Come funziona il Partito Democratico all’estero? Quali attività compie, quali temi presidia, con quali realtà sociali e politiche collabora? Ci siamo fatti illustrare questi e altri temi in un confronto con Lorenzo Ammirati, giovane segretario del PD nel Regno Unito e membro dell’Assemblea nazionale del PD.
Come è strutturato il PD all’estero, a livello organizzativo e funzionale, e in particolare nel Regno Unito e nelle sue nazioni costituenti?
Il PD è l’unico partito italiano presente in tutti e cinque i continenti. La struttura è plasmata su quella italiana: c’è l’unità territoriale, che è il circolo, poi c’è l’unità di un singolo Paese, chiamata federazione ed equiparabile a un livello provinciale in Italia, e poi c’è l’intera struttura estera, che nell’assetto del PD è equiparata a una regione. Il partito è più presente dove ci sono più italiani, o più precisamente, dove l’emigrazione storicamente è stata più consistente: Sud America, alcune zone del Nord America, Paesi europei come Svizzera, Germania e Belgio.
Nel Regno Unito abbiamo tre circoli, che corrispondono alla demografia degli italiani, non alla ripartizione interna del Regno Unito. Il circolo di Londra copre quella che è di fatto una regione a sé stante, in cui vivono centinaia di migliaia di italiani. Al circolo di Manchester fanno riferimento le comunità di città come York, Sheffield, Liverpool, Birmingham. Infine, le comunità che vivono nelle Irlande e in Scozia fanno riferimento al circolo di Edimburgo.
Qual è la popolazione che rappresentate? Quali persone si avvicinano a voi e quali istanze vi viene chiesto di rappresentare?
Il partito all’estero funge da cinghia di trasmissione delle esigenze degli italiani. Esigenze variegate, perché coinvolgono Paesi molto diversi e perché riguardano sia gli italiani emigrati sia, in alcuni casi, gli italodiscendenti. Il partito svolge anche il lavoro opposto, di cinghia di trasmissione di informazioni, pratiche, battaglie politiche, dall’Italia alle comunità che stanno all’estero. Anche se una persona non è direttamente coinvolta da un cambiamento legislativo, può decidere, per un desiderio futuro di rientro, o per solidarietà verso chi è in Italia, di attivarsi.
Le ondate di interesse seguono in genere i cicli politici italiani, che sono le leve che spingono le persone ad avvicinarsi. A Londra la composizione rispecchia l’immigrazione italiana: fasce d’età giovani, per lo meno per gli standard italiani, dai 25 ai 40 anni. Dove ci sono comunità più radicate, con un’immigrazione pluridecennale – in certe zone del Nord dell’Inghilterra siamo già alla seconda generazione – l’età media è un po’ maggiore, sebbene più bassa che in molti circoli in Italia.
A noi si avvicinano in sostanza due profili di persone. Il primo è più legato all’aspetto di comunità: persone che tengono ad avere un punto di riferimento italiano. Possono essere persone che fanno parte anche di altre associazioni, o persone arrivate nel Regno Unito da poco, comunque mosse da valori compatibili con i nostri. Con le nostre attività affrontiamo i loro bisogni, non solo materiali, perché è molto facile sentirsi soli all’estero. Il secondo profilo è prettamente politico: persone che si avvicinano perché vogliono fare campagne, vogliono battersi su alcuni temi, si interessano al dibattito nel PD.
Quali sono i temi prioritari su cui lavorate? Qual è il bilanciamento fra questioni di politica italiana, di politica interna britannica e di politica europea?
Prevale la politica italiana. Ci sono momenti di dibattito di opinione, che sostituiscono momenti informali che una persona avrebbe vivendo in Italia. Ci sono poi occasioni in cui il focus è ben preciso, spesso seguendo l’agenda italiana, che l’accento sia posto sul lavoro, su temi internazionali o su altro ancora. Non vivendo noi in Italia, manca peraltro tutta la parte di dibattito locale e regionale, sull’operato di questo o quell’assessore.
Dei temi di politica britannica si parla soprattutto in momenti elettorali o per grandi eventi, però non nella quotidianità, poiché c’è molta più possibilità di farlo con i colleghi, con gli amici o i familiari, oppure iscrivendosi al circolo laburista del proprio quartiere o della propria città.
Di fatto, c’è anche poca politica europea, soprattutto dopo la Brexit, perché il discorso è schiacciato sul tema di un possibile rientro o di un riavvicinamento del Regno Unito all’UE. C’è in ogni caso un’attenzione più forte del normale verso il contesto internazionale. Spesso le persone hanno alle spalle percorsi migratori che li hanno condotti dall’Italia attraverso più Paesi prima di approdare qui, e che quindi li fanno sentire vicini a varie parti del mondo. Questa sensibilità particolare viene riversata nel dibattito dei nostri circoli.
Aggiungo infine che ci occupiamo anche di questioni molto pratiche, spesso di natura burocratica, legate all’accesso ai servizi dall’estero, che non è semplice, ai beni posseduti in Italia, alle pensioni. Ora ci stiamo occupando delle modifiche introdotte dal Governo Meloni sui criteri per trasmettere la cittadinanza italiana ai nati all’estero. Sono problemi di policy, che magari scaldano meno i cuori, ma che hanno un’importanza fondamentale per chi vive all’estero e sui quali cerchiamo di essere utili.
Quali sono le vostre attività prevalenti, al di fuori di campagne per le elezioni, i referendum o altri grandi eventi?
