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Istituzioni locali e partecipazione a Bologna

La partecipazione nella legislazione nazionale del dopoguerra

La partecipazione dei cittadini alle decisioni che determinano la “vita politica, economica e sociale del paese” è sancita dall’art. 3 della Costituzione È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il tema della partecipazione dei cittadini alla definizione delle scelte pubbliche ha sempre fatto da sfondo alla vita politica italiana del dopoguerra e molte sono le Amministrazioni Comunali che, già  con la legge 278 dell’ 8 aprile  1976 “Norme sul decentramento e sulla partecipazione dei cittadini nella amministrazione del comune” hanno cercato di dare una risposta a questa domanda attraverso le diverse forme possibili di decentramento comunale.

Tale tendenza è stata ulteriormente rafforzata e rinnovata nei contenuti normativi in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001  che introduce, all’art. 118, il principio di sussidiarietà orizzontale:: “Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Per limitarci al campo delle scelte di pianificazione alle varie scale territoriali, laddove l’esigenza di partecipazione si esprime con più forza da parte dei cittadini,  alcuni esempi significativi cominciano a trovarsi fin dagli anni ‘90 come la legge quadro sulle aree protette (L.394/1991) che prevedeva la partecipazione del pubblico nella predisposizione del piano per la creazione e la gestione dell’area.

Ma è con l’agenda 21, dell’inizio degli anni ’90, “intenti ed obiettivi programmatici su ambiente, economia e società per il 21° secolo”, che la partecipazione della cittadinanza alla redazione di piani e programmi viene definitivamente  promossa specificando che  “Attraverso la consultazione e la costruzione del consenso, le amministrazioni locali dovrebbero apprendere e acquisire dalla comunità locale e dal settore industriale, le informazioni necessarie per formulare le migliori strategie”

E’ poi alla fine degli anni 90, anche sulla spinta dell’Agenda ’21, che si afferma la  necessità di un confronto pubblico esteso sulle scelte di pianificazione prendendo come riferimento il “débat public” che si era formalizzato in Francia con una legge specifica del  2 febbraio 1995 relativa alla protezione dell’ambiente detta “Loi Barnier”. Il dibattito publico diventava in questa legge una fase procedurale a monte dei grandi progetti di pianificazione che permetteva ai cittadini di informarsi e di esprimere il loro parere su cause ed effetti dei progetti.

E’ col recepimento della Direttiva europea 2003/35/CE che il coinvolgimento del pubblico è stato istituzionalizzato nell’ordinamento italiano, attraverso il codice dell’ambiente (d.lgs 152/2006 e successive modifiche). In questo D.lgs è previsto l’obbligo di coinvolgere il pubblico nelle decisioni relative all’autorizzazione di attività che possono avere effetti significativi sull’ambiente.

Con l’emanazione poi del D.lgs. 150/2009 in materia di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni  il concetto di partecipazione dei cittadini all’attività̀ delle pubbliche amministrazioni si lega a quello di trasparenza intesa come apertura dei processi decisionali della Pubblica Amministrazione.

Sempre su scala nazionale, un’importante novità introdotta nel nostro ordinamento è stata quella  del “Dibattito pubblico obbligatorio” per tutte le opere al di sopra di una certa soglia di costo o di dimensione come previsto dall’articolo 22 del Nuovo Codice degli appalti  d.lgs n 50 del 2016.

Affinchè poi il “dibattito pubblico” divenisse effettivamente operativo si è dovuto attendere il d.p.c.m. n. 76/2018 Regolamento recante “modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico” che ha provveduto ad inquadrare il nuovo strumento partecipativo, definendolo il «processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi […]organizzato e gestito in relazione alle caratteristiche dell’intervento e alle peculiarità del contesto sociale e territoriale di riferimento», articolato in incontri di informazione, approfondimento e discussione finalizzati alla raccolta di proposte da parte di «cittadini, associazioni, istituzioni».

Con l’art. 40 e l’allegato I.6. del nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 36/2023, si è intervenuti nuovamente a modificare la disciplina del dibattito pubblico nazionale sulle grandi opere infrastrutturali rispetto ai soggetti che possono prendere parte alla procedura di dibattito pubblico, eliminando la partecipazione del cittadino singolo. Ai sensi del comma 4 dell’art 40,  possono partecipare «le amministrazioni statali interessate alla realizzazione dell’intervento, le regioni egli altri enti territoriali interessati dall’opera, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, che, in ragione degli scopi statutari, sono interessati dall’intervento”.

