Il disegno di legge governativo n. 1433/25, offerto dal Governo Meloni alle donne in occasione della giornata internazionale dei diritti delle donne, il cui fulcro è la creazione di una nuova fattispecie di delitto esplicitamente denominata “femminicidio”[1], ha suscitato un vivo dibattito in cui si è inserito un appello fortemente critico[2] elaborato da numerose giuriste, universitarie studiose e docenti di diritto penale, che ha suscitato l’interesse dei media italiani e stranieri. Io stessa sono stata intervistata da una giornalista della BBC in merito alle ragioni alla base del Ddl, in particolare se esista nel nostro Paese un’emergenza tale da giustificare la previsione di un nuovo tipo di reato intitolato al “femminicidio”. Un nodo estremamente importante al riguardo è la necessità di tenere distinte le considerazioni sulla gravità del fenomeno dal punto di vista sociale da quelle che attengono ai presupposti per un intervento nel campo penalistico. Nessuno dubita che si tratti di situazioni e comportamenti da contrastare nel modo più efficace con il potenziamento degli strumenti che promuovono l’approfondimento delle radici del fenomeno sul piano culturale ed educativo, insomma puntando su politiche di prevenzione, adeguatamente finanziate.
Altro è invece il testo governativo, il cui fulcro è la creazione di una nuova fattispecie di delitto esplicitamente denominata “femminicidio” e sanzionata con la pena dell’ergastolo (fisso/automatico, diversamente dall’omicidio in cui l’ergastolo si applica solo in presenza di aggravanti) per chiunque (soggetto neutro) uccide “una donna”. L’iniziativa si caratterizza per l’innovazione linguistico/normativa costituita dall’introduzione per la prima volta nella legge penale del lemma “femminicidio”, termine mutuato dal linguaggio sociologico. Peraltro la legislazione sovranazionale non contiene espresse indicazioni in tal senso[3].
Il motore della iniziativa governativa parrebbe essere il cd. Libro Bianco Roccella, “Libro bianco per la formazione sulla violenza contro le donne”, che prospetta come “auspicabile” che il femminicidio “diventi un delitto a sé”, senza contenere alcuna indicazione, peraltro, di una opzione precisa tra le possibili scelte tecniche. Eppure, l’utilizzo dello strumento giuridico richiederebbe una disamina attenta, soprattutto nel campo del diritto penale, così neutro e tradizionalmente maschile. Occorrerebbe essere consapevoli che la creazione linguistica di “femminicidio” nel diritto penale (ma non certo nella consapevolezza sociale, che la usa ormai ampiamente) e sanzionata in ogni caso con l’ergastolo, rischia di essere dannosa, se non è veicolata e trasposta in una fattispecie effettiva, solida, applicabile, non selettiva, avallando un inaccettabile diritto penale del nemico, qui il femminicida (da aggiungere agli altri nemici, quelli, per esempio repressi dal recente decreto legge “sicurezza”).
Ciò rende assolutamente criticabile il Ddl del Governo, che ha scelto d’imperio e senza tener conto delle esigenze tecniche connesse al sistema penale: il bene tutelato è definito come “l’uccisione di una donna in quanto donna”, che resta troppo vaga oltre che escludente rispetto alle persone Lgbtq+; l’ autore, al contrario, è neutro e non sessuato; si crea una fattispecie autonoma pur essendo già vigente il reato di omicidio aggravato, che permette di punire anche il femminicidio, che, pur senza essere legislativamente nominato, è da anni punito pesantemente e anche con l’ergastolo. Lo dimostra l’ergastolo a Turetta per l’assassinio di Giulia Cecchettin, ma anche molti altri casi, e lo attestano le indagini statistiche note.
Nel Ddl manca inoltre l’individuazione della qualità e numero delle aggravanti e dell’entità della pena; la contestuale normazione penale di tutte le altre forme di violenza contro le donne; e, soprattutto, le contestuali norme di prevenzione e di stanziamento risorse. La comparazione con altri paesi europei non supporta la scelta governativa: solo Cipro, Malta e la Croazia hanno introdotto un reato di femminicidio. Altri ordinamenti costituiscono esempi molto più interessanti. L’ordinamento belga ha sì intitolato al femminicidio una legge, ma solo dopo aver aperto e stimolato un confronto ampio sul tema e concludendo per la non necessità di una fattispecie di reato, invece articolando una legge sia a carattere preventivo sia di disposizione di strumenti giuridici sul tema più generale di violenza contro le donne basata sul genere. Vale anche l’esempio spagnolo, che neppure nomina il femminicidio nel suo sistema penale, puntando invece sulla prevenzione che è sostenuta finanziariamente, mentre sul piano giuridico ha elaborato una aggravante generica per tutti i delitti (art. 22, n. 4) e una ipotesi di violenza domestica abituale (art. 173).
