Siid Negash, nato in Eritrea nel 1979, vive a Bologna.
È consigliere comunale del Gruppo Matteo Lepore Sindaco e Capogruppo del Gruppo Consiliare. Ha fondato l’associazione Next Generation Italy – di cui è stato anche presidente fino al 2021 – e la rete nazionale Conngi – Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane. È consigliere e membro dell’Ufficio di presidenza del Consiglio dei cittadini stranieri e apolidi della Provincia di Bologna.
Partiamo dall’inizio. È nato in Eritrea ma da oltre vent’anni vive in Italia, a Bologna, comune per il quale oggi ricopre la carica di consigliere e Capogruppo del Gruppo Matteo Lepore Sindaco. Com’è cambiato l’approccio degli italiani nei confronti dei cittadini stranieri nel corso degli anni secondo lei? C’è stata un’evoluzione in senso positivo?
Dato che la domanda riguarda gli italiani intesi come popolo, devo dire che nei confronti dei migranti è sicuramente cambiato l’approccio nel tempo, soprattutto perché all’inizio c’erano poche persone straniere che vivevano in Italia. Allo stesso tempo, c’era comunque discriminazione, ma era probabilmente legata all’ignoranza e non si sentiva il rischio di un competitor quando si pensava ai migranti. Adesso la popolazione di migranti in Italia e la sua visibilità sono cresciute e le persone sentono una sorta di “sopraffazione”, la percepiscono – anche se poi questo non corrisponde ai dati reali – come una sorta di crescita continua che porta ad un andamento al ribasso su tutto. Vedono una sorta di competitor nell’acquisto di una casa, nella ricerca di un lavoro… sono soprattutto i ceti medio-bassi a sentirsi un po’ in affanno. Sia le persone di origine straniera che i cittadini italiani dei ceti medio-bassi, soprattutto nelle periferie, condividono gli spazi comuni: le piazze, i parchi, gli autobus, per cui il conflitto si sente molto di più e c’è forse più insofferenza reciproca, un po’ dovuta al sovraffollamento.
Mentre prima la maggioranza delle persone accoglieva con cuore aperto, anche se c’erano discriminazioni (per esempio, c’era la discriminazione sulla casa, discriminazione che ho vissuto in prima persona e che mi ha costretto a spostarmi da Bologna all’inizio, perché non trovavo casa – diversamente da alcuni cittadini americani che conoscevo), c’era la possibilità di mettersi in gioco perché le persone disposte ad aiutare erano di più. Adesso, non nell’accoglienza ma nelle fasi successive, c’è una tendenza allo sfruttamento crescente verso le persone che arrivano in Italia.
È stato fondatore e presidente, fino al 2021, dell’associazione Next Generation Italy che, fra le altre cose, oggi difende il diritto di accesso dei bambini delle nuove generazioni ai saperi digitali. Questo, come altri aspetti della quotidianità che tendiamo a dare per scontato, riflette una realtà iniqua e discriminatoria. Da educatore, attivista, politico e addetto ai lavori su quali temi ritiene che si debba fare più luce? Quali sono gli aspetti da affrontare con più urgenza?
La discriminazione digitale vale per tutti. Gli anziani, anche autoctoni, si ritrovano discriminati nell’accesso a tanti servizi. Si è visto con la pandemia di Covid – 19: anche nell’ambito scolastico non solo l’accesso a un software, ma proprio la possibilità di avere un computer non era per tutti. In Emilia–Romagna sono stati fondamentali i prestiti di materiale che tante scuole hanno attuato nei confronti delle famiglie bisognose, per sopperire a queste mancanze. L’accesso ai saperi digitali è un tema forte; ancora di più oggi che si ha accesso a tante pratiche con l’identità digitale, con lo spid, ecc. Noi abbiamo affrontato dall’inizio questo tema, perché magari le nuove generazioni sono brave a maneggiare il cellulare, ma meno a farlo con il software di un pc. Allo stesso tempo, c’erano anche anziani o altre generazioni che venivano tagliate fuori dai servizi; per esempio, a Bologna l’iscrizione negli asili nido, nelle scuole materne e nella scuola in generale è tutta svolta in digitale. Per iscriversi a un colloquio con un’insegnante, per controllare i voti dei propri figli, ma anche per vedere il proprio fascicolo sanitario bisogna saper usare il digitale: bisogna essere formati per questo, altrimenti si resta fuori. Per quanto riguarda i cittadini stranieri poi, anche la richiesta di cittadinanza viene svolta in digitale, così le pratiche di avanzamento del permesso di soggiorno.
