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Ambiente e alimentazione

Il riscaldamento globale rappresenta una minaccia per la nostra salute e potrebbe, se non venisse adeguatamente contrastato, addirittura creare le condizioni per l’estinzione della specie umana sul nostro pianeta. E’ ormai acclarato che all’origine dell’incremento delle temperature del mare, dello scioglimento dei ghiacciai e dell’aumento degli episodi meteorologici estremi vi siano le emissioni di gas ad effetto serra e, in particolare, di anidride carbonica. L’eccessiva produzione di anidride carbonica è di origine antropica in quanto è dovuta alle attività dell’uomo.

Tra le misure proposte per la riduzione di anidride carbonica nell’atmosfera e, quindi, per il contenimento del riscaldamento globale, vengono generalmente considerate quelle che limitano il ricorso ai combustibili fossili, come carbone gas e petrolio, quali fonti energetiche per l’industria, i trasporti e il riscaldamento, privilegiando, invece, le fonti energetiche rinnovabili, in grado di utilizzare l’energia disponibile in natura: sole, vento, maree.

Tuttavia, non tutti hanno un’adeguata percezione di quanto impatti sulla produzione di anidride carbonica il sistema alimentare e di come quello che ogni giorno mettiamo nel piatto possa influenzare il riscaldamento globale. Nello specifico, l’attività agricola è responsabile della produzione di gas serra per una quota pari al 33% del totale delle emissioni annuali nel mondo e l’alimentazione è responsabile del 25% dell’impatto di ciascuno di noi sull’ambiente. Per dare il senso della rilevanza della produzione del cibo nel contribuire al riscaldamento globale va ricordato che l’emissione di gas serra che essa determina è significativamente maggiore a quella dovuta al condizionamento della temperatura negli edifici e ai mezzi di trasporto che coprono, rispettivamente, una quota delle emissioni pari al 23,6% e al 18,5% (IPCC, 2019).

Tuttavia, mentre è abbastanza diffusa la consapevolezza dell’impatto sul riscaldamento globale di automobili e aerei, insieme alla cognizione che stufe, caminetti e bruciatori sono tra le cause principali della produzione di gas serra in città, l’importanza delle nostre scelte alimentari in relazione al loro influsso sull’ambiente non è generalmente percepita. In particolare, non viene generalmente considerata la grande disomogeneità dell’impronta ambientale dei diversi alimenti. Ad esempio, la produzione di un Kg di riso determina l’emissione di circa 4 Kg di gas serra e quella di un chilo di legumi circa 2 kg (fertilizzanti, concimi , attività agricole sono tutti, in larga parte, ottenuti grazie all’energia derivata dalla combustione di gas e petrolio),  mentre per produrre un Kg di formaggio se ne emettono più di 20 Kg  e per un Kg di carne bovina circa 60 Kg.

 Per comprendere i motivi della più elevata impronta ecologica  degli alimenti di origine animale rispetto a quelli di origine vegetale occorre considerare che gli animali d’allevamento consumano molte più calorie– ricavate dai mangimi vegetali–di quante ne producano sotto forma di carne, latte e uova: Il rapporto di conversione da mangimi vegetali per gli animali a “cibo” per gli umani varia da 1:3 a 1:4, a seconda della specie animale. Vale a dire: per ogni kg di carne che si ricava da un animale, lo stesso animale deve mangiare mediamente 15 kg di vegetali, appositamente coltivati. Infatti, l’alimentazione degli animali deve prima di tutto provvedere al loro sostentamento e poi contribuire alla loro crescita che, in ogni caso, riguarda anche strutture corporee (ossa, pelle, grasso) non utilizzabili per l’alimentazione umana.

Questa diversità dell’impronta ambientale dei diversi alimenti è estremamente importante perché consente di sviluppare strategie  per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica diversificate a seconda del contesto ambientale e agroalimentare, senza dover genericamente tagliare la produzione di cibo che, ovviamente, costringerebbe a imporre alle popolazioni meno favorite un regime alimentare malnutritivo e, quindi, ad aumentare ulteriormente il differenziale  di salute che esiste tra i paesi più sviluppati e quelli in via di sviluppo e, all’interno dello stesso paese, tra le fasce più economicamente svantaggiate della popolazione e i cittadini più agiati. 

