Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato (George Orwell, 1984)
A che serve studiare la storia? Se lo chiedete a uno studente, vi risponderà quasi sempre: “A niente”. È una risposta involontariamente colta, perché senza saperlo riprende una posizione espressa da Friederich Nietzsche nel 1874. InSull’utilità e il danno della storia per la vita, il filosofo immagina che l’uomo chieda all’animale: “Perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?”. Se avesse potuto, l’animale avrebbe risposto: “Il fatto è che mi sono dimenticato quello che volevo dire”. Secondo Nietzsche, la storia è dannosa, perché rende infelici. Se imparassimo a dimenticare, potremmo invece rinnegare la civiltà, recuperare una primordiale spontaneità e vivere in un eterno presente.
Sembra proprio quello che è successo nell’età della Rete, nella quale ci troviamo a vivere. In The History Manifesto (2014), gli storici americani Jo Guldi e David Armitage denunciano un tipico male del nostro tempo: l’abitudine di ragionare sui tempi brevi, in economia come in politica, o nella vita quotidiana. L’amnesia è un’esperienza di massa, che va di pari passo con la diffidenza nei confronti della cultura umanistica e del sapere critico. La storia è quindi diventata una delle materie di studio meno popolari, anche nell’università, che pure è una delle istituzioni più antiche e resilienti che l’uomo abbia mai creato.Persino il lavoro dello storico si orienta verso problematiche sempre più specialistiche, settoriali, e di breve periodo: al limite, un giorno nella vita di un villaggio medievale. In sé non ci sarebbe nulla di male, ma la rinuncia all’interdisciplinarità denuncia una crisi delle motivazioni profonde per cui si studia la storia.
Come diceva Benedetto Croce, la storia è sempre storia del presente. Ci serve per capire chi siamo e dove ci troviamo a vivere. Per questo la studiamo, e per questo l’ignoranza della storia viene oggi coltivata sapientemente. Per molti secoli si considerò un luogo comune che la storia dovesse essere studiata perché “maestra di vita” (come diceva Cicerone nel De oratore), cioè per gli esempi edificanti che poteva trasmettere.Dal Rinascimento in avanti, leggere e scrivere, parlare latino e conoscere i valori della civiltà classica fu di fondamentale importanza per la formazione delle classi dirigenti di tutta Europa e delle Americhe. Come doveva comportarsi un buon cittadino, una moglie onesta, un capitano valoroso, un politico avveduto? Tutti si formavano – nelle scuole, nelle università, nei seminari vescovili, nelle accademie militari – studiando l’esempio della società greco-romana, intesa come uno straordinario modello di civiltà. Il cortigiano italiano vi trovava l’ideale del gentiluomo di spada e di lettere, il rivoluzionario francese la virtù repubblicana, il funzionario tedesco la dedizione allo Stato, l’ufficiale inglese l’etica imperialista.
Per i Cristiani, poi, la storia era una rappresentazione del dramma della redenzione. Nella Ratio studiorum, il programma di formazione culturale delle classi dirigenti introdotto da Ignazio di Loyola, la storia aveva un ruolo fondamentale, perché con i suoi esempi aiutava la retorica a orientare verso la virtù. E gli exempla forniti da Tucidide, Cesare, Livio, Tacito erano innumerevoli. Le conquiste di Alessandro, le virtù di Catone, l’orrore delle guerre civili, la caduta dell’Impero romano offrivano lo sfondo affascinante per un uso moralistico e conservatore della storia. Ma non era l’unico possibile.
