Dinanzi al forte arretramento dello Stato sociale, esse non si sono più limitate a curare questioni esclusivamente comunali, ma si sono fatte carico di problemi che originano e si riproducono ad una scala nazionale o persino sovranazionale e che hanno un impatto sui diritti dei propri abitanti.
Talvolta, in una situazione tipica delle democrazie moderne, in cui proprio i diritti appaiono come (semplici) prerogative da difendere contro libertà economiche localizzate territorialmente da un mercato sempre più globale, questo ha richiesto anche di confrontarsi con attori economici internazionali, che guardano però alle stesse città come ad una growth machine[1].
Si pensi, ad esempio, alle sfide di portata sovranazionale poste dalla transizione ecologica e alle minacce che incombono sui territori in conseguenza dei cambiamenti climatici. O si pensi, ancora, all’emergenza abitativa e alla solitudine con cui spesso le città devono fronteggiare i grandi colossi immobiliari.
Ciononostante e a dispetto della complessità dei tempi attuali, frutto dell’incessante susseguirsi di crisi (economica, sanitaria, ambientale, climatica, militare, etc.) che minano la stessa tenuta delle istituzioni, proprio le città hanno dimostrato di saper elaborare, progettare e sperimentare politiche pubbliche, anche innovative, a presidio e tutela dei diritti dei propri cittadini.
Questo certamente è stato possibile anche in ragione del maggior grado di vicinanza e prossimità che esse intrattengono con le proprie comunità.
Prossimità che le rende, appunto, le prime e, di questi tempi, spesso anche le uniche istituzioni – qui sta il problema – a preoccuparsi per il tipo di vita che le persone sono effettivamente capaci di condurre.
Ma è anche una prossimità che, nel consentire un’interazione stretta tra amministratori e amministrati, ha reso possibile il proficuo ricorso alla partecipazione civica nell’assunzione di decisioni pubbliche, specie di quelle che riguardano la “forma urbana” delle città.
In quanto pratica che, da un lato, consente l’introduzione ampia di interessi deboli e non organizzati di cittadini, residenti, utenti, city users, e, dall’altro, permette agli stessi amministratori di conoscerli e verificarli in concreto, la partecipazione civica applicata all’azione di governo locale può assicurare infatti qualità, correttezza, legittimazione e giustizia alle decisioni di governo del territorio, secondo una complessiva prospettiva democratica che punta all’inclusione sociale.
Si pensi alla distribuzione territoriale di beni e servizi, inclusi quelli sulla mobilità, o alla presenza di aree verdi e spazi ben costruiti, siano essi destinati a soddisfare bisogni abitativi, di lavoro, di studio o ricreativi.
Si tratta di aspetti di non poco momento, poiché tutti e ciascuno di essi creano le condizioni per lo sviluppo della persona umana, la costruzione di un progetto di vita individuale di qualità e la convivenza civile[2].
Sono queste, chiaramente, considerazioni che tendono all’ottimo, e che guardano al migliore risultato cui si possa aspirare. Ma vi è anche un’altra verità, spesso predominante o, comunque, più diffusa che bisogna considerare.
Non può infatti passare inosservato quanto in molte, troppe, realtà del nostro Paese continuino a perpetuarsi forme di disparità nell’accesso a beni e servizi, situazioni di povertà e di segregazione urbana. E ciò si deve in larga parte alle stesse difficoltà amministrative di molti Comuni italiani.
Dopo quasi due decenni di crisi, essi appaiono come attori sempre più deboli davanti ad élites imprenditoriali che ambiscono a dominare le dinamiche immobiliari e le grandi trasformazione urbane[3].
Per l’effetto, continuiamo ad assistere ad una forte polarizzazione della rendita urbana a vantaggio di pochissimi soggetti, alla diffusione di processi di gentrificazione di interi quartieri, assistiti, ora, da fenomeni greenwashing che alimentano ulteriori forme di disuguaglianza e di povertà energetica, e, non per ultimo,al dilagare di forme di privatizzazione o semi-privatizzazione degli spazi pubblici[4].
Tutto ciò rende le stesse città dei luoghi inaccessibili e ostili ai più, e le comunità rimangono inascoltate e spesso ai margini di questi processi.
In questo senso, va infatti considerata anche un’altra tendenza sempre più diffusa presso molte amministrazioni comunali, orientata alla riduzione dei momenti di partecipazione all’interno del circuito decisionale pubblico.
