente controllato a livello europeo. Propria a causa di quest’ultima, il trattato istitutivo della CED non entrò mai in vigore il che rappresentò un trauma per il processo di integrazione nella materia difficile da superare.

La UEO era stata costituita subito dopo la Seconda Guerra mondiale su iniziativa franco-britannica per contenere il riarmo tedesco. In seguito al fallimento della CED, nel mutato contesto della Guerra fredda accoglie anche Germania e Italia e, progressivamente, altri Paesi europei, anche con status diversi in ragione delle loro caratteristiche costituzionali.

 

La UEO si limita a stabilire una clausola di legittima difesa collettiva, ancorché dal carattere piuttosto stringente. Come l’analoga clausola presente nel trattato NATO, considera l’aggressione a un membro dell’Alleanza come aggressione a tutti gli altri, ma, mentre la clausola NATO lascia liberi i membri dell’Alleanza di decidere le modalità mediante le quali soccorrere l’alleato aggredito, la clausola UEO impone agli altri membri l’adozione di tutti i mezzi in loro possesso, imprimendo quindi un certo automatismo all’intervento in legittima difesa collettiva. In compenso, la clausola UEO afferma la propria subordinazione alla clausola NATO.

La UEO non è dotata di una governance sovranazionale, ancorché prevedeva una Assemblea Parlamentare dell’UEO che, per tutto il periodo della Guerra fredda, ha costituito l’unico luogo di dibattito democratico in Europa sui temi della sicurezza e della difesa.

A parte il ruolo assunto dall’Assemblea, la UEO è rimasta di fatto quiescente per tutto il periodo della Guerra fredda per essere riattivata dopo la fine di quest’ultima come strumento operativo dell’UE in seguito all’attribuzione ad essa di competenze nella materia.

 

In seguito alla fine della Guerra fredda, l’Unione europea assume qualche competenza significativa in materia con il trattato di Maastricht che dedica il suo c.d. secondo pilastro alla PESC. Come reazione ai conflitti nei Balcani degli anni ’90, su iniziativa franco-britannica, verso la fine degli anni ’90 viene aggiunta alla PESC la PESD, strumento più operativo. L’intera materia viene riordinata con il trattato di Lisbona del 2009 che istituisce la PESC-PSDC.

 

Gli obiettivi della PESC sono essenzialmente legati alla sicurezza fuori area, finalizzati a rispondere alle minacce tipiche del contesto geopolitico successivo alla fine della Guerra fredda: mantenimento della pace, interventi umanitari, risposta alle crisi. A ciò si aggiunge l’assorbimento della clausola di legittima difesa collettiva prevista nel trattato UEO, ripresa con gli stessi termini, più stringente della corrispondente clausola NATO, ma nuovamente subordinata a quest’ultima. La presenza di questa clausola avrebbe delle conseguenze evidenti in caso di ingresso dell’Ucraina nella UE.

Dei sistemi precedenti, la PESC-PSDC non eredita tuttavia il sistema di governance. Sulla materia decide il Consiglio all’unanimità con l’aiuto di diversi organismi, alcuni dei quali ereditati dall’UEO. Il ruolo della Commissione e, soprattutto, del Parlamento europeo è decisamente limitato.

Il quadro normativo non prevede che la PESC-PSDC sia dotata di mezzi propri, ma soltanto di mezzi forniti dagli Stati membri, unilateralmente o congiuntamente, finanziati con il proprio bilancio statale (c.d. willing States). In pratica, in un primo momento, la PESC-PSDC si è avvalsa sul piano operativo dei mezzi messi a disposizione nel quadro UEO, mentre solo successivamente di mezzi messi a disposizione nel quadro UE. In questo contesto, sono nate talune esperienze, quali quella dei Battlegroups, mai utilizzati in pratica, accanto a missioni operative essenzialmente di peace-keeping / peace building (c.d. missioni Petersburg).

 

L’aggressione russa all’Ucraina ha decisamente cambiato la percezione della minaccia in seno all’UE ponendo seriamente la questione dell’adozione di un modello di difesa integrato che vada oltre il quadro al momento sussistente.