La storia faceva però anche capire come la società cambiasse di continuo, e che questi mutamenti potevano essere interpretati, agevolati o contrastati. Diceva Marc Bloch nell’Apologia della storia (1943) che la funzione della storia, soprattutto quella che tenta di ricostruire grandi scenari epocali, consiste nell’analizzare criticamente il passato, per comprendere il presente e immaginare il futuro, e forse tentare di modificarlo. Come in una telenovela, conoscere le puntate precedenti è utile per capire cosa stia succedendo, e dove si potrebbe andare a finire. Perciò, invece di essere magistra vitae, per molti reazionari la storia era una pericolosa maestra di sovversione.Thomas Hobbes, in Behemot (1697) denunciava che Machiavelli e lo studio della storia greca e romana avevano portato alla decapitazione di Carlo I. Forse non aveva torto. E non c’è dubbio che i rivoluzionari francesi, come quelli inglesi al tempo di Hobbes, si fossero ispirati agli ideali repubblicani greci e romani e all’esempio dei tirannicidi.
La generazione che ha vissuto il Sessantotto, cioè la mia, era profondamente storicista. Gli antichi non erano affatto tali: loro pensavano semmai che la storia fosse il racconto di una infinita decadenza, o il ripresentarsi ciclico delle medesime situazioni. Noi invece eravamo convinti di essere “dalla parte giusta della storia” (come diceva Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, riferendosi alla Resistenza). Avremmo visto e costruito un mondo migliore di quello che ci era stato consegnato dalla generazione dei nostri padri. Ce lo diceva Karl Marx, soprattutto nei Grundrisse (1859), che aveva scoperto che la storia è una successione di forme di organizzazione economico-sociali. Quindi anche il capitalismo, come i modi di produzione che l’avevano preceduto, avrebbe avuto una fine, della quale già si coglievano i presupposti. Perciò, per capire come gestire questa imminente trasformazione, occorreva studiare il passato: la Rivoluzione russa, quella francese, e la servitù della gleba medievale, e la schiavitù romana, per trovare conferme che il capitalismo era un prodotto della storia, destinato ad essere superato come tutti i sistemi economico-sociali che lo avevano preceduto. Soprattutto i giovani che avevano frequentato il liceo (che risentiva ancora dell’impostazione idealista della riforma Gentile), erano abbastanza disposti ad accettare l’idea che la storia servisse. Così, un intellettuale marxista in erba poteva distribuire volantini agli operai di una fabbrica di Bagnoli e studiare i villaggi agricoli dell’antico Egitto. Oggi può sembrare folle, e forse un po’ lo era anche allora.
“L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato”, diceva Bloch. Certo. Ma cosa accade se le giovani generazioni perdono del tutto la speranza di cambiare il mondo?
A prima vista, la rimozione del passato sembra dovuta alla scelta spontanea di prendere rifugio nell’eterno presente di Internet. A me sembra che questo fenomeno sia prima di tutto indice di una profonda paura del futuro. Ma credo anche che l’amnesia sia un progetto accuratamente coltivato dalle classi dirigenti.Negli anni ’90 la filosofa Martha Nussbaum già denunciava la questione, molto politica, della crisi dell’educazione umanistica, nata per offrire una formazione non strumentale, basata sui valori o sulla critica ai valori. L’insieme delle ‘humanities‘ – compresi anche allora i Women’s studies, gli Afro-american studies e lo studio delle culture non occidentali – viveva una notevole crisi di consenso sociale e, quindi, d’identità (Coltivare l’umanità, 1997).Erano le avvisaglie dell’attacco frontale al sapere critico – e alla sua roccaforte, l’Università – da parte di Trump , che è diventato uno dei momenti centrali della lotta per l’egemonia culturale. Viviamo in una fase storica di conquista del potere politico da parte di un’oligarchia del denaro e della conoscenza scientifica. Per loro e per i politici al loro servizio è necessario far dimenticare le “puntate precedenti”, confondere le idee, cancellare le tracce.