La nostra routine è fatta di riunioni di comunità, seguite a volte da momenti sociali, come una serata ad un pub. Gli incontri hanno quasi sempre una parte fisica. C’è una questione legata agli spazi: in alcune zone riusciamo ad ottenere sale gratis o a prezzi scontati da certe associazioni, in altre meno, il che è un problema dal momento che ci autofinanziamo. Proviamo comunque a evitare riunioni unicamente online, perché si perde la parte umana e di socialità. E al tempo stesso, cerchiamo di rendere sempre possibile la connessione da remoto, per chi vive lontano. I circoli si riuniscono con cadenze diverse, ma, di norma, una volta al mese. Anche in estate però, quando gli incontri si diradano, siamo impegnati al fianco di varie associazioni.
Quali rapporti avete con le branche del PD in altri Stati e, in secondo luogo, con il Labour Party e i partiti britannici? E con associazioni della società civile, italiane e britanniche?
Con le altre federazioni del PD nel mondo ci interfacciamo molto, soprattutto con quelle europee ma non solo, perché spesso le problematiche sono simili. Vale per questioni burocratiche, legate a documenti o a esigenze pratiche. E vale anche per temi politici che stanno specialmente a cuore agli italiani all’estero e per proposte politiche a cui lavoriamo insieme. Negli anni, ad esempio, diverse proposte per facilitare il rientro degli italiani all’estero sono state elaborate proprio dal PD estero.
Ci rapportiamo anche con una serie di reti italiane all’estero: i patronati della CGIL, quelli delle ACLI, l’ANPI, l’ARCI, e diverse altre. Su alcune iniziative specifiche ci muoviamo con loro, a livello a volte di singola città, a volte di Paese e a volte addirittura europeo.
Per quanto riguarda invece i partiti britannici, né i nostri circoli né la nostra federazione, come tali, se ne occupano. I rapporti avvengono o a livello bilaterale, tra il PD nazionale e gli headquarters laburisti, o attraverso il PSE. È il PD nazionale a identificare nel partito laburista il nostro solo sister party britannico. Non sempre la consonanza tra i due partiti è perfetta, ma molte persone, me compreso, sono attivisti in entrambi i partiti. Il PD del Regno Unito si relaziona magari con alcuni parlamentari laburisti, se rappresentano zone ad alta percentuale di italiani, o se sono attenti ai temi legati all’immigrazione o all’Europa. Sono però relazioni che costruiamo laddove ciò interessa ai nostri iscritti e al parlamentare stesso. Oltre a ciò, mandiamo sempre una rappresentanza alla conferenza annuale del partito laburista.
Con associazioni britanniche abbiamo più che altro rapporti ad hoc, perché il focus sia del nostro partito sia di chi si avvicina a noi è più spostato sull’Italia. Nei momenti di incertezza sui diritti a causa della Brexit, ci siamo relazionati con associazioni come Citizens Advice. Oppure di advocacy, come Three Million, che fa lobbying per i diritti dei cittadini europei nel Regno Unito dopo la Brexit. E dato che promuoviamo l’attivismo locale tra i nostri iscritti, siamo entrati in contatto, ad esempio, con gruppi di volontari che si occupano di abbellire gli spazi nei quartieri, o di distribuire pasti ai senzatetto.
Sulla base delle vostre esperienze, ci sono buone pratiche o lessons learned che tu possa condividere a beneficio di chi provi a fare politica progressista?
Innanzitutto, l’impressionante sistema costruito negli anni – con seri investimenti – dal partito laburista, che grazie alla raccolta dati costante da parte degli iscritti sul territorio riesce a “targettizzare” persone, gruppi, zone. Altro che partito liquido! Oltre a trovare facilmente indicazioni su circoli, gruppi WhatsApp, mappe con eventi in tempo reale, un volontario in campagna elettorale riceve un foglio con indicazioni sui temi da discutere “porta a porta”, e un altro foglio che, per ogni indirizzo da visitare, riassume le scelte di voto di chi abita lì. Il volontario aggiunge dati man mano, i fogli sono raccolti e analizzati e questo permette poi al partito centrale una comunicazione mirata.
C’è poi la conferenza annuale del partito. È un momento di incontro e confronto, certo mediato da regole, che però dà modo di presentare mozioni a tutti i delegati di quella che noi chiameremmo l’Assemblea nazionale, che le studiano, possono proporre emendamenti, e così via. La base riesce così a sottoporre delle istanze, che possono anche non essere accolte, ma intanto sono discusse. Alla prossima conferenza, di fatto la prima dalle elezioni che hanno riportato il Labour al governo, potrebbero esserci mozioni su temi controversi, come i tagli ad alcune misure di previdenza sociale o la recente stretta sull’immigrazione.
Infine, la capacità di inclusione. Il partito laburista ha saputo includere gruppi sociali tendenzialmente esclusi, come gli immigrati – tra cui anche noi immigrati europei, ma prima ancora gli immigrati dal resto dell’ex impero – in un Paese in cui esiste una popolazione britannica chiaramente maggioritaria. Vale anche per la questione femminile: nel Labour esiste una maggioranza maschile, ma la sproporzione è minore che nel PD. Si è lavorato per dare più spazio, e provare a dare anche più potere, a gruppi storicamente esclusi. Del resto, l’idea fondativa era dare potere agli esclusi dell’epoca, cioè gli operai. È una lezione per i partiti di centrosinistra dell’Europa “continentale”, che agiscono in Paesi oggi multiculturali.