Image

Destre al governo, destre di governo

  1. “Perdenti di successo”?

Giorgia Meloni e la sua coalizione governano il Paese da tre anni. Legittimamente, non sono degli usurpatori. Le politiche dell’esecutivo esaminate in questo report godono, inoltre, di un tutt’altro che trascurabile consenso. L’entusiasmo della Premier, dei suoi Ministri, dei media vicini alle destre è alle stelle. I dati delle indagini più autorevoli non giustificano, tuttavia, questa dilagante retorica. L’Istat parla, sia pur tra le righe, di un Paese stanco che, arranca in condizioni di diffusa e strutturale precarietà e incertezza. Non ci sono segnali di una strutturale inversione di tendenza, a partire da quelli macroeconomici. L’elevato debito pubblico continua a limitare la capacità di spesa e comporta il pagamento ogni anno di circa 100 miliardi d’interessi passivi. Perdura la tendenza ad una riduzione del credito bancario al settore privato, perdura l’insufficienza cronica di investimenti pubblici e privati, perdura il calo della produzione industriale in settori considerati strategici (tessile, abbigliamento, chimica, metallurgia). La stagnazione della produttività è più accentuata di quella già modesta dell’Eurozona. La crescita del prodotto interno lordo e dell’occupazione è costantemente modesta, non superando la soglia dello zero virgola. Il rischio povertà si allarga per consistenti fasce della popolazione. E, soprattutto, non si registra alcuna inversione di tendenza quando si volge lo sguardo all’andamento demografico, il dato che più conta nel medio-lungo periodo per la Ricchezza della Nazione (la popolazione in età di lavoro) e per la tenuta del tessuto sociale e civile (qualità del lavoro, welfare, previdenza, sanità, istruzione, formazione)..

La fotografia fornita dal Rapporto Istat 2025 è quantomai allarmante. Nel 2024 la produzione industriale si è contratta del 4% (del 2% nel 2023). La crescita del Pil è stata dello 0,7%, come nel 2023, molto meno di Francia (1,2%) e Spagna (3,2%). Sono aumentati in assoluto i posti di lavoro, ma per “merito” degli impieghi nei settori a bassa produttività e con bassi salari (quali il «lavoro povero» a tempo determinato per gli over 50). Quasi sei milioni di italiani (un decimo della popolazione) vivono in condizioni di «povertà assoluta». Undici milioni (un quinto) sono «a rischio di esclusione sociale». E quattordici milioni (un quarto) sono «a rischio povertà». Il tasso di occupazione resta il più basso d’Europa tra i 15 e i 64 anni, a causa innanzitutto dei livelli inferiori di partecipazione e occupazione dei giovani e delle donne. Il tasso di inattività è il più elevato dell’Europa a 27 (33,4% contro una media del 24,6%) e il reddito reale da lavoro per occupato si è abbassato del 7,3% rispetto all’anno scorso. I salari reali non hanno retto il passo dell’inflazione, avendo tra il 2019 e il 2024 perso il 10,5% del potere d’acquisto. Una perdita di gran lunga superiore di quella della produttività del lavoro che, spiega il rapporto Istat, «è il risultato dell’espansione dell’occupazione maggiore rispetto a quella del valore aggiunto». Più persone al lavoro, ma un lavoro che produce meno ricchezza e meno salario. Per questo, secondo il rapporto, lo scorso anno un quinto dei lavoratori complessivi in Italia risultava «a basso reddito». Una condizione più frequente tra le donne (26,6%), i giovani con meno di 35 anni (29,5%) e i cittadini stranieri (35,2%). Mentre parallelamente aumenta l’espatrio tra i giovani tra i 25 e i 34 anni con una laurea (21mila nel 2023, un record storico: i laureati che negli ultimi 10 anni hanno lasciato il Paese sono circa 97mila, mentre in assoluto nel 2024 sono state 191mila le persone ad andarsene dall’Italia in cerca di migliori fortune) e, contemporaneamente, il livello di istruzione della popolazione italiana resta inferiore alla media europea. Solo due terzi degli adulti hanno, infatti, un diploma di scuola superiore e appena uno su cinque possiede un titolo universitario (meno della metà della popolazione adulta possiede abilità digitali di base: il 45,8% rispetto alla media europea del 55,5%). Anche sul versante sanitario Il rapporto Istat restituisce una fotografia quantomai allarmante. Nel 2024 un italiano su dieci ha rinunciato a visite o a esami specialistici, a causa delle lunghe liste di attesa o per la difficoltà a pagare le prestazioni sanitarie. Si vive di più, ma si vive peggio. È aumentata la speranza di vita, ma si è ridotta la quota di anni vissuti in buona salute, in particolare per le donne. In particolare, il rapporto Istat 2025 osserva miglioramenti continui a partire dagli anni Cinquanta nei comportamenti legati alla salute: calano i fumatori e cresce l’attenzione alla pratica sportiva. Anche qui però si tratta, per molti versi, di false speranze. Si fumare di meno in casa o in macchina con i bambini, ma queste pur benefiche modifiche comportamentali della popolazione non reggono all’urto dei tempi, ai cambiamenti climatici e di alimentazione. Aumentano, infatti, i casi di sovrappeso e di obesità già dall’infanzia, si diffondono nuove forme di dipendenza e di consumo, mentre è in aumento il disagio psicologico tra anziani e, soprattutto, tra giovani e donne. Infine, racconta sempre il rapporto Istat 2025, l’Italia è al secondo posto tra i Paesi europei per perdite economiche dovute a eventi climatici estremi. Ancora trattati come una fase emergenziale, i cambiamenti climatici si sono trasformati già da diversi anni in un problema strutturale. Tra il 1980 e il 2023 l’Agenzia europea per l’ambiente stima per l’Italia 134 miliardi di euro di perdite dovute a cause ambientali, collocandola al secondo posto nell’Europa a 27 dopo la Germania con 180 miliardi. E prima della Francia con 130. Quasi tremila comuni italiani (circa il 35% del totale, corrispondenti al 37,3% del territorio nazionale) sono interessati da almeno una categoria di rischio naturale associato alla maggior frequenza degli eventi climatici estremi.