Qualche elemento in questa direzione esiste già. La Bussola strategica dell’Unione europea è stata adottata dopo l’aggressione russa all’Ucraina, anche se a lungo preparata prima di essa. Essa tiene largamente conto del mutato contesto storico-geopolitico in più punti. Innanzitutto, prende atto del cambiamento del tipo di minaccia cui l’Unione è esposta. Non si tratta più solo di fare fronte a crisi fuori area, ma di fare fronte a una minaccia percepita come territoriale e ai valori su cui l’Unione si fonda. Secondariamente, si afferma la necessità di riorientare le politiche UE, segnatamente quelle economiche, in modo da tenere conto di tale cambiamento (con accenni alla politica industriale, spaziale e in materia di investimenti). Si auspica quindi un aumento degli investimenti in materia di difesa da parte degli Stati membri, assegnando alle istituzioni dell’Unione un ruolo di razionalizzazione della spesa. Infine, si auspica un rafforzamento della struttura militare con la predisposizione di un embrione di forza comune (composta di 5000 persone) a comando permanente accentrato a livello europeo.

L’art. 42.2. del trattato sull’Unione prevede già ora la possibilità di passare a una difesa comune a condizione che vi sia l’unanimità del Consiglio europeo e l’approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. Tale passaggio non è però possibile se non ci si accorda su alcuni punti essenziali. Innanzitutto, su cosa si intende esattamente per difesa comune. Questo concetto include la difesa territoriale dell’Unione, la risposta alle crisi fuori area o entrambi gli aspetti? Implica la creazione di un esercito comune, unico o affiancato agli eserciti nazionali? Con quali competenze rispettive? Include anche la proprietà da parte dell’Unione degli armamenti necessari o questi rimangono sotto il controllo degli Stati membri? Secondariamente, sul tipo di governance di cui tale difesa comune sarà dotata. Sicuramente, il mantenimento dell’unanimità darebbe una forza particolare alle decisioni adottate dall’Unione europea, ma renderebbe il funzionamento del meccanismo quantomeno incerto. Il passaggio alla maggioranza qualificata consentirebbe probabilmente una maggiore efficacia ma non sarebbe esente da problemi: innanzitutto, potrebbe essere complicato da accettare senza meccanismi compensativi per alcuni Stati Membri in ragione del loro assetto costituzionale; inoltre, richiederebbe senz’altro un salto di qualità della struttura decisionale politica su cui si fonda l’Unione. In tutti i casi, andrebbe certamente ripensato il ruolo del Parlamento europeo e della Commissione.

In ragione delle circostanze storiche e geopolitiche che si sono delineate già da un po’ di tempo e che taluni eventi recenti hanno solo contribuito a rendere più evidenti (aggressione della Russia all’Ucraina, posizione degli Stati Uniti), l’adozione di una difesa comune sembra un passaggio ineluttabile per l’Unione. Più problematico è sapere come fare questo passaggio e con quali contenuti. Per questa ragione, sarebbe molto importante che le forze politiche presentino dei progetti, anche dotati di una certa concretezza, sui quali misurarsi. Possono essere la prima bozza su cui impostare la discussione. In quest’ottica, sarebbe molto interessante se i partiti della socialdemocrazia europea si riunissero assieme per elaborare un progetto che dica di quale difesa comune intendono dotare l’Europa per gli anni a venire.

L'autore

Avatar photo

Marco Balboni

Marco Balboni è professore ordinario di Diritto internazionale presso l’Università di Bologna, Campus di Forlì, dove tiene corsi in Diritto internazionale e Diritto europeo. I suoi principali argomenti di ricerca riguardano i diritti umani, con particolare attenzione al diritto antidiscriminatorio per motivi di genere, orientamento sessuale e identità di genere, la tutela degli stranieri, il diritto dei conflitti armati e la giustizia penale internazionale. È direttore del Centro Forlì Human Rights Interdisciplinary Centre (HRIC) e del Master in Diplomazia presso l’Università di Bologna, nonché membro del collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Diritto dell’Unione europea presso la stessa Università. È stato visiting presso diverse università e istituzioni straniere e senior legal advisor per l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali. È membro del comitato editoriale della rivista Diritto, Immigrazione, Cittadinanza.