Essa si deve, in particolare, al dilagare nella legislazione statale e regionale degli ultimi anni di soluzioni di deregolamentazione e liberalizzazione, che hanno avuto come obiettivo quello di bypassare le stesse amministrazioni e il controllo comunale sulle attività private. A questo si aggiunga, più di recente, l’imposizione di regimi di tipo emergenziale (si pensi, per esempio, alla gestione dei fondi PNRR), che hanno obbligato gli stessi Comuni ad abbandonare o sacrificare il confronto e il dialogo con cittadini e residenti.
Tutto ciò nella (errata) convinzione che eliminare fasi del processo decisionale aperte alla consultazione civica possa giustificarsi alla luce di esigenze di celerità, speditezza e di risultato dell’azione pubblica, specie quando quest’ultima è finalizzata alla cura di interessi giudicati superiori[5].
Se questa è la situazione generale, non può allora che essere riconosciuto il ruolo pilota che Bologna ha svolto e continua a svolgere proprio su questi fronti.
Basterebbe infatti soffermare l’attenzione su un periodo relativamente recente dell’esperienza amministrativa bolognese, per testare quanto si è detto poc’anzi circa l’utilità del ricorso ad un metodo di governo aperto al confronto con i cittadini. Sicché, com’è stato messo in evidenza da più parti, il “modello Bologna” incarna sotto diversi profili e secondo diverse traiettorie il paradigma della “città collaborativa” o, detto in altri termini, della “città più progressista d’Italia”.
Dopo infatti l’approvazione, nel 2014, del primo Regolamento italiano sulla gestione condivisa dei beni comuni che ha innescato in tutta Italia la diffusione generalizzata di un metodo innovativo di azione amministrativa per la cura di interessi generali (c.d. amministrazione condivisa), negli ultimi anni è ormai in via di progressivo affinamento un metodo di programmazione e progettazione partecipata delle politiche per la città, effettivo e all’avanguardia.
Senza considerare la gestione straordinaria dei progetti legati al PNRR (come “Impronta verde”, “Città della Conoscenza” e “Museo dei Bambini e delle Bambine”), che pure hanno tratto linfa vitale dal costante dialogo intrattenuto dal Comune con i propri cittadini soprattutto durante il periodo del Covid-19, si pensi, nella fase più recente, all’importanza riconosciuta dal Comune ai Laboratori di quartiere (come, fra gli altri, il Laboratorio Parco Montagnola), coinvolti nella co-progettazione e, poi, nell’approvazione delle proposte di rigenerazione urbana confluite anche nel Bilancio partecipativo del 2023; o, ancora, al processo di conversione delle Case di Quartiere, coordinate a livello territoriale, e unità fondamentali degli stessi quartieri per lo svolgimento di azioni di prossimità a beneficio, in particolare, degli anziani.
Ma si pensi, ancora, all’istituzione nel 2022 dell’Assemblea cittadina per il clima, con cui Bologna ha segnato un nuovo primato, trattandosi della prima città in Italia ad aver inserito nel proprio Statuto un “organo temporaneo del Comune” ad “alto valore democratico”, composto da residenti (siano essi cittadini o stranieri) e city users (come studenti fuori sede e pendolari), chiamati ad elaborare proposte in materia di transizione energetica, riduzione delle emissioni, giustizia climatica e contrasto a fenomeni di povertà e marginalizzazione, anche tramite l’individuazione di nuovi strumenti amministrativi o il miglioramento di quelli esistenti[6].
Del resto, in questi anni, Bologna ha approvato anche nuove previsioni normative di carattere strategico.
Nel 2021 è stata introdotta nello Statuto una norma (l’art. 4-bis) sulla cittadinanza attiva e la sussidiarietà, che segna, non solo programmaticamente, la volontà del Comune di coinvolgere attivamente in tutti i propri processi di programmazione e progettazione “gli Enti del Terzo settore, le libere forme associative, le Case di Quartiere e tutti gli altri soggetti civici formali e informali che non perseguono scopo di lucro”.
Ancora, nel 2022, è stato modificato il Regolamento sui diritti di partecipazione e di informazione dei cittadini, al fine di dare avvio e garantire l’effettivo funzionamento dell’assemblea cittadina, direttamente coinvolta nel raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica entro il 2030 fissati tramite il Climate City Contract.
Ad inizio 2023, infine, è entrato in vigore il nuovo Regolamento generale sulle forme di collaborazione tra soggetti civici e amministrazione per la cura dei beni comuni urbani e lo svolgimento di attività di interesse generale, con cui il Comune ha intenso proiettarsi oltre i risultati sin qui conseguiti attraverso il metodo dell’amministrazione condivisa.
Basterebbe qui citare, oltre alla diversificazione degli strumenti per formalizzare la collaborazione civica con i soggetti più disparati, anche solo la regolamentazione della concessione di beni immobili, tema particolarmente sentito nella realtà bolognese.
