Sogno: Sono in un gruppo di lettura di Camus. Scopriamo che a una certa pagina il miracolo della scrittura di Camus viene rivelato. A chiunque arrivi a pagina 188 succede che la lingua diventi spessa e gonfia, rendendogli impossibile parlare, e per esprimersi deve strisciare sulla pancia. Questo, secondo il gruppo, è la chiave per comprendere il disagio della civiltà occidentale e la sua cura.
(dal taccuino dell’autrice, 15 luglio 2000)
“Per niente al mondo vale la pena voltare le spalle a ciò che si ama”
(Albert Camus, La peste, pagina 188)
Parte prima, Capitolo 1 – Proprio dall’inizio
Quanto segue è realmente accaduto.
Durante il tragitto in autobus dal mio studio di pittura a casa, un pomeriggio nebbioso a Bologna, notai un’asiatica tutta sola che indossava una mascherina chirurgica. Provai a guardarla negli occhi, ma lei sembrava volersi rendere invisibile. Pensai che fosse strano. Il suo comportamento era furtivo e l’aspetto singolare. Era la prima volta che vedevo qualcuno indossare una mascherina ospedaliera in pubblico. Mi chiesi se ci potesse essere l’inizio di una nuova ondata di sentimenti anti-immigrati.
Poche settimane dopo, questa volta camminando verso lo studio in un luminoso giorno d’inverno, notai una mascherina gettata e schiacciata sul marciapiedi, come un nuovo tipo di carcassa urbana, un genere inusuale di ombrello rotto. Era un presagio. Mi fermai a fissarlo: quest’oggetto aveva un particolare mistero e potenza. Ne presi una foto col cellulare, poi andai nello studio e dipinsi altre cose.
Ma durante le settimane successive in Italia emerse una triste realtà e fu possibile ricostruire cronologicamente gli avvenimenti, nonostante il susseguirsi continuo dei decreti governativi. Nel gennaio 2020, furono confermati in Italia i primi casi di Covid-19 dell’emisfero occidentale, uno a Roma e altri due in Lombardia – una regione non così lontana da dove io e mio marito, invalido – gli era stato diagnosticato in modo poco chiaro parkinsonismo e demenza vascolare – vivevamo. All’inizio di marzo la stampa locale e internazionale era diventata sempre più impaurita, allarmante e contraddittoria. All’inizio di marzo, il primo ministro italiano ordinò un coprifuoco nazionale. Le parole “epidemia” e “pandemia” venivano ora usate nei notiziari. A Bologna avevamo solo il permesso di lasciare le nostre abitazioni per andare nei negozi di alimentari e in farmacia. Erano richiesti moduli ufficiali e documenti d’identità per queste uscite, e naturalmente mascherine. Nessuno poteva andare a lavorare, eccetto i “lavoratori in prima linea”, gli assembramenti di qualunque tipo erano vietati, e non si poteva ricevere nessuno a casa. Gli italiani cominciarono a cantare dai balconi, gli uni agli altri. Le agenzie di stampa di tutto il mondo e i social media diffusero i video.
Ma piano piano quella primavera vennero fuori racconti dell’orrore dalle cucine e dalle camere da letto, e dalle case di cura e dagli ospedali, senza che nessuno le documentasse o filmasse. Inimmaginabili complicazioni e sofferenze dovute al Covid proliferavano nell’oscurità. Non c’erano selfie degli incubi che accadevano nelle famiglie e nei luoghi di cura all’inizio del 2020, ma più tardi apprendemmo che gli orrori erano dovunque. I numeri erano incredibili. Mio marito (il suo soprannome era Ciulli) ed io fummo solo uno dei migliaia, anzi milioni, di casi di persone colpite dagli effetti collaterali della pandemia. Isolamento, rottura della routine, e insufficienza del sistema sanitario avevano indicibili conseguenze per gente come mio marito. Per persone con demenza – latente o ai primissimi stadi, oppure in fase avanzata – la pandemia si sarebbe rivelata catastrofica.