Storia e identità nei programmi scolatici di Valditara
Il 21 marzo 2025 il Ministero dell’Istruzione (e del Merito, dimenticavo il merito!) ha proposto alla discussione del corpo insegnante le Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione, un documento di 156 pagine elaborato da una commissione di esperti coordinata dalla prof. Loredana Perla dell’Università di Bari. Il tema di fondo del documento, che lo caratterizza visibilmente rispetto alle precedenti Linee guida, è costituito dalla riscoperta delle radici culturali dell’Occidente. Questo comporta, tra l’altro, una valorizzazione della storia, di nuovo separata dalla geografia, e lo studio del latino a partire dalla seconda media, anch’esso reso funzionale alla scoperta delle “radici”. Letture semplificate tratte dalla Bibbia, dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide dovrebbero contribuire a rendere gli studenti consapevoli dell’identità culturale italiana e dei valori occidentali. Quindi, niente più “geostoria” (bene), ma storia, e di questo va dato merito a Giuseppe Valditara, che è uno storico del diritto. Ma quale storia, in funzione di quale identità?
Nelle precedenti Linee guida, elaborate dal Ministero di Fioroni, tra gli obiettivi dell’insegnamento della storia nel primo ciclo figurava “conoscere le molteplici radici e i diversi apporti riguardanti l’identità storica dell’Italia; favorire attraverso la storia la comprensione della diversità delle culture; stimolare curiosità e interesse per la ricostruzione storica degli eventi anche in funzione della comprensione del presente”.
La presentazione del programma di storia nelle nuove Indicazioni, elaborato da un gruppo diretto da Ernesto Galli della Loggia, inizia invece con un’affermazione che vuole sorprendere come un colpo di cannone: “Solo l’Occidente conosce la Storia”. Già solo per questo – sembra di capire – essa fa parte della nostra peculiare identità, e la distingue rispetto agli altri, popoli senza storia. Generalmente gli storici di professione disapprovano quest’affermazione, che vorrebbe fare il paio con quella di Hegel, secondo cui la filosofia è un prodotto occidentale, che nasce in Grecia (Lezioni sulla filosofia della storia). Le Indicazioni concedono, con Marc Bloch, che “Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo”. Però la storia è ricostruzione razionale e scientifica dei fatti, “scire per causas” avrebbe detto Bacone. Ma allora Ssu-ma Chien, contemporaneo di Cesare, e autore della prima grande storia della Cina? E il grande Ibn Khaldun, della seconda metà del XIV, il tunisino che secondo Yves Lacoste avrebbe inventato il metodo storico?
Rispetto alle precedenti linee programmatiche, si rinuncia a trasmettere una visione multi-dimensionale della storia (mondiale, europea, italiana e locale), scegliendo invece una prospettiva nazionale e identitaria, volta soprattutto a “fare gli Italiani”. Da questo punto di vista, le nuove Linee ritornano all’impostazione di quelle di Moratti del 2004. Era una linea preannunciata dal testo di Galli della Loggia e Perla, Insegnare l’Italia (2023): bisogna reagire alla presa d’atto delle Linee precedenti, che viviamo già in una società multiculturale. Occorre invece proporre agli studenti italiani una chiara idea delle loro radici culturali, imponendo agli immigrati l’accettazione dei valori della società ospitante.
Mentre le Linee precedenti prendevano atto del fenomeno dell’immigrazione e della necessità di accogliere come contributi positivi nuovi contenuti culturali, quelle di Valditara denunciano il pericolo rappresentato dagli immigrati. La riscoperta dell’identità nazionale si rende necessaria “vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere”. Ed è uno studio che ha anche una finalità morale, perché “Nella cultura dell’Occidente la storia è divenuta, ed è restata fino ad oggi, l’arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi”.
Naturalmente tutto quello che ha a che fare con l’analisi delle strutture economico-sociali va respinto, perché “le vicende mondiali attuali, smentendo ogni sopravvalutazione degli elementi economici e strutturali, indicano l’indubbio rilievo che hanno storicamente i valori e gli aspetti in senso lato culturali (tra cui principale è quello religioso), che quindi dovranno essere portati all’attenzione degli studenti”. Uno studio ideologico e moralistico della storia non può che far riemergere la “dimensione narrativa”, compreso il ruolo degli exempla, cioè dei racconti edificanti.