Peraltro, oltre all’Albo degli immobili comunali messi a disposizione per la realizzazione di progetti civici previsto nel nuovo Regolamento, che si somma alla disciplina sugli usi temporanei già presente nel Regolamento edilizio del Comune, sotto questo fronte vanno ricordate almeno altre due misure caratterizzate da forme di partecipazione e di amministrazione condivisa.
Si tratta dell’Albo degli immobili dismessi, utilizzato prevalentemente per gli usi temporanei, e dell’Atlante degli immobili dismessi, frutto esso stesso di un patto di collaborazione tra il Comune e l’associazione Planimetrie culturali, che prevede, tra l’altro, la realizzazione di un percorso partecipato tramite le segnalazioni e il contributo attivo dei cittadini.
In questo scenario di ordinaria amministrazione, solo stilizzato, e che per esigenze di spazio non può rendere onore all’impegno e all’attivismo civico di questa città, va ricordato, da ultimo, quanto fatto ancora dall’amministrazione bolognese a proposito dell’emergenza abitativa anche a sostegno del c.d. ceto medio.
Da un lato, non può non menzionarsi quanto successo nel 2024 nell’area dell’ex Scalo ferroviario Ravone, oggetto di un Piano urbano integrato finanziato dal PNRR.
Qui si è verificato un evento più unico che raro, di un’amministrazione comunale (quella, appunto, di Bologna) che ha dovuto espropriarne una statale (FS Sistemi Urbani S.p.A.) per restituire alla città parti del proprio territorio su cui, tra i vari interventi, è prevista la realizzazione di forme di abitare sociale.
Dall’altro, andrebbe richiamato il fortunato esito del percorso partecipato avviato durante il procedimento di variante al Piano urbanistico generale (PUG) del 2024.
In accoglimento di un’osservazione presentata da un collettivo di giovani lavoratori e studenti, il Comune ha infatti introdotto nel proprio Regolamento edilizio una nuova destinazione d’uso (c.d. B3), funzionale ad arginare il fenomeno degli affitti brevi e la turistificazione di alcuni quartieri.
Si tratta, di nuovo, della prima città in Italia ad aver introdotto una soluzione di questo tipo sul piano urbanistico e, soprattutto, la prima ad aver ricevuto l’avallo da parte di un giudice.
Giudice che, tra l’altro, ha riconosciuto la legittimità della soluzione introdotta, proprio perché fondata sui riscontri forniti da precise attività istruttorie relative al fabbisogno abitativo presente in città, le quali, ancora una volta, si fondano da ormai qualche tempo anche su momenti partecipativi come quello dell’Assemblea pubblica sulla casa.
Tutto ciò a dimostrazione del fatto che di Bologna si può affermare nel suo particolare quanto detto delle città in generale, e cioè che la qualità della vita delle persone passa anche attraverso l’assunzione di decisioni pubbliche fondate sulla partecipazione civica; ma, soprattutto, che il progresso di una città nel suo complesso si deve alle politiche innovative e all’avanguardia che un’amministrazione riesce a mettere in campo per il bene comune e a sostegno dei propri cittadini e dei loro bisogni e diritti, a dispetto e nonostante le difficoltà e le complessità attuali.
[1] H. Molotch, The City as a Growth Machine: Toward a Political Economy of Place, in American Journal of Sociology, Vol. 82, no. 2 (Sept., 1976), p. 309 ss.
[2] M. De Donno, Il ruolo delle città e la giustizia spaziale: profili e conseguenze istituzionali, organizzative e distributive, in M. Doria, F. Pizzolato, A. Vigneri (a cura di), Il protagonismo delle città. Crisi, sfide e opportunità nella transizione, Bologna, il Mulino, 2024, p. 251 ss.
[3] P. Urbani, Lo stato dell’urbanistica. Viaggio nella disciplina e nella società, Torino, Giappichelli, 2024.
[4] A. Alietti, R. Farinella, Per un manifesto contro la città autoritaria, 11 gennaio 2024, disponibile al seguente link: https://volerelaluna.it/territori/2024/01/11/per-un-manifestocontro-la-citta-autoritaria.
[5] F. Giglioni, Administrative Complexity and Participation: an Inextricable Knot, in M. De Donno, F. Di Lascio (eds.), Public Authorities and Complexity. An Italian Overview, Napoli, ESI, p. 3 ss.
[6] Per un approfondimento, M. De Donno, L’emergenza climatica e la democrazia partecipativa,in Giornale di diritto amministrativo, 6, 2022, p. 755 ss.