L’importanza dell’alimentazione per la salvaguardia dell’ambiente e del clima si coniuga con il ruolo benefico che essa svolge per la promozione della salute. Le abitudini alimentari e gli stili di vita, infatti, sono in grado di influire significativamente sul benessere delle persone e sulla qualità della loro vita fin dalla più giovane età. L’epidemia di obesità, che si è andata progressivamente diffondendo nell’ultimo mezzo secolo, è strettamente interconnessa alle abitudini di vita e all’alimentazione e determina il proliferare di patologie metaboliche, quali il diabete e la dislipidemia, o cardiovascolari quali l’ipertensione, l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale. Essa rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica a tutte le latitudini: nei paesi occidentali circa la metà della popolazione è in sovrappeso, mentre nei paesi in via di sviluppo si assiste alla paradossale coesistenza di malnutrizione e obesità. Questa patologia, che coinvolge la gran parte della popolazione mondiale, è dovuta a uno squilibrio tra un eccessivo introito energetico con l’alimentazione e un inadeguato dispendio di energia con l’attività fisica.

I problemi per la salute non sono dovuti solo a un eccessivo consumo di cibo, ma anche alla scarsa qualità nutrizionale di molti degli alimenti che abitualmente consumiamo; infatti, circa il 40% delle malattie cardiovascolari e metaboliche è dovuto ad errori alimentari che rappresentano anche una delle principali cause di diabete e cancro.

In sintesi, due dei principali problemi che l’umanità nella sua globalità deve oggi affrontare–l’epidemia planetaria di obesità e delle sue complicanze metaboliche e cardiovascolari e la crisi climatica–sono una conseguenza delle modifiche dello stile di vita e, in particolare, delle scelte alimentari che si sono realizzate a livello globale nel nostro recente passato e che, purtroppo, permangono tuttora. Infatti, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si è andato progressivamente diffondendo uno stile alimentare con effetti poco salutari e ad elevato impatto ambientale che fa largo uso di prodotti di origine animale (formaggi, latticini, salumi, carne), dolci e alimenti ultraprocessati (gli ingredienti vengono profondamente modificati dalle tecnologie industriali   e viene fatto largo uso di sostanze chimiche per aumentare la loro appetibilità e facilitare la loro conservazione negli scaffali dei supermercati).

Questo stile alimentare si è andato diffondendo grazie ad una sofisticata e pervasiva azione di marketing. I prodotti alimentari di origine industriale coprono ormai nel nostro paese più di un terzo del nostro fabbisogno energetico (merendine, snack, bevande zuccherate, gelati) e sono disegnati per utilizzare materie prime a basso costo che permettono di mantenere bassi i prezzi al consumo e consentono ampi margini di profitto ai produttori. Per aumentare l’appetibilità di questi alimenti si fa largo uso di zucchero, sale, aromi, additivi (ovviamente anche in quelli per i bambini), senza alcuna reale preoccupazione per il loro possibile impatto sulla salute e sull’ambiente.

Anche per molti prodotti di origine animale l’industria alimentare trova molto più vantaggioso, in relazione al proprio profitto economico, mettere sul mercato alimenti sottoposti a trasformazione industriale, finalizzata ad accrescerne le proprietà organolettiche e prolungarne la conservazione. Tra i processi di trasformazione ci sono salatura, essiccatura, affumicatura, stagionatura, aggiunta di conservanti e inscatolamento che sono alla base della produzione di molti alimenti di uso comune: salumi, salsicce, hamburger, creme di formaggio, carne in scatola, bastoncini di pesce. Anche in questo caso non sempre la materia prima è di elevata qualità e le conseguenze sulla salute e sull’ambiente sono spesso ignorate