Il rafforzamento dell’identità culturale è, come abbiamo detto, il tema portante del programma di storia. Nel primo anno si studiano le radici della cultura occidentale, dall’età antica a quella moderna, iniziando da racconti tratti dall’Iliade, l’Odissea, l’Eneide e la Bibbia. In seconda si studia l’età moderna e soprattutto il Risorgimento, come lo si studiava quando Valditara ed io eravamo piccoli, compresa la lettura della “Piccola vedetta lombarda”. Dal terzo anno si affronta lo studio della storia in una maniera più sistematica, dalla preistoria alle civiltà del Mediterraneo. Nel quarto si fa storia greca e romana e nel quinto si arriva al Medioevo.
Il presupposto delle Nuove Indicazioni è l’idea di Ernesto Galli della Loggia che l’8 settembre 1943 abbia determinato il crollo della identità nazionale (La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 19969). Non si tratta tanto della crisi dell’identità culturale, ma di quella del vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale. C’è molto di vero in questo, ma non è chiaro come si possa resuscitare questo sentimento partendo dal fissare una base puramente etnica dell’identità nazionale.
In realtà nessuno viene al mondo con un’identità. Superata la fase in cui facciamo esperienza della differenza tra il nostro corpo e il mondo esterno, l’identità è soprattutto prodotto di un’interazione sociale, in cui si intrecciano due questioni: chi pensiamo di essere, e cosa gli altri pensano che siamo. Il popolo italiano ha sicuramente un’identità, tanto è vero che abbiamo un patrimonio culturale – materiale e immateriale – da salvaguardare. Ma è un’identità relativa e mutevole nel tempo: non esiste una “italianità” che si perpetua tale e quale nei secoli. Giustamente la nostra Costituzione non dice come debba essere un “vero italiano”, cosa debba credere, o di che colore sia la sua pelle. Addirittura non viene nemmeno specificata la lingua nazionale. Eppure è proprio la lingua che costituisce la base della nostra identità culturale. Noi viviamo in un territorio ben definito, sempre lo stesso, dalla tarda Repubblica romana, che secondo Dante è “il bel Paese là dove il sì suona” (Inferno XXXIII, verso 80). Chiunque viva in Italia e parli in uno dei tantissimi idiomi che rientra nella classe della “lingua del sì”, secondo Dante è italiano, o meglio “ytalo” o “latino”, perché il termine entrerà in uso molto più tardi. Friulani, genovesi, sardi, siciliani, pugliesi sono – secondo l’autore del De Vulgari eloquentia – tutti parte dello stesso popolo, ed hanno interessi politici convergenti: fare fronte comune (per esempio eleggendo un papa italiano), sedare le rivalità intestine, cercare di rimanere autonomi, ma nel contesto dell’Impero, senza cadere nell’illusione anacronistica dell’indipendenza della piccola patria. Per questo, trovare una lingua veramente comune (il siciliano, il bolognese, o infine proprio l’idioma di quei maledetti fiorentini) è per Alighieri un problema politico fondamentale.
L’Italia non è un territorio vuoto, da occupare. Ha da secoli una identità culturale, ma è composita, e perciò abbastanza aperta. Siamo il paese delle cento città, e teniamo molto a restare tali. Siamo tutti “italo-qualcosa”: perciò che uno si senta italiano di Rabat, come io sono italiano di Napoli, va bene. E va anche bene sentirsi europeo, come Dante si percepiva suddito dell’Impero romano-germanico. Quante patrie ho, allora? Molte, e in particolare due: io “vivo” nella lingua italiana e nella Costituzione. Ed è lì che sono disponibile a ogni sorta d’incontro. Tanto so che l’Italia di oggi è diversa da quella di ieri, e sarà diversa da quella di domani.
In copertina: Piero Barducci, C’era una volta (2025)