È questo un tema molto urgente. Per i cittadini di origine straniera che non hanno la cittadinanza, non sono accessibili tanti servizi che invece vengono considerati come tali. È vero che una persona può recarsi all’ufficio anagrafe, al Cup e alle altre agenzie, come tutti gli altri cittadini ma nel farlo sono legate a tutta una serie di ritardi del permesso di soggiorno che creano non pochi disagi. Le questure infatti sono ritardatarie e questo ritardo precarizza i migranti e i loro famigliari, anche i figli nati qui. Non c’è la consapevolezza di quanto questo incida sulla vita delle persone. Per esempio, un ritardo di due anni sul permesso di soggiorno, scombussola completamente le persone nell’ambito lavorativo (non vengono rinnovati contratti a lungo termine), nell’ambito dell’iniziativa individuale (non si possono fare viaggi lunghi, non si può fondare un srl), nell’ambito abitativo (non si possono avere cambi di residenza), ecc. Non ci dovrebbero essere questi ritardi, negli altri paesi europei infatti il permesso di soggiorno dura tantissimi anni e comunque non è gestito dalle questure ma dall’anagrafe del comune nel quale abitano le persone. Perché qui una volta fatta la residenza non si può essere riconosciuti come parte di quel comune ma si deve ancora andare a fare le impronte digitali come se si fosse appena arrivati in Italia? Questo è un tema serio, urgente, che abbiamo affrontato tantissime volte ma che nei governi che si sono succeduti non ha visto grandi cambiamenti. La cosa che mi fa rabbia, l’aspetto veramente problematico, è che tutti gli altri servizi non si rendono conto di questi disagi e di quanto quel tassello riesca poi a trascinare tutto. Il problema non è delle questure in quanto loro si occupano di sicurezza e non dovrebbero occuparsi di un lavoro amministrativo come quello di rilasciare i permessi di soggiorno, nelle varie commissioni in cui sono stati chiamati i poliziotti e i loro sindacati lo hanno ribadito. Il poliziotto non è addestrato ad occuparsi di questo né ha una formazione che ha insistito su questo aspetto.
L’8 e il 9 giugno gli italiani sono andati alle urne per votare al referendum su lavoro e cittadinanza. Non si è raggiunto il quorum ma, comunque, il quesito sulla cittadinanza si è rivelato più divisivo degli altri quattro. Pensa che non sia stato compreso fino in fondo proprio il testo del quesito stesso (per esempio il fatto che i requisiti fondamentali rimanevano tutti, era solo la pratica ad essere accorciata)?
Di questo sono sicuro, perché me ne sono accorto facendo la campagna per il referendum. La gente pensava soltanto al fatto che sarebbero stati dimezzati i tempi da 10 a 5 anni e che qualsiasi persona arrivata in Italia dopo 5 anni avrebbe avuto la cittadinanza. In realtà sono 5 anni di residenza continuativa, con reddito fisso, con altri tre anni di attesa dopo aver fatto richiesta e con tutte le documentazioni che certificavano il livello della lingua e la mancanza di reati. Inoltre c’è stato silenzio mediatico perché non ci è stata data nessuna visibilità né in televisione né in altri spazi. È sicuramente stata una strategia politica, ma è mancato proprio il dibattito, per esempio non c’era nemmeno il comitato del no. L’esito di questo quesito è un problema? Io credo che si debba ripartire proprio dalle persone che sono andate a votare, sicuramente non la maggioranza degli italiani ma i 9 milioni di italiani che ci credono e che forniscono una grande base di partenza. Se andiamo a vedere le elezioni politiche, comunque anche lì sono stati pochissimi i votanti, il vero partito di maggioranza si è confermato quello dell’astensione, quello di chi non ha votato. Alla fine, tirate le somme, penso che il referendum non sia stato inutile perché si sta parlando di questo tema anche con un dibattito parlamentare rinnovato anche da alcune proposte di Forza Italia e con gli altri partiti che propongono a loro volta. Questo è importante perché quello della cittadinanza non è un tema politico ma è un tema che incide sui diritti delle persone, per cui tutti dovrebbero mettersi sul tavolo e trovare la soluzione: questi temi vanno messi in Commissione, vanno discussi, vanno scritti in testi di sintesi, affrontati in molti modi…
C’è in Italia nel sentire comune una confusione generale sul tema della cittadinanza. Questa confusione porta spesso a intrecciare temi di diritto alla cittadinanza e immigrazione fra loro, come se agevolare le pratiche per ottenere la cittadinanza significasse concederla a tutti indistintamente o, banalmente, far arrivare più persone. Ritiene che i media abbiano avuto un ruolo importante nella creazione e nella diffusione di questa confusione?
Alcuni partiti politici hanno scelto di andare contro il referendum e spingere i cittadini a non andare a votare mentre altri hanno fatto un ragionamento diverso: anche se non è il massimo, questa nuova modalità di concessione della cittadinanza comunque agevola il procedimento. Per quanto riguarda i media, hanno seguito completamente quello che ha deciso il governo; ovviamente alcuni sono direttamente sotto il controllo delle forze di maggioranza e non potevano fare altrimenti. Pensiamo al fatto che abbiamo poche televisioni che possono parlare liberamente e anche se all’interno della Rai ci sono stati giornalisti che hanno toccato questi argomenti nei loro talk, in generale mediaticamente, c’è stato un oscuramento reale e non solo su questo tema.