Esistono poi specifici strumenti di partecipazione a supporto di procedure amministrative relative ad atti di pianificazione e programmazione tecnicamente complesse quali ad esempio la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) o la Valutazione Ambientale Strategica (VAS) in cui la normativa nazionale di settore prevede esplicitamente la concertazione come modalità di decisione condivisa nella definizione di obiettivi e nell’allocazione di risorse di finanziamento.

E’ attualissimo infine il dibattito sui processi partecipativi riguardanti questioni come quelle del PNRR che richiedono ancora di essere rafforzati anche negli strumenti e nei soggetti del coinvolgimento. Le novità introdotte con il decreto governance PNRR, soglie dimensionali più basse per certe tipologie di opere con una procedura abbreviata di dibattito pubblico che si affianca alla ordinaria, sono comunque un segnale dell’affermazione del riconoscimento  del diritto dei cittadini al coinvolgimento ed alla partecipazione  sulle scelte che direttamente li riguardano.

La partecipazione nella legislazione regionale dell’Emilia-Romagna

Non molti sono i casi di leggi specifiche a scala regionale: Toscana, Marche, Puglia, Umbria ed Emilia-Romagna, cui si possono aggiungere quelle  delle Province autonome di Trento e Bolzano.

La prima legge dell’ Emilia-Romagna in materia è quella del 9 febbraio 2010, n. 3 “Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”. La Regione, con questa legge  perseguiva  in particolare “la realizzazione di un sistema partecipativo coerente ed omogeneo sul territorio, nel quale siano valorizzate le migliori pratiche ed esperienze”. 

Questa legge, non sufficentemente applicata, viene abrogata poi e sostituita dalla legge  22 ottobre 2018, n. 15 “Legge sulla partecipazione all’elaborazione delle politiche pubbliche. Abrogazione della Legge Regionale 9 febbraio 2010, n. 3”.

La nuova legge ha rispetto alla prima, come obiettivo  principale teso a fare diventare strutturale il metodo partecipativo, l’ampliamento dell’accesso alla partecipazione all’elaborazione delle politiche pubbliche di tutti i soggetti del territorio attraverso in particolare  l’istituzione   dell’Osservatorio della partecipazione e l’impegno sulla Formazione.

La legge riafferma che i processi partecipativi si basano su alcuni principi di base quali l’uguaglianza, l’inclusione, l’ informazione, la trasparenza, l’equità, la legittimità, l’efficacia, la cooperazione, la fiducia, la valutazione e la rendicontazione.

Una buona legge con alcuni limiti nelle procedure, nei tempi definiti per il processo, nell’eccessiva burocratizzazione del processo stesso e nella garanzia di eguaglianza fra i partecipanti al processo. Tutti limiti questi ultimi di una sua limitata applicazione. Va segnalato inoltre che la legge è del 2018 e che esistono alcune leggi precedenti come la legge 24 del 2017 che stabilisce stabilisce la disciplina regionale in materia di governo del territorio, di cui oggi si prevede una revisione, che vanno aggiornate pure ai contenuti della legge suddetta

Si tratta ora di procedere su quel percorso migliorando l’informazione e la promozione della legge, migliorando e semplificando alcuni aspetti della partecipazione, garantendo maggior chiarezza e trasparenza ai processi e soprattutto assicurando parità di ruolo e di incidenza ai diversi partecipanti al processo, e per primi  ai cittadini ed a tutti i portatori di interessi, attraverso figure terze che sovraintendano il processo stesso.

Va poi, più in generale, promossa una cultura della partecipazione fra i cittadini, che il più delle volte esprimono la domanda di partecipazione solo al momento in cui la questione li tocca direttamente,   attraverso un impegno delle amministrazioni ad informarli dell’avvio dei processi decisionali prima che le decisioni vengano già definite, o addirittura, già prese, come oggi sovente avviene.

E’ questo un passaggio fondamentale per rafforzare il legame di fiducia  dei cittadini nei confronti delle istituzioni che una è delle prime azioni da metter sul campo se si vuole fermare la loro progressiva drammatica astensione dall’esercizio di elettorato attivo.

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La partecipazione dei cittadini a Bologna nel dopoguerra

Il decentramento democratico di Dozza

Dopo la Liberazione il sindaco Giuseppe Dozza si trova di fronte ad una città che va ricostruita sia dal punto di vista edilizio e amministrativo  che dal punto di vista morale e civile.

Si tratta di ridare fiducia ai cittadini e di renderli partecipi all’impresa che si prospetta. Due sono allora gli strumenti che egli utilizza per primi  a tal fine: i Consigli tributari e le Consulte popolari cittadine.