Le destre al governo non convincono, eppure “vincono”. Perché? Quale è l’arcano che fa sì che l’underdog vesta oggi i panni di una “perdente di successo”? La vita pubblica si nutre anche di immagini, icone, metafore. E, certamente, l’autorappresentazione di ‘passionaria’ che la Premier continua a dare di stessa è una delle chiavi del suo “successo”. La Seconda Repubblica delle destre si è sin qui mostrata capace di tenere insieme un blocco sociale e politico. Un progetto che si nutre di tre ingredienti che vanno compresi nella loro intrinseca “verità”. Stiamo parlando dell’ideologia che fa da cornice e carburante delle politiche e delle “riforme” degli oltre mille giorni dell’esecutivo.

  • L’infantilizzazione del discorso pubblico

Il primo, cruciale, di questi ingredienti è una rappresentazione dell’interesse nazionale che, sotto l’insegna della triade “Dio, Patria, Famiglia”, si fa artefice di “politiche” a difesa delle residue “proprietà” delle “classi basse” che si sentono minacciate dai nuovi “miserabili” – migranti in primis – che non ne hanno alcuna. Politiche di conferma delle sicurezze, per quanto modeste, acquisite in passato contro il rischio di perderle. America first. Prima gli Italiani. Un “prima” che non annuncia un “dopo”, quanto piuttosto un “mai” a tutto ciò che è “straniero”; un capro espiatorio cui addebitare la propria crescente povertà, insicurezza e angoscia per il futuro. Senza alcun riferimento al popolo come collettività: il riferimento piuttosto è al singolo individuo, al branco, alle sue utilità. Dalla “società politica” alla “società naturale”, dal primato della legge a quello degli spiriti animali: protezione, confini, sicurezza, conferme identitarie, primati di razza. Una infantilizzazione del discorso pubblico che alimenta una passione popolare negativa. Una “prosa” degli interessi concreti della popolazione indigena impermeabile alla “poesia” dei diritti umani e universali.