Anche se gli stili di vita sono responsabilità di ciascuno di noi, è innegabile che la società nel suo complesso influenza le nostre scelte—specie nel caso di bambini o di persone con bassa scolarità– rendendo più difficili quei comportamenti salutari utili per la prevenzione delle malattie e la salvaguardia dell’ambiente. La concomitanza dell’epidemia di obesità a tutte le latitudini e dell’eccessiva emissione di gas serra legata al cibo a livello globale indica chiaramente che questi fenomeni non sono semplicemente frutto di comportamenti di individui poco informati o poco interessati al proprio benessere e alla difesa dell’ambiente, ma rappresentano la conseguenza  dei profondi cambiamenti nel sistema globale di produzione e distribuzione degli alimenti che hanno consentito di rendere disponibile per la gran parte della popolazione mondiale cibo a basso costo e in quantità molto maggiore che in qualsiasi epoca precedente.

 Ovviamente, la maggiore disponibilità globale di cibo, nonostante le enormi disparità tra i diversi paesi e le diverse fasce sociali, è di per sé un fenomeno positivo. Tuttavia, la creazione di un sistema alimentare focalizzato solo sulla quantità di cibo prodotto e del profitto che esso può generare, senza alcuna considerazione della sua qualità e del suo impatto sulla salute e sull’ambiente, non è sostenibile; pertanto, se non si interviene per tempo, i benefici socioeconomici che ha fin qui generato saranno inevitabilmente sopravanzati, in un futuro non lontano, dai danni indotti alla salute umana e all’ambiente.

Infatti, l’accresciuta produzione di cibo a livello mondiale esige che esso sia utilizzato e questo, in assenza di un sistema regolato e ordinato della distribuzione alimentare, ha determinato una spinta verso il consumismo alimentare. Infatti, il cibo non è assimilabile a nessun’altra merce e, pertanto, la spinta a consumare di più comporta necessariamente che si mangi di più. Questa spinta, come si è detto, è largamente indirizzata verso l’utilizzo di alimenti di origine animale e vegetale prodotti industrialmente, in grado di assicurare il massimo profitto ai produttori ma, al tempo stesso, particolarmente dannosi, se consumati in eccesso, per la salute dell’uomo e per l’ambiente.

Per contrastare questo fenomeno, che ha assunto dimensioni planetarie, non sono bastate né le raccomandazioni delle autorità scientifiche né le grida di allarme da parte degli organismi internazionali (FAO, OMS, ONU). Occorre, invece, implementare una strategia di intervento che coinvolga tutti i potenziali attori del cambiamento (istituzioni, associazioni di consumatori, produttori e distributori di cibo—specie quelli fuori da grossi monopoli) puntando sul consenso e sulla condivisione delle scelte operative, ed evitando atteggiamenti di stampo fondamentalistico improntati alla sola deterrenza.

Da questa alleanza dovrebbero scaturire iniziative volte a promuovere una maggiore diversificazione dell’offerta di prodotti alimentari (tra le merendine in commercio meno di un quarto sono quelle con un contenuto energetico moderato e la quasi totalità sono troppo ricche di zucchero o di sale) assicurando accessibilità ed economicità di quelli più sostenibili in relazione a salute e salvaguardia dell’ambiente. Queste iniziative andrebbero accompagnate da una migliore informazione nutrizionale ai consumatori non solo sugli alimenti di origine industriale ma anche sulle pietanze servite alla mensa aziendale, nei ristoranti, nei fast food e nei bar creando un marchio di garanzia (rilasciato da appositi comitati scientifici senza conflitti di interesse) che indichi al consumatore quali sono gli alimenti da promuovere per la propria salute e la protezione ambientale.

Tra le varie iniziative, questa alleanza dovrebbe mirare a promuovere un canale distributivo alternativo del cibo (gruppi di acquisto solidale, piattaforme web, mercati) in grado di offrire a un prezzo ragionevole cibo sano ed ecocompatibile evitando i condizionamenti e le tagliole degli innumerevoli mediatori, dei grossi produttori, della grande distribuzione.