I Consigli tributari

I Consigli tributari avevano il compito di coadiuvare gli uffici comunali nella gestione locale dell’imposta sulla famiglia. L’imposta sulla famiglia ( o di focatico come nominata all’inizio) era un tributo comunale che, fin dal 1868 in forme diverse, tassava il reddito complessivo del gruppo famigliare. Essa  faceva esclusivamente riferimento a tutte quelle circostanze che contribuivano ai maggiori o minori agi di una famiglia ed alla sua posizione sociale. L’imposta fu poi  abolita con la riforma tributaria del 1974. 

Si trattava quindi di assicurare equità e trasparenza all’ applicazione del tributo comunale anche attraverso la scoperta degli evasori. Di qui addirittura l’idea di “trasformare l’assessorato ai tributi in un “casa di vetro”, e non solo in senso metaforico. Così gli uffici della ripartizione tributi, compresa la stanza dell’assessore, venivano separati dagli altri e racchiusi fra pareti trasparenti, attraverso le quali i cittadini potevano “vedere” come si lavorava sui loro redditi.”
I Consigli tributari decentrati nella città, composti da rappresentanti di tutte le categorie economiche e sociali, nominati dal consiglio comunale, avevano dunque il compito di controllo e di collaborazione nell’applicazione del tributo.

Si iniziava cosi’ ad affermare a Bologna un principio che vedeva nella partecipazione anche il diritto di  controllo sull’operato dell’ amministrazione e dei suoi eletti e di responsabilizzazione sulle loro scelte.

Le Consulte popolari cittadine

Sarà poi con le Consulte popolari cittadine che la partecipazione verrà allargata ancor più alla cittadinanza.

il sindaco Dozza aveva perfettamente capito che non bastava il partito a garantire il consenso e il rapporto con i cittadini ma che occorreva una sede in cui questo potesse farsi in maniera aperta e diffusa. Erano nate così nel 1947 le “Consulte popolari cittadine” non sulla base di un provvedimento istituzionale ma attraverso atti informali ispirati dalla giunta e dai partiti, comunista e socialista, che la componevano. Alla consulta partecipano le persone più in vista ed attive del “rione” in cui essa si era formata (non si parla ancora di “quartieri” che nasceranno dopo). La “consulta” finisce per essere lo strumento di trasmissione delle decisioni della Giunta ai cittadini perché questi esprimano le richieste che ne possono conseguire.

I Quartieri

Le Consulte sono la prima forma partecipativa a Bologna che poi verrà rilanciata ed aggiornata negli anni ’60 sulla base delle proposte che Giuseppe Dossetti avanza nel suo Libro Bianco redatto in previsione delle elezioni amministrative del maggio 1956 sotto la direzione del  sociologo Achille Ardigò. L’obiettivo principale del Libro Bianco era quello di proporre un programma fondato sull’“autogoverno dei cittadini di uno stesso quartiere”, che desse una svolta al “conservatorismo rosso” della città. “Ma soprattutto il Libro Bianco fu un futuro modello per la politica di piano, grazie alla lungimirante intuizione di Osvaldo Piacentini di suddividere l’area urbana in quartieri. La riconfermata giunta Dozza fece propria questa proposta avviando così la prima di una serie di sperimentazioni che confluiranno nella Legge nazionale 278 dell’8 aprile 1976”,…, la quale istituì i consigli circoscrizionali.” ( Marzia Maccaferri. Dalla razionalizzazione del territorio ai limiti dello sviluppo: la pianificazione sociale ed ambientale di Osvaldo Piacentini, in “Altronovecento” rivista online promossa da Luigi Micheletti, 1 dicembre 2009).

Questi indirizzi danno frutti nella vita amministrativa della città. Maggioranza ed opposizione, con Achile Ardigò in consiglio comunale che  porta avanti le idee di Dossetti ritiratosi dalla vita politica nel 1958, interagiscono sull’idea di decentramento democratico. Questo porterà alla delibera del Consiglio comunale del 21 settembre 1960 che istituirà i Quartieri.

Riporto qui di seguito alcuni  passaggi tratti  da “Valutazioni e orientamenti per un programma di sviluppo della città di Bologna e del comprensorio, Zanichelli, Bologna, 1964, p.124, p. 125 ( Documento della Giunta Comunale di Bologna presentato al Consiglio il 5 aprile 1963)” al capitolo IL DECENTRAMENTO DEMOCRATICO, che meglio di qualsiasi altro danno il senso dell’importanza e della compiutezza di quelle decisioni. 