L’infantilizzazione del discorso pubblico va presa sul serio. Se­condo una ricerca di qualche anno fa  dal punto di vista della collocazione politi­ca nell’espressione prima gli italiani si riconosce sì la grande maggioranza di coloro che votano Lega e buona parte degli elettori di Forza Italia e Fratelli d’Italia ma anche rilevanti quote di elettori centristi, democratici, progressisti. Ancor più più significativo è il dato economico-sociale. La parola d’ordine prima gli italiani raccoglie il più largo consenso tra gli operai, tra i ceti bassi, tra tutti coloro che si trovano in difficoltà economiche, tra i lavoratori autonomi, ma anche, sia pur in misura minore, tra i lavoratori dipendenti e nel ceto medio. Traduciamo. La domanda politica e sociale di mettere avanti a tutto la tutela degli italiani nativi è maggioritaria. È una pulsione seducente che, a vario titolo, strizza l’occhio al 65% dell’opinione pubblica. Una quota che va ben oltre il voto a Salvini. Una pulsione ‘fanatica’ e ‘prosaica’ allo stesso tempo. Prima agli italiani è, infatti, un preciso elenco di scelte e azioni concrete: dare la precedenza agli autoctoni, rispetto agli immigrati, nell’accesso alle case popolari (68%), nelle liste di disoccupazione (63%), negli elenchi per gli asili pubblici (54%), negli sgravi per le mense scolastiche (52%). Minore, ma anch’essa allarmante (il 26%), la quota di coloro che auspica classi separate tra italiani e immigrati. Siamo di fronte, cioè, ad una visione della realtà che è penetrata nelle viscere della società italiana. La priorità degli italiani nelle liste di accesso per le case popolari è rivendicata dal 92% dei leghisti, dal 76% dei forzisti, dal 78% dei pentastellati, dal 36% degli elettori del Partito democratico. Sulla precedenza degli italiani nelle liste di disoccupazione concordano l’89% dei leghisti, il 75% dei pentastellati e il 28% dei supporter del Pd.

In che mondo siamo finiti, si chiedono le “anime belle”? Quando abbiamo smesso di essere brava gente? Perché le classi popolari scaricano le loro ansie sugli ‘ultimi’, invece di coltivare i buoni sentimenti umanitari, cosmopolitici, ambientalisti della borghesia dei centri storici? La risposta, quanto mai semplice e disarmante, è a portata di mano. Le classi popolari sono smarrite e facile preda di sentimenti brutali, di qualche tranquillante che ne plachi le paure per il presente e per il futuro. E la narrazione etno-sovranista è, a suo modo, rassicurante, in grado di evocare una qualità e un’identità. Lo aveva a suo tempo argutamente notato Jean Paul Sartre: “Molti antisemiti appartengono alla piccola borghesia cittadina; sono funzionari, impiegati, piccoli commercianti che non possiedono niente. Ma proprio ergendosi contro l’ebreo, assumono improvvisamente coscienza di essere proprietari; rappresentando l’israelita come un ladro, si pongono nella posizione di chi potrebbe essere derubato; poiché l’ebreo vuol rubargli la Francia, vuol dire che la Francia è sua. Così ha scelto l’antisemitismo come un mezzo per realizzare la sua qualità di possidente”.

Ineccepibile, vale anche per oggi. A patto di non dimenticare che l’attuale brutalità etno-sovranista ha le sue origini in un’altra brutalità, quella globalista. È il lungo elenco di promesse non mantenute dal turbocapitalismo il brodo di coltura del razzismo popolare, il lungo elenco delle ferite inferte a tutti gli ‘esclusi’ dai benefici della globalizzazione. Per gli apostoli del globalismo il libero commercio (free trade) è un commercio equo (fair trade) in quanto sono le ‘oggettive’ e ‘virtuose’ leggi della concorrenza a determinare il «giusto prezzo» di beni e servizi. Con grande e universale beneficio del sistema economico nel suo complesso (efficienza, produttività) e per i consumatori che spunteranno, il prezzo più giusto, più basso. Il globalismo è cieco, non vede che il mercato non è semplicemente il luogo dello scambio finale di beni e servizi. Che a monte degli scambi ci sono imprese, territori, lavoratori, comunità in carne ed ossa che hanno un’idea ‘soggettiva’ del giusto prezzo, per le quali è giusto il prezzo che rispetta le ‘leggi sociali’ che consentono la riproduzione della loro esistenza ‘materiale’ e ‘spirituale’. Come è scritto all’art. 36 della nostra Carta fondamentale: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Un’idea di giustizia di tutta un’epoca. Quel mondo delle costituzioni keynesiane dei “trenta gloriosi” dello Stato sociale guidato da una logica volta all’inclusione del lavoro organizzato e sindacalizzato nell’ economia e nella vita della polis, grazie alla produzione di massa, alla costruzione di grandi infrastrutture e di attrezzati quartieri suburbani.