Le critiche nei confronti del Ddl Meloni trovano conferma anche sulla base della svolta che si è verificata in alcuni paesi sudamericani che dal 2007 in poi avevano normato il “femminicidio”, come per esempio il Cile, e che nel 2020 hanno criticamente rivisto le prime entusiastiche riforme, cavalcate all’unanimità, a causa della difficoltà di applicazione effettiva delle nuove norme. La comparazione con il Sudamerica fa emergere anche un profilo di significativa differenza con l’Italia. Là, soprattutto nei paesi con numeri più impressionanti di assassini di donne[4], l’attenzione riformatrice era rivolta primariamente a creare consapevolezza socio/culturale della tragica realtà machista e patriarcale, legittimata dalle istituzioni e di fatto impunita. È a questo fine che i movimenti femministi attuarono tutte le possibili pratiche politiche, ivi comprese l’utilizzazione del termine “feminicidio” non solo sul piano sociologico ma anche giuridico. In merito non si può negare che la realtà italiana non è equivalente nè sotto il profilo quantitativo – che resta comunque tragico a prescindere dai numeri–, nè sotto il profilo della complicità istituzionale.
Una questione ulteriore, infine, concerne la necessità di formulare e condividere una definizione sociologica del femminicidio (ancor prima che giuridica) anche allo scopo di elaborare le statistiche[5]. Attualmente, il Ministero degli interni non usa la parola “femminicidio”, ma conteggia gli omicidi commessi e gli omicidi con vittime di sesso femminile, in questi distinguendo quelli commessi in ambito familiare e affettivo e poi selezionando quelli commessi da partner o ex partner. L’ultima rilevazione trimestrale del marzo 2025 registra un lievissimo calo rispetto all’anno precedente[6]. Comunemente si afferma che in Italia i femminicidi vedono vittima una donna ogni tre giorni. Eurostat nella rilevazione riferita all’anno 2022 vede l’Italia con il più basso tasso di omicidi: quanto ai femminicidi siamo quartultimi.
Ma noi italiani non abbiamo motivi per non preoccuparci perché il fatto significativo e che dovrebbe fare riflettere e indurre a serie politiche di prevenzione è che, a fronte del calo progressivo di tutti gli omicidi di maschi e femmine (soggetto attivo e soggetto passivo), sono invece sostanzialmente stabili quelli che potremmo convenzionalmente definire femminicidi, che non diminuiscono affatto come invece avviene nel fenomeno più generale. Ma è falso che siano in aumento e sbaglia (o mente) chi lo dice o lo lascia intendere, creando insicurezza e fomentando politiche sicuritarie e autoritarie.
In conclusione, l’intervento governativo ha polarizzato e strozzata la discussione, mentre la decisione di nominare nel diritto penale le donne e il genere è uno sforzo teorico di innovazione e cambiamento che richiede riflessione e confronto, non certo forzature governative mosse da urgenze populistiche.
[1] Art. 577-bis (Femminicidio) <<Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo.>>
[2] https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/05/29/il-reato-di-femminicidio-presentato-dal-governo-le-ragioni-della-nostra-contrarieta-appello-di-80-giuriste/
[3] La Convenzione di Istanbul neppure contempla la parola. La Direttiva (UE) 2024/1385 del 14 maggio 2024 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, si riferisce al femminicidio, ma per farlo rientrare, “qualora previsto negli ordinamenti nazionali”, nella definizione di “violenza contro le donne”. Il termine specifico “femminicidio” non si rintraccia neppure nella CEDAW – Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979, e neppure nella Racc. n. 35/2017 sulla violenza di genere contro le donne
[4] L’organismo ONU ECLAC – Commissione Economica per l’America latina e i Caraibi conteggia nell’anno 2023 una media di ben 11 donne al giorno assassinate per motivi basati sul genere.
[5] A soli fini statistici già dal 2019 UNODC United Nations Office on Drugs and Crime e UNWOMEN United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women hanno elaborato “Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls (also referred to as “femicide/feminicide”)”
[6] La Casa delle donne per non subire violenza di Bologna monitora da anni il “femicidio”, conteggiando i femicidi/femminicidi e elaborando le notizie di stampa secondo una sua propria definizione. Nel 2023 ha conteggiato n. 115 femminicidi.