Ironicamente, nelle prime sei settimane del lockdown mi sentii stranamente calma e imperturbabile. Soffro di una sclerosi multipla, che va e viene, e quindi per anni mi ero abituata a vivere più o meno chiusa in casa: vivere in relativo isolamento per me era routine. Ma la mancanza di routine avrebbe avuto un effetto devastante su Ciulli. I giorni erano lunghi, i giorni erano corti. Il tempo collassava e si espandeva, come un organetto che ansimava in sottofondo. Domande venivano poste, nessuna risposta veniva data. L’intera macchina della civiltà occidentale – il lavoro, gli affari, la circolazione delle merci, il fluire dei trasporti – tutto aveva subito un arresto stridente, ma con l’audio spento. Fuori c’era un silenzio insondabile. Nei canali di Venezia cominciarono ad apparire i delfini. Uccelli inusuali tornarono a Bologna. Dal momento che io non potevo andare nel mio studio a dipingere, cominciai a disegnare nella nostra camera da letto, e a comporre “Horror Ballads” sul mio cellulare, mentre continuavo a camminare in circolo nel cortile. Ma per Ciulli, nelle fasi iniziali della demenza, era tutto incomprensibile e deleterio. Diventava ogni giorno impercettibilmente sempre più perso.
Un giorno notai che la sua parte del guardaroba sembrava essere stata saccheggiata da un ladro, e quando gli chiesi, cercando di essere disinvolta, se par favore poteva aiutami a recuperare i vestiti, fui colpita dalla sua assoluta incapacità di farlo. Sbarrai gli occhi, guardandolo lottare con un paio di calzini. Guardava le T-shirts come se fossero complicati, insolubili problemi geometrici. Retrospettivamente, posso sentire il mio terrore. Al momento probabilmente espressi questa paura con impazienza e frustrazione, e risentimento fuori luogo. Ne seguì una lite. E nel bel mezzo di essa, lui si fermò e chiese: “Ora sto parlando alla Amy nella mia testa o alla Amy in questa camera?”.
Lo fissai nello stesso modo con cui avevo fissato quella mascherina chirurgica schiacciata sul marciapiede. Era un presagio di cose che sarebbero accadute, e sapevo che non era propizio. Ripensando a quel momento, vorrei solo averlo preso tra le braccia. Vorrei avergli detto che lo amavo. Invece tentai di rassicurarlo con parole e idee. Quando penso a molte delle prime risposte nei vari stadi della malattia di Ciulli, mi irrigidisco. I miei istinti mi hanno ripetutamente ingannato, finché a un certo punto, cominciarono a risvegliarsi nuove percezioni e istinti.
Di solito preferisco cominciare un dipinto in mezzo, o un racconto alla fine, dovunque, eccetto che all’inizio. Preferisco gettarmi nel mezzo, in modo da sentire la gioia della scoperta, spinta da una sorta di piacevole urgenza a riempire gli spazi vuoti o – in una parola – dalla curiosità. Ma questa volta, questo racconto di vita vissuta, di orrore e amore e demenza durante la pandemia, lo comincio dall’inizio, perché caos e malattia determinano un particolare bisogno di ordine.
© AM Hoch 2024
WHO REMAINS
by AM Hoch
Dream: I’m in a Camus reading group. We discover that on a certain page, the miracle of Camus’ writing is revealed: Whosoever gets to page 188, their tongue becomes thick and swollen, making language impossible, and instead they must crawl on their belly to express themselves. This, according to the group, is the key to understanding the disease of Western civilization and its cure.
– author’s notebook, July 15, 2000
“For nothing in the world is it worth turning one’s back on what one loves.”
– Albert Camus, The Plague, page 188
PART 1 – Chapter 1 – THE VERY BEGINNING
What follows really happened.
On the bus ride home from my painting studio, one misty February evening in Bologna, I noticed a solitary Asian woman wearing a surgical mask. I tried to make eye contact with her, but she seemed to be trying to be invisible. I thought it was odd. Her manner was furtive, and the sight was peculiar. It was the first time I had ever seen anyone wearing a hospital mask in public. I wondered if there might be a new wave of anti-immigrant sentiments on the rise.