  • De-costituzionalizzazione e propaganda

Sconfitto nei successivi “cinquant’anni ingloriosi” quel mondo, la Repubblica delle destre piace oggi a tanti poteri forti. Imprese, corporazioni, lobby. Non a noi, sentiamo a pelle puzza di bruciato. Per le inquietanti analogie con il populismo d’inizio XX secolo (che aprì la strada al fascismo- regime), con il neo-fascismo degli eredi di Salò, con il neo-fascismo eversivo degli anni Sessanta e Settanta. È difficile non vedere le analogie. Ma la Repubblica delle destre è anche altro. Come il fascismo storico non è solo infantilizzazione del discorso politico, ma è anche espressa de-costituzionalizzazione. La proposta di riforma della forma di governo (il c.d. premierato elettivo), della forma di Stato (la c.d. autonomia differenziata), dell’ordinamento giudiziario, con cui le destre di governo intendono consegnare formalmente agli archivi la Prima Repubblica e inaugurare una nuova storia, quella della Seconda Repubblica.

Non va sottovalutato l’ampio significato “costituente” del motto “Dio, Patria Famiglia”. La triade è il simbolo di un conservatorismo tradizionalista che non prelude, come fu per il fascismo storico, ad un forte ruolo dello Stato. La triade è l’icona di un programma politico-istituzionale di neoliberalismo nazionalistico, come esemplarmente testimonia la “popolana” rappresentazione del fisco come “pizzo di stato”. Per Giorgia Meloni, il capitalismo va lasciato crescere liberamente all’interno di un retorico ordine naturale della Nazione, smantellando il welfare universale a vantaggio delle più svariate misure settoriali, strizzando l’occhio ai più diversi padroncini (taxisti, balneari, ambulanti), rassicurando i ceti medi che avevano sostenuto il berlusconismo e che sono alla ricerca di nuova protezione. Piccolo-borghesi, imprenditori, artigiani, ma anche operai e ceti marginali spaventati dalle delocalizzazioni produttive e dalla perdita di posti di lavoro e di salari decenti.

È questa oggi, dal punto di vista sociale, la Repubblica delle destre. Destre che non intendono far risorgere il fascismo storico. Ma scom­mettono, piuttosto, su una forma politica funzionale a blin­dare una democrazia di investitura che è già nella “costituzione vivente” del Paese e che le ha già portate al potere. Questo è il significato autentico del voto del settem­bre del 2022. Un mandato, in assenza di una vera alternativa politica, a governare senza alcun controllo dell’opposizio­ne parlamentare, delle rappresentanze del lavoro, delle garanzie a tutela dei diritti civili e sociali. Questo è l’obiettivo sistemico del premierato, dell’autonomia differenziata, della riforma dell’ordinamento della sicurezza e della giustizia.Le odierne destre di governo vogliono, più che “riscrivere la storia”, “riscrivere il futuro”, certificare che Giorgia Meloni è la madre della Seconda Repubblica, così come la sinistra lo era stata della Prima Repubblica.