“Le tappe essenziali di questa politica, che emergono dal testo stesso della deliberazione, (delibera del Consiglio comunale del 21 settembre 1960), sono costituite dalla divisone della città in quattordici quartieri, ( Borgo Panigale, Santa Viola, Lame, Bolognina, Corticella, San Donato, San Vitale, Mazzini, Murri, San Ruffillo, Aldini, Colli, Andrea Costa, Barca , oltre al  Centro) definiti dalle tradizioni storiche, dalla strutturazione urbanistica e anche, in qualche caso, dal costune di vita; dall’istituzione di organismi democratici  destinati a esprimere la volontà della collettività di quartiere e a mantenere il tramite permanente con l’organizzazione centrale del comune attraverso un organismo non burocratico; e, infine dall’istituzione in ogni quartiere di un centro civico, cioè in sostanza, di una casa comunale dove si raccoglieranno gli uffici, i servizi e le istituzioni capaci di esprimere un’opera direzionale di guida della collettività di quartiere” …” Questa politica è nata a Bologna, come uno dei momenti essenziali del terzo tempo della sua politica comunale. Proprio perché qui si potevano ritenere in un certo senso esauite le istanze dell tappe precedenti, quella della ricostruzione e quella del rinnovamento,  e perché qui ad altissimo livello è giunta la lotta politica che vede, sì, divise le varie forze democratiche sui temi della politica quotidiana o della politica generale, ma tutte queste forze costringe la consapevolezza della necessità di dare figura e forma di istanze democratiche costituzionali alle voci infinite del movimento popolare e del movimento democratico” …”In virtù dell’istituzione di questo regolamento, in ogni quartiere verrà nominato un consiglio di quartiere composto da venti cittadini ivi residenti, e nominati nella stessa proporzione dei gruppi consigliari presenti nel consiglio comunale. Al consiglio di quartiere spetterà di rappresentare la collettività di quartiere e di esprimere democraticamente la volontà dei cittadini che vivono in esso. Verrà  pure nominato un aggiunto del sindaco su voto del consiglio comunale e su parere della commissione per il decentramento”…” La funzione dl consiglio di quartiere dovrà essere operativa e di collegamento tra il quartiere e l’amministrazione comunale centrale”.

Quindi al di là di alcune decisioni centralistiche, che verranno successivamente superate (“ Il consiglio di quartiere composto da cittadini nominati nella stessa proporzione dei gruppi consigliari presenti nel consiglio comunale”, o, “Un aggiunto del sindaco su voto del consiglio comunale e su parere della commissione per il decentramento”) importanti e lungimiranti sono i compiti assegnati al consiglio di quartiere: “ Al consiglio di quartiere spetterà di rappresentare la collettività di quartiere e di esprimere democraticamente la volontà dei cittadini che vivono in esso.”.

La lunga strada del decentramento democratico prosegue con il sindaco Guido Fanti quando, nel 1966,  il centro storico viene diviso in quattro quartieri: San Vitale, Galvani, Malpighi, Marconi.

Nel 1985  il Sindaco Walter Vitali istituisce poi la figura del Presidente e di un eventuale Vicepresidente di Quartiere con l’elezione diretta degli organi di rappresentanza da parte dei cittadini. Nello stesso tempo si suddivide la città in nove quartieri.

A giugno 2016 entra ufficialmente in vigore a Bologna l’attuale articolazione amministrativa che ha portato a una riduzione dei quartieri da 9 a 6: Santo Stefano, Savena, Porto-Saragozza, San Donato-San Vitale, Navile e Borgo Panigale-Reno.
Col tempo i quartieri diventano, anche se faticosamnete, la sede del confronto e della partecipazione costruttiva  alle scelte dell’Amministrazione centrale. Le varie commissioni erano molto seguite e frequentate con un notevole lavoro di elaborazione e di proposta. In particolare la commissione che si occupava di urbanistica era attiva e vivace in tutti i quartieri.

Questa funzione è andata via via  scemando ed i quartieri, a parte le funzioni amministrative a loro assegnate, hanno perso quasi completamente questo ruolo di  portavoce dei cittadini verso l’Amministrazione  e di organizzatori della partecipazione.

Di questa situazione l’Amministrazione comunale è ben a conoscenza tant’è che ha in agenda una revisione del sistema “decentramento e quartieri”.

Non si tratterà certo di rivedere confini e perimetri, dove molti hanno da sempre espresso ad esempio la necessità di un quartiere “Centro storico” come esisteva all’origine, perchè la cosa sarebba  troppo lunga e complessa  sia dal punto di vista funzionale che amministrativo. Si tratterà invece di rivedere e aggiornare compiti e funzioni dei quartieri.

Siamo tutti in attesa che questo processo di revisione si avvii contando innanzi tutto sul fatto che la partecipazione dei cittadini ne sia una componente centrale.

Istituzioni locali e partecipazione a Bologna | Lab Politiche e Culture