A few weeks later, this time walking to my studio on a bright winter’s day, I noticed a discarded mask, flattened on the sidewalk, like a new type of urban carcass, an unusual genus of the mangled umbrella species. It was an ominous sight. I stopped and stared at it: this object had a peculiar eeriness and potency. I took a picture of it on my cell phone, then I went to my studio and painted other things.
But over the coming weeks, a grim picture was coming into focus in Italy, and it was possible to piece together a timeline despite the constantly shifting government decrees being issued: In January 2020, the first cases of Covid-19 in the Western Hemisphere were confirmed in Italy, one in Rome, and two more in Lombardy—a region not so far from where I and my disabled husband, ambiguously diagnosed with Parkinsonism and vascular dementia, were living. By early March, the local and international news reports were becoming increasingly frantic, alarming and contradictory. By March 11th, the Italian prime minister issued a national lockdown; the words “epidemic” and “pandemic” were now being used in news broadcasts. In Bologna, we were only allowed to leave our apartments for groceries and medical supplies. Official forms and identification were required for such outings—and, of course, masks. No one was allowed to go to work except “frontline workers,” public gatherings of any kind were forbidden, and no visitors were allowed at home. Italians began singing to each other from their balconies. News agencies around the world and online social media were sharing the videos.
But quietly that spring, horror stories were sprouting up in kitchens and bedrooms—and in nursing homes, institutions, and hospitals—undocumented and untaped; unimaginable Covid complications and suffering were proliferating in the darkness. There were no selfies of the nightmares that were going on within families and medical facilities in early 2020, but later we learned the horrors were ubiquitous; the numbers were staggering. My husband, nicknamed Ciulli, and I were just one of thousands—millions eventually—who were ensnared by the collateral effects of the pandemic. The isolation, disruption of routine, and insufficiency of the health-care system had untold consequences for people like my husband. For people with dementia—latent or very early stages as well as advanced—the pandemic would prove to be catastrophic.
Ironically, I felt strangely calm and unfazed during the first six weeks of the lockdown. I have relapsing-remitting multiple sclerosis and so, for years, I was used to living more or less as a shut-in; living in relative isolation was routine for me. But the lack of routine would have a devastating effect on Ciulli. The days were long, the days were short. Time was collapsing and expanding, collapsing and expanding, like an accordion wheezing in the background. Questions were asked, no answers were given. The entire machinery of Western civilization—employment, businesses, the delivery of goods, the flow of transportation—all had come to a screeching halt with the sound turned off. Outside there was an uncanny silence. Dolphins began appearing in the Venice canals; unusual birds returned to Bologna. Since I couldn’t go to my studio to paint, I started drawing in our bedroom and composing “Horror Ballads” on my cell phone as I walked around and around the courtyard. But for Ciulli, in the initial stages of dementia, it was all incomprehensible and deleterious. He was imperceptibly growing more lost every day.
One day I noticed that his part of the closet looked like it had been ransacked by a thief, and when I flippantly asked him to kindly help me re-fold the clothes, I was shocked by his sheer inability to do so. My eyes widened as I watched him struggle with a pair of socks. He looked at T-shirts as if they were complicated, insoluble geometric problems. In retrospect, I can feel my terror; at the time I probably expressed that fear with impatience and frustration and misplaced resentment. An argument ensued. In the middle of it, he stopped and asked, “Am I talking to the Amy in my head now or am I talking to the Amy in this room?”
I stared at him the way I had stared at that flattened surgical mask on the sidewalk: It was a harbinger of things to come, and I knew it wasn’t good. In remembering that moment, I wish I had just taken him in my arms and told him I loved him. Instead, I tried to reassure him with words and ideas. When I think of many of my initial responses to the various stages of Ciulli’s illness, I cringe. My instincts failed me repeatedly, until eventually, unexpectedly, new perceptions and instincts began to awaken.
Usually I prefer to start a painting in the middle, or a story at the end—anywhere except at the beginning—preferring to throw myself into the middle, so that I can feel the joy of discovery, driven by a pleasant kind of urgency to fill in the blanks or, in a word, curiosity. This one though—this real-life horror story of love and dementia during the pandemic—I’m starting at the beginning because chaos and disease breed a particular craving for order.
© AM Hoch 2024
In copertina: AM Hoch, “Crossing the River” (2024)