Questa è, in particolare, l’altissima posta in gioco del premierato elettivo. Il contesto nel quale si svolge la battaglia è astrattamente favorevole a coloro che vi si oppongono. Il premierato elettivo non gode, invero, di buona stampa nella “cultura alta”. Gli aggettivi denigratori si sprecano. Confuso, contraddittorio, torbido, pericoloso, autoritario, eversivo nella misura in cui introduce il “principio” per cui non è più il premier a dipendere dal Parlamento, ma il Parlamento dal capo del governo. Argomenti senz’altro “costituzionalmente corretti”. Ma oossiamo per questo dormire sonni tranquilli? Si, se fossimo certi che questi argomenti incontrano un largo consenso nella “cultura bassa”. Ma le cose non stanno propriamente così. La narrazione ‘costituzionale’ meloniana gode a livello popolare di un suo appeal. L’argomento principale delle destre è che le forze che si oppongono al premierato elettivo vogliono continuare con gli “inciuci” a tradire la volontà che si forma nelle urne. Un argomento che al momento continua a funzionare. E funziona anche perché troppe volte di questa ‘prassi’ sono stati protagonisti le forze del centro-sinistra. Si dirà anche che le opposizioni temono di non farcela con le nuove regole e che è per questa ragione che alzano la bandiera della forma pura di governo parlamentare. Si dirà che la sinistra delle élite si sente più a suo agio in un sistema nel quale i governi vengono “costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo”. Nei salotti frequentati dall’establishment, aggiungerà Giorgia Meloni con la sua arguzia da pasionaria.

  • Re-occidentalizzazione immaginaria

Il terzo, tutt’altro che secondario, ingrediente dell’ideologia meloniana è prettamente geo-culturale e geo-politico. La rivendicata appartenenza dell’Italia all’Occidente e l’impegno in prima linea per rendere sempre più saldo e rinnovato questo ancoraggio anche contro le oscillazioni e le incertezze di altri paesi occidentali, in particolare di alcuni di quelli appartenenti all’Unione europea. Esemplare, anche dal punto di vista dell’abilità retorica e del consenso raccolto, è un passaggio del discorso tenuto quest’anno da Giorgia Meloni al meeting di Rimini di Comunione e liberazione:

«Io non mi sono mai fidata di chi si vergogna della propria identità, però non mi fido neanche di chi non è disposto a viverla in modo nuovo. Eliot diceva che la tradizione va sempre reinventata. Essere conservatori non vuol dire costruire con mattoni vecchi, significa cercare sempre mattoni nuovi per continuare a edificare una casa che non hai iniziato tu. Significa amare le linfe di una storia che altri hanno avviato, desiderare che grazie al tuo contributo quella storia produca frutti sempre più abbondanti. E la nostra casa a cui aggiungere mattoni nuovi è l’occidente, non come ho detto diverse volte un luogo fisico, ma un sistema di valori nato tra l’incontro tra la filosofia greca, il diritto romano, l’umanesimo cristiano. Che ha fertilizzato il terreno dove è cresciuta la separazione tra Stato e Chiesa, dove gli uomini nascono uguali e liberi, dove la vita è sacra e la cura per i più fragili è un valore assoluto. Questo è quello che siamo. È quello che siamo e quello che ha permesso alla nostra civiltà di progredire nei secoli e di essere un modello da seguire. E signori, l’occidente ha ancora molto da dire».

L’unità “spirituale” dell’Occidente e dell’Europa come risposta alla crisi identitaria, come condizione per garantire giustizia, sicurezza e prospettive di pace. E poi Israele e Ucraina come modelli di eroismo (popoli che “hanno guardato dritto negli occhi il proprio nemico e hanno scelto di combattere”), con l’Italia punto di equilibrio contro l’asse Russia-Cina-Iran-Nord Corea. Un orientamento di fondo che Giorgia Meloni professa da tempo e che appare ad una parte dell’opinione pubblica autentico anche perché Giorgia Meloni non manca di sottolineare che fedeltà all’Occidente significa anche lealtà, e lealtà significa anche avere il coraggio di criticare, quando occorre, eventuali scelte sbagliate di altri leader occidentali, e di non temere di presentarsi con la propria identità anche di fronte a Paesi e Governi con diverso orientamento geopolitico e geoculturale. Una postura che paga sul piano dell’immagine internazionale e che il governo di centro-destra non manca di sottolineare quasi quotidianamente, rivendicando anche una capacità egemonica sul piano delle politiche quali quelle migratorie e, persino, sul piano delle politiche di contenimento del debito pubblico.