In questo contesto è fondamentale il ruolo dei consumatori che sono in grado di condizionare le istituzioni con le loro attività socio-politiche e il sistema alimentare mediante le proprie scelte di cibo, volte a privilegiare prodotti locali, di stagione, da agricoltura biologica e preferibilmente integrali e a limitare il consumo di prodotti di origine industriale.

Ad illustrare questo stile alimentare sano ed ecosostenibile può essere utile l’immagine della “Doppia Piramide” (vedi figura) elaborata alcuni anni fa dall’Unità di Nutrizione, Diabete e Malattie Metaboliche dell’Università Federico II di Napoli, da me coordinata, e dalla Fondazione “Barilla Center for Food and Nutrition”.

Dalla immagine, nella quale la piramide alimentare si interfaccia con l’immagine capovolta della piramide ambientale, si evince chiaramente che la scelta degli alimenti dovrebbe  privilegiare quelli posizionati alla base della piramide nutrizionale–in quanto più salutari– e al vertice di quella ambientale–in quanto meno ecosostenibili—e limitare drasticamente gli alimenti meno salutari e più impattanti per il clima e l’ambiente posizionati al vertice della piramide nutrizionale e alla base di quella ambientale. Per gli alimenti in posizione intermedia la frequenza di consumo consigliata è in relazione alla loro collocazione nei vari gradini delle piramidi. E’ interessante notare che in moltissimi casi c’è una buona corrispondenza tra le due piramidi in quanto gli alimenti più salutari sono anche quelli meno dannosi per l’ambiente

In conclusione, un cambiamento significativo delle abitudini alimentari non rappresenta un miraggio, in quanto molte delle scelte alimentari che sono più salutari ed ecosostenibili ricalcano abitudini alimentari delle popolazioni mediterranee diffuse fino alla metà del secolo scorso nell’Italia meridionale e in altri paesi che affacciano sul Mediterraneo  e che vengono comunemente indicate come Dieta Mediterranea Tradizionale, consacrata dall’UNESCO come patrimonio immateriale della umanità per il suo valore culturale, gastronomico, salutistico e ambientale. Introdurre nella nostra dieta scelte alimentari proprie della Dieta Mediterranea Tradizionale rappresenterebbe una vera rivoluzione copernicana nell’alimentazione degli Italiani e, più in generale (con le opportune mediazioni culturali e gastronomiche), degli altri popoli Europei e consentirebbe  di ridurre  di circa il 50% le malattie cardiocircolatorie e il diabete e del 30% le neoplasie e di tagliare di circa il 50% la produzione di anidride carbonica e il consumo di acqua e di suolo.

Le scelte alimentari individuali, però, non possono bastare a delineare un futuro più salutare ed ecosostenibile del sistema alimentare. Occorre dare vita a un movimento in grado di incalzare il mondo politico, i media, le istituzioni locali, nazionali ed Europee per rendere accessibile ed economicamente conveniente per il consumatore–mediante una opportuna politica fiscale e degli incentivi–il cibo più sano ed ecosostenibile. Parimenti, sarebbe necessario dirottare i finanziamenti pubblici dall’agricoltura intensiva (40% degli attuali finanziamenti europei) a quella biologica e rigenerativa, per favorire la cooperazione e il recupero dei suoli incolti e offrire supporto tecnico e scientifico alle piccole imprese disponibili a cimentarsi con la produzione di alimenti sani ed ecosostenibili.

L’impegno individuale e collettivo per affrontare questi problemi è gravoso e difficile; tuttavia, l’importanza della posta in gioco ci impone di non restare inerti e affrontare con coraggio e determinazione la sfida che ci sta di fronte.

Letture di approfondimento

  • Agroecologia – Il futuro dell’agricoltura, di Gianfranco Nappi, Editore Doppiavoce, 2024
  • Il diabete si vince a tavola, di Gabriele Riccardi, Rogiosi Editore, 2022
  • Fitopolis, la città vivente, di Stefano Mancuso, Editore Laterza, 2023

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