Per me chi poteva esporsi di più erano proprio le forze politiche, anche le forze politiche che si opponevano a tutto questo. Avrebbero almeno generato una discussione che invece non c’è stata, nemmeno nell’ambito di tutte quelle forze politiche che vorrebbero allearsi a sinistra; non tutte hanno dimostrato affidabilità. Sicuramente questo referendum è stato utile anche per capire su cosa si può collaborare e quali sono i punti di distacco nell’ambito di queste alleanze trasversali. Del resto, la politica è questo: capire su quali ambiti insistere per migliorare le condizioni di vita dei cittadini.
In effetti nei mesi precedenti al referendum si è notato il fatto che la discussione mediatica e politica, anziché concentrarsi sul quesito in sé, andava a rivolgersi alle varie proposte che diversi partiti hanno nel tempo presentato sul tema della cittadinanza: lo Ius soli, lo Ius scholae e lo Ius culturae…
Non solo, la cosa vergognosa che non è venuta fuori e che non è stata detta agli italiani è che abrogando questa legge, andremmo a finire ad un’altra legge sulla cittadinanza, una del 1912, che però era più avanzata perché concedeva la cittadinanza dopo 5 anni di residenza. È tutto legato anche a un tema culturale: cos’è l’italianità? Cosa significa essere italiani? È un tema serio che connoterà il futuro. Una persona di un altro colore si può o si potrà pensare italiana?
Chi afferma il contrario non ha evidentemente studiato la storia e il crogiuolo di popoli e culture che ha da sempre caratterizzato il nostro Paese…
No, non sono persone che non hanno studiato la storia ma persone che non vogliono far ricordare la storia ai cittadini. Prendiamo per esempio l’America di Trump: non c’è nessun americano autoctono, tutto il miscuglio di popoli e di genti che c’è in America è arrivato da fuori – a parte i discendenti degli indigeni – e la stessa famiglia di Trump è stata protagonista di migrazioni; nonostante tutto, lui ogni giorno parla di mandare via qualcuno. Il problema vero è che questa narrativa funziona perché quando c’è difficoltà economica le persone hanno paura e su questa paura le forze politiche al governo, che non sanno come risolvere il problema, fanno leva.
Al di là del risultato del referendum comunque, sia la raccolta firme che lo ha preceduto sia i vari aspetti della mobilitazione che c’è stata a livello nazionale, devono farci concentrare sul 65% di votanti che si è schierato a favore di questo quesito. Cosa si può fare adesso? Come si deve agire per dar voce a queste persone e a tutti gli stranieri attualmente residenti in Italia che non hanno ancora la possibilità istituzionale di farsi ascoltare?
Secondo me sono due i piani d’azione. Per quanto riguarda il primo, questo referendum è stato veramente una manna dal cielo, perché ci ha spiegato che livello di partenza è molto al di sotto di quello che ci aspettavamo. Dobbiamo essere chiari con noi stessi e lavorare in quest’ottica: serve un lavoro enorme, fatto bene, puntuale e che metta insieme le classi sociali che sono in difficoltà per far capire che non c’è nessuna guerra fra poveri e migranti nelle zone periferiche (ma che ci deve essere un’alleanza che faccia comprendere i veri responsabili di questa situazione economica). Per farlo ci si deve incontrare, ci si deve creare fiducia e si deve creare alleanza. Un grande lavoro aspetta tutti i partiti politici uniti nella giustizia sociale.
Per quanto riguarda il secondo piano invece, c’è bisogno di lavorare su un aspetto in particolare: il non voto. Nel mio ufficio ho sempre un foglio che mi ricorda qual è la percentuale di cittadini che non è andata a votare nelle elezioni passate. Si deve lavorare sull’astensione, il vero partito di maggioranza. I partiti hanno paura di lavorare su questo perché vivono di rendita contando sull’elettorato che ancora va a votare, mentre magari tornando ad avere più cittadini nelle urne gli equilibri potrebbero cambiare. Bisogna andare a mobilitare i cittadini, a cercare il voto, a cercare la loro partecipazione con una narrazione nuova, che stimoli fiducia e cambiamento. “Ci manchi”, “abbiamo bisogno di te”, il cittadino ha bisogno di capirlo. Sicuramente il dibattito sui diritti attira molto di più i giovani, che a prescindere dai partiti si sentono più coinvolti; il vero problema è quello della rappresentanza. Lo poi abbiamo visto con la raccolta firme per il referendum: le donne e i giovani sono stati fondamentali. Sono seriamente convinto che una loro mobilitazione darebbe inizio a una rivoluzione democratica però bisogna lavorarci con discussioni, alleanze, lotte civili e con un rinnovato interesse per la solidarietà. Anche i cittadini stranieri che hanno preso da tempo la cittadinanza non sono tanto informati sulla questione della tessera elettorale, sul loro diritto al voto e alle politiche o alle amministrative spesso vota solo il 10% di loro; anche questo è grave e anche per questo quella contro l’astensione sarà la partita più seria.