  • Il declino sotto il tappeto. L’inverno demografico

Gli ingredienti che compongono l’ideologia del Governo Meloni vanno sempre più esplicitati, decostruiti, contrastati. Lo ha fatto sin dall’inizio la Cgil, denunciando la natura classista di un governo generoso con le imprese (finanziamenti a pioggia senza condizionalità, condoni fiscali) e con chi più ha (autonomia differenziata) e duro con chi meno ha. A cominciare dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, sopravvissuto in forma ridotta solo per le famiglie in cui vivono minori, ultrasessantenni o disabili, malgrado l’Italia abbia più di due milioni di disoccupati, quasi sei milioni di persone che vivono in povertà assoluta (un decimo della popolazione), undici milioni (un quinto) «a rischio di esclusione sociale», quattordici milioni (un quarto) «a rischio povertà».

Ciò che va più nitidamente messo a tema è la complessiva inadeguatezza delle politiche e delle riforme messe in campo a porre rimedio a quella che è diventata la questione italiana per eccellenza: l’andamento demografico, vero e proprio punto di caduta di un declino sistemico della Nazione. Il tema non è, ignorato dalla retorica ufficiale del governo. L’Italia è, anzi, ripetutamente e ossessivamente raccontata come una nazione avanzata, con una popolazione di quasi 59 milioni di abitanti, l’ottava economia mondiale e un patrimonio privato superiore ai 10.000 miliardi di euro. L’aspettativa di vita, superiore a 83 anni, colloca il Paese – si dice – fra i più longevi al mondo. Ed è vero. Ma dietro questo apparente quadro idilliaco, è in corso un declino demografico che presenta alcuni dei peggiori parametri a livello mondiale. L’attuale tasso di natalità (1,2 figli per donna) è fra i più bassi al mondo, mentre le nascite sono in costante calo dal 2008, cosa che ha determinato la progressiva diminuzione degli abitanti di oltre 1,3 milioni di persone negli ultimi 10 anni. Contemporaneamente la popolazione ha raggiunto un’età media di 46,6 anni diventando la seconda più vecchia al mondo, superata solo da quella giapponese. Un pericoloso sbilanciamento generazionale a favore delle popolazioni più anziane, mentre quelle più giovani sono numericamente ridotte e socialmente precarie. Ma la progressiva riduzione dei giovani lavoratori è solo uno dei tanti elementi negativi. Entro pochi anni la componente demografica più numerosa, nata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, diventerà sempre più anziana ponendo una fortissima pressione sul servizio sanitario nazionale. Pressione che si ripercuoterà anche su tutti i servizi sociali dedicati all’assistenza degli anziani che dovranno fare affidamento su scarse strutture pubbliche, sull’assistenza privata o l’impegno personale dei pochi eredi (spesso figli unici). Un processo che alimenta a cascata altre crisi, dal declino industriale all’aumento delle diseguaglianze, al decadimento culturale-sociale. Le divisioni fra le generazioni si acuiscono e con esse anche gli sbilanciamenti territoriali, con lo spopolamento accelerato del Sud a favore di alcune regioni del Nord o di Paesi esteri.

Per fronteggiare questa deriva il governo si affida a modesti incentivi economici in favore delle giovani famiglie. Ma in nessuna nazione avanzata questa scelta si è dimostrata adeguata ad invertire la curva demografica, nonostante la presenza di welfare state più potenti rispetto a quello italiano. L’unica soluzione razionale sarebbe quella legata ai flussi migratori, ma l’ingresso di centinaia di migliaia di persone richiede attenta pianificazione ed enormi risorse che il governo Meloni, anche per le ragioni ideologiche qui esaminate, non ha messo e non intende mettere in campo, preferendo alimentare reazioni xenofobe considerate elettoralmente più fruttuose. Al di là dell’enfasi sull’interesse nazionale, la scelta quella è mettere il declino sotto il tappeto. Declino è, anzi, considerata una “parola proibita”, evocando il suo uso la messa in discussione di un modello di sviluppo fondato su compressione dei salari, lavoro povero, sicurezza decrescente nei luoghi di lavoro, fiscalizzazione dei conflitti sociali che le destre di governo hanno in questo triennio pienamente sposato, implementato, approfondito tramite la politica dei bonus

I dati per chi guarda con occhi disincantati la cartina al tornasole del declino, l’andamento demografico, sono impietosi. La popolazione, malgrado l’aumento della longevità e l’incremento dell’immigrazione, diminuisce continuamente. Negli ultimi dieci anni quasi un milione e mezzo di residenti in meno (il calo ha naturalmente caratteristiche diverse per territorio, genere, fasce di età). Si aggrava ulteriormente il calo delle nascite. Aumentano i cittadini italiani che espatriano. Sulla base degli attuali andamenti l’Istat stima per il 2030 500 mila residenti meno, per il 2050 quattro milioni, per il 2080 13 milioni.

  • Spopolamento. Non solo delle aree interne

Un inverno demografico ‘combattuto’ con politiche che non solo ignorano una delle sue forme più macroscopiche e socialmente dolorose – lo spopolamento – ma continuamente lo alimentano. Le scelte sin qui fatte vanno tutte in direzione di un aggravamento strutturale dei processi di abbandono delle zone appenniniche e interne. Tutte le politiche messe in campo – quelle migratorie, quelle per il lavoro, quelle per il welfare territoriale – congiurano ad aggravare il fenomeno, mentre le cure palliative sin qui apprestate da alcuni Comuni (quali le case a zero euro) sono lungi dal lenire lo sradicamento comunitario delle popolazioni. Il Governo appare, anzi, rassegnato a considerare questo un fenomeno non contrastabile che va, anzi, alimentato. L’idea di uno “spopolamento irreversibile” di una parte significativa del territorio nazionale è stata, infatti, messa nero su bianco nel nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI), pubblicato ad aprile 2025 dal Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud. La formulazione ha suscitato critiche da parte di ricercatori, amministratori e attivisti, che ne contestano sia l’impostazione che le conseguenze. L’Unione Nazionale dei Comuni Montani (UNCEM) ha chiesto di rimuovere la formula, temendo che possa diventare uno strumento per giustificare inattività o abbandono da parte delle amministrazioni. A giugno, oltre 150 soggetti, tra cui docenti universitari, sindaci, urbanisti e operatori culturali, hanno sottoscritto un appello pubblico contro la logica dell’“irreversibilità”, che – si è detto – equivale a «un accompagnamento alla buona morte, un’eutanasia».

L’orientamento del Governo non è frutto di disattenzione o di un incidente di percorso. Ma di un “paradigma” che ignora che le aree interne -lo stesso vale per il patrimonio boschivo e costiero, per i tessuti urbani – rappresentano nella loro interezza un prezioso capitale culturale e societario oltre che produttivo, un presidio indispensabile di sicurezza e coesione, un investimento strategico per prevenire e contrastare eventi climatici ed ambientali estremi. L’idea, condivisa anche da alcuni settori delle sinistre di governo, di una crescita che pensa i territori e le città, come marchi di un prodotto da vendere (brand) a simulacri di capitalismo e di auto-imprenditorialità, carne da macello per paradisi più o meno esotici, location per “eventi” mordi e fuggi. Ignorando i guasti profondi (bassi salari, precarietà, rendita, diseguaglianze) che questo “modello di sviluppo” produce in termini di spopolamento culturale e comunitario. Il prezzo che si paga quando, invece di risolvere le ragioni strutturali all’origine della marginalità di un territorio, di un borgo, di una città, ci spalmi sopra della vernice colorata. In particolare, l’illusione di tutti i discorsi sul turismo come risorsa e traino della crescita del Mezzogiorno, un settore, peraltro, quantomai vulnerabile al calo demografico e alle fluttuazioni della domanda interna ed estera.

Fondamenti per un programma di Rinascita

Contro il declino. Per la Rinascita della Nazione. Un programma i cui assi sono contenuti nel programma fondamentale scritto nella nostra Carta costituzionale. La nostra strada maestra. Ma dobbiamo smettere di darne una lettura retorica e imbalsamata nelle sue pur sacrosante disposizioni testuali della seconda parte, quelle che disciplinano l’Ordinamento della Repubblica. La nostra non è semplicemente una Costituzione garanzia. È anche, anzi soprattutto, una Costituzione programma. Una Costituzione che contiene nei principi fondanti e nella Prima parte sui Diritti e sui Doveri dei cittadini un progetto fondamentale di trasformazione e di emancipazione sociale, economica e politica dei lavoratori e delle classi popolari. Una Costituzione che va vissuta nella vita di ogni giorno, una Costituzione in cui ogni generazione narra la sua polemica politica e sociale rispetto “allo stato delle cose presenti”. È avvenuto con lo Statuto dei lavoratori – la nostra seconda Costituzione del lavoro – e con le grandi riforme degli anni Sessanta e Settanta che hanno modernizzato e civilizzato il Paese. Riforme tutte fatte in nome del programma fondamentale contenuto nella Carta del ’48: dall’istituzione delle Regioni alla riforma del diritto di famiglia, dalla riforma tributaria all’istituzione del servizio sanitario nazionale, a tante altre. La Costituzione con il suo bagaglio di diritti civili, sociali e politici – si disse allora – entrava in fabbrica, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle Università, nelle professioni. Oggi che tutta la società è diventata ancor più di allora una società fabbrica, in cui crescono a vista diseguaglianza e discriminazioni, quel programma fondamentale di trasformazione e di emancipazione sta diventando ancora più urgente. Possiamo, dobbiamo, farlo diventare di nuovo attuale se riusciremo a prendere sul serio la drammatica condizione di sradicamento e povertà in cui sono tornati a vivere i lavoratori, giovani e meno giovani, i lavoratori indigeni e i lavoratori immigrati. Chiamare questa condizione con la lingua semplice degli umili. Sfruttamento, alienazione, espulsione delle comunità dai loro mondi vitali, dalle loro culture. Uno sfruttamento, un’alienazione, un’espulsione che, oggi come allora, non sono un destino. Ma il prodotto di un tempo che ha visto prevalere negli ultimi decenni una ragione, la ragione tecno-economica neoliberale, oggi ambiguamente contestata e insidiata da un’altra ragione, la ragione (neo) populista e (neo)sovranista, la cui complice grammatica va adeguatamente compresa, decodificata, demistificata. Un’impresa che esige che torniamo ad amare il popolo nella sua odierna, dolorosa, sofferente, prima pelle. E che, contestualmente, torniamo a far venire alla luce la sua seconda pelle, quella che nomina e fa sue la pratica del riscatto e dell’emancipazione. Il lavoratore della catena di montaggio incarnato da Charlie Chaplin in Tempi moderni era un uomo sconfitto, non vinto. Quel lavoratore non avrebbe potuto ‘cantare’ la riduzione del suo fare a un’attività meramente meccanica, ripetitiva e asservita a un fine esterno, se non avesse sviluppato la convinzione che la riduzione del lavoro a mero mezzo di sopravvivenza in funzione del mondo del padrone era una spaventosa weberiana gabbia d’acciaio, non una legge eterna e naturale.

Ci attende, in un mondo che sempre più assomiglia ad una macro gabbia di acciaio, un compito analogo e ancor più impegnativo. Mettersi sulle spalle gli infiniti “scarti” delle odierne “società fabbrica”. Non si tratta di andare in direzione ostinatamente contraria a come va il mondo, nella supponenza di essere, solitariamente ed aristocraticamente, sulla strada maestra. “Cercate, cercate ancora” diceva pochi decenni fa, rivolto ai suoi ‘compagni’, un eterodosso economista di formazione marxista, Claudio Napoleoni. Non lo abbiamo, colpevolmente, fatto. È tempo di un’autocritica profonda. È tempo di amare qui ed ora il popolo, gli umili, le nuove generazioni, quelle presenti, senza rifugiarsi nella comoda e consolatoria ideologia di un indistinto e futuribile sviluppo sostenibile.

Se non il sindacato, se non la Cgil, chi?

In copertina: Piero Barducci,  Our Heroes! (2025)

Destre al governo, destre di governo | Lab Politiche e Culture